Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5486 del 13/12/2013


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 5486 Anno 2014
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: PEZZELLA VINCENZO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
RANDO FRANCESCO N. IL 12/08/1937
avverso l’ordinanza n. 519/2012 TRIB. LIBERTA’ di ROMA, del
23/11/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. VINCENZO
PEZZELLA;
lette/sentite le conclusioni del PG Dott. Sbuytte ‘PDC na_ei, Q-9•12″
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Lidi • difensor Avv.;

Data Udienza: 13/12/2013

RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 30.11.2012 il Tribunale di Roma ha respinto l’appello
proposto da Francesco Rando – indagato quale amministratore unico della “E.

Giovi” srl per realizzazione abusiva di un nuovo impianto di smaltimento rifiuti in

assenza del permesso di costruire – avverso l’ordinanza emessa il 23.11.2012 e
depositata il 30.11.2012 dal Tribunale di Roma con cui era stato rigettato l’appello
avverso il provvedimento con cui in data 9.5.2012 il Gip di Roma aveva a sua volta
rigettato la richiesta di revoca del sequestro preventivo in atto dal 18.11.2011 delle
aree denominate “lotto 1” e “lotto 2” site nel complesso impiantistico di Roma
località Malagrotta, foglio catastale 412, particella 16.

2. Ricorreva per cassazione l’indagato, a mezzo dei propri difensori,
denunciando l’ inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e delle altre
norme giuridiche di cui si deve tenere conto nell’applicazione della legge penale
(art. 606 lett. b c.p.p.) e mancanza della motivazione. Il tribunale ha ritenuto,
condividendo quanto affermato dal gip del provvedimento appellato, che
l’autorizzazione numero 14/2005 del commissario straordinario, rilasciata alla Giovi
fosse divenuta priva di ogni efficacia. Pertanto i lavori realizzati dall’indagato
dovevano considerarsi illeciti sia perché intesi a realizzare una discarica senza il
necessario titolo abilitativo, sia perché, in difetto di permesso di costruire,
configuravano un intervento edilizio abusivo.
Secondo il ricorrente il tribunale avrebbe omesso di dare conto nella
motivazione delle censure difensive alle ulteriori argomentazioni avanzate,
limitandosi a ribadire quanto dedotto nello stesso provvedimento impugnato, senza
perciò rispondere ai rilievi svolti nell’atto d’impugnazione.

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La decisione del tribunale del riesame risulterebbe assunta innanzitutto in
violazione di legge ovvero frutto di un’erronea applicazione dei principi di
tassatività, legalità e delle norme giuridiche di cui ratíone materiae, si deve tener
conto nell’applicazione della legge penale, ivi compresa quella che disciplina il

procedimento amministrativo. In particolare si è ritenuto che l’efficacia
dell’autorizzazione debba coincidere con la durata dello stato di emergenza, che
costituiva presupposto per la nomina del commissario straordinario. In altri termini,
secondo il tribunale, cessato lo stato di emergenza, in assenza di ulteriori proroghe
dello stesso, il privato non poteva avvalersi dell’ordinanza commissariale numero
14/2005 , con la conseguenza di rendere illeciti i lavori svolti dall’indagato.
L’ordinanza del tribunale del riesame dovrebbe essere annullata, ad avviso
del ricorrente, in quanto avrebbe desunto l’invalidità e la perdita di efficacia del
provvedimento commissariale dalla cessazione dello stato di emergenza, in assenza
di qualunque previsione normativa in tal senso, nonché di qualsivoglia
provvedimento amministrativo che dichiarasse la cessazione di efficacia.
Il ricorrente si soffermava a confutare l’affermazione del tribunale secondo
cui l’autorizzazione rilasciata in base all’ordinanza numero 14 del 2005 avrebbe
perso qualunque efficace validità analizzando il rapporto tra lo stato di emergenza
e l’efficacia degli atti adottati dal commissario straordinario.
In particolare, richiamando una serie di pronunce della Corte Costituzionale
che hanno affermato la natura provvedimentale delle ordinanze di necessità e di
urgenza (in particolare le sentenze numero 127 del 1995, numero 418 del 1992,
numero 32 del 1991, numero 617 del 1986 è il numero otto del 1956), il ricorrente
faceva conseguire da ciò che i provvedimenti che risultano illegittimi possono
essere impugnati in via amministrativa, ovvero revocati in via di autotutela. In

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assenza di impugnazioni o di interventi in autotutela da parte dell’Amministrazione
competente si verificherebbe il consolidamento dell’atto amministrativo.
A riprova nel caso di specie della natura provvedimentale dell’atto
soccorrerebbe poi la lettura dello stesso, in quei passi in cui si autodefinisce

