Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5494 del 22/10/2013


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 5494 Anno 2014
Presidente: DE ROBERTO GIOVANNI
Relatore: ROTUNDO VINCENZO

Data Udienza: 22/10/2013

SENTENZA
sui ricorsi proposti nell’interesse di:
1. Grifo Adriana, nata a Palermo il 2-6-58;
2. Valdesi Rosaria, nata a Palermo il 24-4-56,
avverso la sentenza in data 18-1-12 della Corte di Appello di Palermo,
sezione I penale.
Visti gli atti, la sentenza impugnata ed i ricorsi.
Udita la relazione fatta dal Consigliere, dott. Vincenzo Rotundo.
Udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore Generale, dott. Scardaccione, che ha concluso per il rigetto dei

ricorsi.
fi’ ft. flet4-Pdi:P z par.; o p4. , che hanno
«‘•
RE114
Uditi i difensori, avv.ti TRAi
insistito per l’accoglimento dei ricorsi.
FATTO E DIRITTO
Il
Tribunale
di
Palermo,
con
sentenza
in data 3-11-2008, ha ritenuto Grifo Adriana
1 .-.
e Valdesi Rosaria responsabili, in concorso tra loro, del delitto continuato di peculato ai
danni della Provincia Regionale di Palermo, per avere, quali responsabili dei
procedimenti in servizio presso la Direzione Gare e Contratti della Provincia di
Palermo, predisposto determinazioni dirigenziali connesse ai contratti di appalto
stipulati da detta Provincia, indicando importi di spesa (relativi all’acquisto di valori
bollati da apporre sui predetti contratti) superiori a quelli effettivamente dovuti,
appropriandosi della differenza pari, nel quinquennio 2000-2005, complessivamente a
circa 45.700 euro (fatti commessi in Palermo fino al dicembre 2005).
Per l’effetto il Tribunale di Palermo ha condannato la Grifo e la Valdesi alla pena di
anni tre e mesi tre di reclusione ciascuna (condonata nella misura di anni tre), con
interdizione in perpetuo dai pubblici uffici e con obbligo di risarcire i danni in favore
della parte civile costituita, liquidati in complessivi euro diecimila, nonché di rifondere
le spese dalla medesima parte civile sostenute, liquidate come da dispositivo.
La Corte di Appello di Palermo, in data 18-1-12, con la sentenza indicata in epigrafe, in
parziale riforma della pronuncia di cui sopra, ha concesso a Grifo Adriana e Valdesi
Rosaria l’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c. p., riducendo la pena inflitta a anni tre di
reclusione ciascuna, confermando nel resto e condannando le imputate alla rifusione
delle spese di parte civile, liquidate come da dispositivo.

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2 . . Avverso la predetta sentenza del 18-1-12 hanno presentato ricorso per cassazione,
tramite i rispettivi difensori, Grifo Adriana e Valdesi Rosaria, chiedendone
l’annullamento.
Grifo Adriana, in un primo ricorso a firma dell’avv. Reina, deduce:
• Violazione di legge e vizio di motivazione per essersi la Corte di Appello
pronunciata su un fatto ontologicamente diverso (avere firmato impegni di
spesa per importi superiori a quanto necessario) da quello originariamente
contestato (avere predisposto determine dirigenziali, indicando importi di spesa
superiori a quelli effettivamente dovuti).
• Violazione di legge e vizio di motivazione per avere la Corte di merito
affermato la penale responsabilità delle imputate senza provvedere alla
indispensabile acquisizione delle determine dirigenziali, i cui importi sarebbero
stati alterati dalle responsabili del procedimento negli anni 2000-2005.
• Violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento al diniego delle
attenuanti generiche.
La medesima Grifo, in un secondo ricorso a firma dell’avv. Traina, denuncia:
• Erronea applicazione degli artt. 314 e 640 c.p., per essere la condotta posta in
essere dall’imputata inquadrabile nel delitto di truffa e non in quello di peculato.
Infatti, a seguito della aggiudicazione degli appalti e prima della firma dei
contratti, le ditte aggiudicatici versavano presso un conto della Provincia le
spese materiali occorrenti per la stipula, tra cui anche quelle relative alle marche
da bollo necessarie per l’originale del contratto ed i suoi allegati e per la copia
da trasmettere alla agenzia delle entrate per la registrazione. Compito della
Grifo (e della coimputata) era quello di calcolare tali spese, in particolare
contando le pagine sulle quali dovevano essere apposte le marche da bollo, in
modo che il dirigente dell’ufficio, con una determina a sua firma, ne chiedesse il
preventivo versamento. Si ipotizza da parte dell’Accusa che in un numero
imprecisato di contratti la Grifo (o la coimputata) avrebbe prospettato che
occorreva un numero superiore di marche da bollo rispetto a quelle necessarie,
facendo sì che il privato contraente versasse il deposito-spese in misura
superiore rispetto al necessario. Era poi la stessa Grifo (o la coimputata) che,
dopo avere ricevuto l’importo dal cassiere dell’ufficio, si recava dal tabaccaio
ad acquistare le marche da bollo: in quella circostanza, avrebbe acquistato
soltanto quelle effettivamente necessarie, trattenendo la differenza tra quanto
artatamente prospettato in più e quanto effettivamente speso, differenza a lei
versata in contanti dallo stesso tabaccaio. Quindi con l’artificio di rappresentare
un numero superiore di pagine sulle quali apporre le marche da bollo e
conseguentemente un numero superiore di marche necessarie, la ricorrente (o la
coimputata) avrebbero conseguito lo scopo di avere la disponibilità di una
somma superiore a quella necessaria, e, quindi, si sarebbero appropriate della
differenza. In definitiva, la disponibilità della somma di denaro sarebbe derivata
dalla artificiosa rappresentazione di un numero superiore di pagine sulle quali
apporre le marche da bollo, in modo da ottenere che il privato contraente, a
titolo acconto-spese, versasse una somma superiore a quella necessaria. La
Grifo, cioè, non aveva né avrebbe potuto avere la disponibilità delle somme di
denaro di cui si sarebbe appropriata, se non avesse preventivamente posto in
essere una attività artificiosa, tendente a far sì che il privato contraente versasse
al suo ufficio, a titolo di acconto-spese, un importo superiore al necessario. Tale
obiettivo sarebbe stato raggiunto dall’imputata (e dalla Valdesi) rappresentando
che le pagine sulle quali avrebbero dovuto essere apposte le marche da bollo
erano maggiori del numero reale e, quindi, prospettando che servivano marche

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da bollo in più rispetto al necessario. Da ciò conseguirebbe che nelle fattispecie
in esame sarebbe ravvisabile non il reato di peculato, ma quello di truffa con
abuso delle condizioni di cui all’art. 61 n. 9 c. p., per di più commessa ai danni
di privati.
Valdesi Rosaria, tramite il suo legale, avv. Inzerillo, eccepisce:
• Violazione di legge e vizio di motivazione in punto di affermazione della sua
responsabilità per il delitto ascrittole, in quanto la sua colpevolezza sarebbe
stata basata su una ricostruzione delle deposizioni dibattimentali in palese
contrasto con l’effettivo contenuto delle medesime e su argomentazioni che non
avrebbero dato risposta alcuna alle doglianze formulate con i motivi di gravame.
• Violazione di legge e vizio di motivazione per la erronea attribuzione
all’imputata della qualifica di pubblico ufficiale, in quanto le mansioni da lei
svolte (mero conteggio delle pagine del contratto e degli allegati e successivo
calcolo delle marche da bollo necessarie) rientrerebbero tra quelle d’ordine.
• Apparenza della motivazione in ordine alla ricostruzione del fatto, alla
personale attribuibilità ad essa Valdesi del reato contestato, al valore probatorio
da attribuire alle deposizioni Garofano e La Venia.
• Contraddittorietà della motivazione in relazione al diniego della attenuante di
cui all’art. 323 bis c.p. ed al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.
************
In prossimità della odierna pubblica la difesa di Grifo Adriana ha depositato motivi
nuovi, con i quali insiste per l’accoglimento del ricorso, ribadendo che sarebbe stato
indispensabile acquisire agli atti le determine dirigenziali che dal 2000 al 2005
sarebbero state alterate nell’importo dei valori bollati necessari alla regolarizzazione
fiscale dei contratti e sottolineando che, quanto meno per i fatti commessi sino
all’agosto dell’anno 2000, il reato sarebbe ormai prescritto.
3 . . Il principale motivo di ricorso si incentra nella prospettata inquadrabilità dei fatti
contestati nel reato di truffa aggravata e non nel contestato delitto di peculato.
Si sostiene che le ricorrenti non avrebbero avuto ex ante il possesso delle somme di
denaro di cui si erano di volta in volta in volta appropriate, ma ne avrebbero ottenuto la
disponibilità solo attraverso artifici o raggiri, consistiti nelle falsa rappresentazione di
un numero di pagine da vidimare con marche da bollo maggiore rispetto a quello reale,
e con ciò nella induzione dei privati contraenti interessati a versare, a titolo di accontospese, un importo superiore al necessario.
La censura è infondata.
Si è già chiarito che la fattispecie di peculato si differenzia da quella di truffa, aggravata
ai sensi dell’art. 61 n. 9 cod. pen., perchè l’appropriazione ha quale presupposto di fatto
il possesso o comunque la disponibilità del bene in capo al soggetto agente, per ragioni
del suo ufficio o servizio, che quindi, per appropriarsi del bene, non è costretto ad
acquisirne fraudolentemente il possesso (Sez. 6, Sentenza n. 32863 del 25/05/2011, Rv.
250901, Pacciani; Sez. 6, Sentenza n. 39010 del 10/04/2013, Rv. 256595, Baglivo; Sez.
6, Sentenza n. 41599 del 17/07/2013, Rv. 256867, Fasoli).
I Giudici di merito hanno accertato che, contrariamente a quanto affermato dalle
ricorrenti, nel caso di specie, la Pubblica Amministrazione, dopo avere incassato le
somme dai privati per anticipare le spese di regolarizzazione dei contratti, aveva fatto
confluire il denaro in un proprio conto e successivamente aveva emesso i mandati di
pagamento necessari a sopperire a tali spese, e che le imputate si erano poi appropriate
del denaro derivante da tali mandati. Ne derivava che il denaro era stato già incamerato
dalla Pubblica Amministrazione ed era entrato nella sua disponibilità e che i
meccanismi elaborati dalle prevenute (conteggiare un numero maggiore di pagine da

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4 . . Alle medesime conclusioni deve pervenirsi in riferimento alla censura relativa alla
mancata acquisizione delle determine dirigenziali: le risultanze processuali,
dettagliatamente riportate nelle sentenze di merito, rendono chiaramente superflua la
acquisizione di tali atti, il cui contenuto è stato, per altro, analiticamente ricostruito in
base alle testimonianze assunte.
Altrettanto infondato è il primo motivo di ricorso proposto nell’interesse di Valdesi
Rosaria, in quanto basato su doglianze non consentite in sede di giudizio di legittimità.
Le censure de(ricorrente attengono invero alla valutazione della prova, che rientra nella
facoltà esclusiva del giudice di merito e non può essere posta in questione in sede di
giudizio di legittimità quando fondata su motivazione congrua e non manifestamente
illogica. Nel caso di specie, i giudici di appello hanno preso in esame tutte le deduzioni
difensive e sono pervenuti alla decisione impugnata attraverso un esame completo ed
approfondito delle risultanze processuali, in nessun modo censurabile sotto il profilo
della congruità e della correttezza logica.
Non possono poi sussistere dubbi né in ordine alla qualifica di pubblico ufficiale (posto
che le imputate svolgevano le mansioni di responsabili del procedimento in servizio
presso la Direzione Gare e Contratti della Provincia di Palermo) né in ordine alla
attribuibilità ad entrambe le prevenute del reato contestato (posto che è stato provato
che Grifo e Valdesi agivano in concorso tra loro, svolgendo le medesime funzioni in un
unico ufficio).
Infine correttamente la Corte di Appello ha motivato il diniego della attenuante di cui
all’art. 323 bis c.p., avendo preso in considerazione il fatto nella sua globalità, con
riferimento sia al danno complessivamente arrecato alla parte lesa sia alla pervicace
reiterazione nel corso di anni delle condotte gravemente lesive dei doveri dei pubblici
dipendenti, con grave compromissione del buon andamento della Pubblica
Amministrazione. I rilievi relativi al diniego delle attenuanti generiche si traducono in

bollare; accordarsi con il tabaccaio …) erano stati in realtà predisposti per occultare la
appropriazione da loro effettuata del danaro pubblico loro affidato e non per entrare in
possesso delle somme.
Su queste basi i Giudici di merito, nel ritenere sussistente nel caso di specie il reato di
peculato (e non quello di truffa aggravata), non hanno fatto che adeguarsi ai principi
esposti in materia dalla giurisprudenza di legittimità.
D’altra parte questa Corte ha altresì puntualizzato che é configurabile il delitto di
peculato in relazione al denaro pubblico il cui possesso, per effetto delle norme interne
dell’ente pubblico che prevedono il concorso di più organi ai fini dell’adozione dell’atto
dispositivo, fa capo congiuntamente a più pubblici ufficiali, anche se, di essi, quelli che
emettono l’atto finale del procedimento non concorrono nel reato per essere stati indotti
in errore da coloro che si sono occupati della fase istruttoria. Questo principio è stato
affermato in una fattispecie, del tutto analoga quella ora in esame, in cui è stato ritenuto
sussistente il delitto a carico di funzionari di un Comune che avevano istruito le
pratiche per l’emissione di titoli di spesa poi sottoscritti da dirigenti o altri funzionari
dei quali avevano carpito la buona fede, mediante falsi documentali ed artifici contabili
(Sez. 6, Sentenza n. 39039 del 15/04/2013, Rv. 257096, Malvaso).
Queste argomentazioni consentono di concludere per l’infondatezza anche del primo
motivo del primo ricorso proposto nell’interesse della Grifo (v. punto 2). D’altra parte
nel capo di imputazione risulta precisato che le imputate, quali responsabili del
procedimento, avevano predisposto le determine dirigenziali connesse ai contratti di
appalto stipulati dalla Provincia, indicando importi di spesa relativi all’acquisto di
valori bollati da apporre sui contratti superiori a quelli effettivamente dovuti, così
appropriandosi della differenza.

il

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doglianze di mero fatto, con le quali viene censurato il potere discrezionale del giudice
di merito pur adeguatamente motivato, nonché carenti della richiesta specificità là dove
si lamenta la mancata considerazione di elementi favorevoli alle imputate
semplicemente enunciati, senza alcuna indicazione della loro decisiva rilevanza.
5 . . Per i reati commessi nell’anno 2000, pur tenendo conto dei periodi di sospensione,
il termine di prescrizione risulta ormai spirato. La sentenza impugnata, in presenza,
come si è visto, di motivi di ricorso infondati ma non inammissibili, deve essere
pertanto annullata senza rinvio limitatamente a tali reati in quanto raggiunti da tale
causa estintiva, con eliminazione della pena relativa pari a un mese di reclusione per
ciascuna delle ricorrenti. Nel resto, per i motivi già esposti ai punti che precedono, i
ricorsi devono essere rigettati.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente ai reati commessi nell’anno
2000 perché estinti per prescrizione ed elimina la relativa pena di un mese di reclusione
per ciascuna delle ricorrenti. Rigetta nel resto i ricorsi.
Co ‘ deciso in Roma, il 22-10-2013.

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