proporre ricorso al Tar entro 60 gg. e ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica entro 120 gg.
Ad avviso del ricorrente l’ordinanza commissariale avrebbe la natura e il
contenuto degli atti ordinari di cui fa le veci e, segnatamente, delle autorizzazioni di
cui all’art. 27 del D.Lgs. 227/1997 e dell’art. 15 della LR 27/1998, espressamente
richiamati nel testo del provvedimento.
La straordinarietà di tale atto si esaurirebbe nell’individuazione dell’autorità
preposta alla sua adozione (il commissario straordinario), nella sua veste formale
(quella dell’ordinanza) e nel procedimento seguito. Nel periodo dell’emergenza,
tuttavia, il commissario straordinario sostituisce integralmente le autorità ordinarie,
concentrando in sé i relativi poteri, adottando quindi ad avviso del ricorrente non
solo i provvedimenti strettamente legati all’emergenza o quelli in deroga alle norme
vigenti, ma anche tutti gli altri.
Il tribunale incorrerebbe in errore in tal senso, allorché qualificherebbe
l’ordinanza 14/2005 del commissario straordinario come ordinanza contingibile e
urgente, la cui portata applicativa deve essere sperimentata nel tempo.
Il ricorrente analizzava la portata e la lettera del DPCM 25/1/2008 per
giungere all’affermazione che la proroga operata con lo stesso avesse ad oggetto lo
stato di emergenza di cui alle richiamate OPCM 2992/1999, 3190/2001 e
3249/2002 e s.m.i. e, in conseguenza i poteri attribuiti alle autorità straordinarie
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“provvedimento” e prevede espressamente che contro lo stesso sia possibile

preposte all’emergenza. Non, invece, l’efficacia degli atti consolidati da questa
adottati tra cui rientrerebbe la più volte citata ordinanza numero 14 del 2005.
Il ricorrente si soffermava anche a confutare il secondo argomento dedotto
dal tribunale in motivazione, cioè che l’ordinanza sarebbe decaduta anche per il

mancato inizio dei lavori. In particolare, veniva sottolineato come non sia dato
rinvenire nei provvedimento autoritativo alcun termine di validità perché si
addivenisse alla realizzazione dell’impianto. Né tale termine potrebbe essere
mutuato, secondo l’assunto del ricorrente, da altre discipline, facendo così ricorso

all’analogia legis non consentita in materia penale. Non sarebbe corretta, in tal
senso, la conclusione cui si perviene nei provvedimenti impugnati secondo cui
l’ordinanza, nel prevedere che l’autorizzazione con la stessa rilasciata “comporta la

dichiarazione di pubblica utilità, urgenza indifferibilità dei lavori”, avrebbe costituito
l’obbligo per il privato di dati immediata o quanto meno pronta esecuzione, con la
conseguenza che, in caso di inosservanza, il titolo autorizzativo sarebbe decaduto.
In realtà, ad avviso del ricorrente, la dichiarazione di

“pubblica utilità,

urgenza e indifferibilità dei lavori” non deriva dallo stato di emergenza in costanza
del quale l’atto è stato adottato, ma deriva piuttosto dalla disciplina delle
autorizzazioni di cui quell’atto fa espressamente le veci. L’ordinanza numero 14 del
2005, in tal senso, non introdurrebbe alcuna novità, né alcuna deroga al regime
delle autorizzazioni rilasciate in via ordinaria ex art. 27 L. Ronchi ed ex art. 15 LR
Lazio 27/98, limitandosi a riprodurre l’ultimo periodo del comma 5 dell’art. 27 D. L.
Ronchi. L’ordinanza in questione, in altri termini, non era nei suoi contenuti
straordinaria e la sua esecuzione dunque non era legata allo stato di emergenza. Lo
si dedurrebbe ad avviso del ricorrente anche dalla lettura stessa dell’ordinanza da
cui si evincerebbe (in particolar modo nei punti 19, 20 e 21) che gli scopi da

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perseguire avevano un respiro ed una durata in nessun modo circoscrivibile alla
breve durata dello stato di emergenza, durante il quale, invece, si dovevano porre
in essere tutte le misure e i provvedimenti idonei per il perseguimento di una
finalità di cui sarebbe evidente il lungo termine e la finalità prettamente preventiva

(e condizionata all’esito positivo della sperimentazione).
Secondo il ricorrente il progetto della “Testa di cane” era ed è relativo ad
una delle possibili opzioni alternative da realizzarsi in un periodo temporale non
certamente di breve durata. Di conseguenza l’ordinanza non avrebbe potuto avere
l’effetto di ordinare la realizzazione, l’esercizio dell’impianto, il monitoraggio e la
valutazione degli effetti della sperimentazione nel giro di nove mesi, considerando il
termine inizialmente previsto per la durata della gestione commissariale. E dopo
sarebbe parimenti infondato, ad avviso del ricorrente, il rischio paventato dal
tribunale secondo il quale se nell’ordinanza numero 14/2005 si opinasse per la
mancanza di un termine si attribuirebbe al privato il potere di scegliere a proprio
avviso l’an e il quando dell’attuazione del provvedimento, ancorché adottato in
presenza di un’emergenza. Si dimenticherebbe, infatti, che l’Amministrazione,
purché ne ricorrano le condizioni (interesse pubblico generale, concreto ed attuale)
è dotata di tutti i necessari strumenti e dei poteri per intervenire di fronte ad
un’ipotetica inerzia o ad eventuali inadempienze. In ogni caso non potrebbe aversi
un’automatica decadenza per preteso ritardo o per omessa esecuzione degli
interventi previsti. Perché ciò sia possibile -fa rilevare ancora il ricorrente- le
norme sul procedimento amministrativo impongono l’obbligo della comunicazione
dell’avvio del procedimento in autotutela, della diffida ad adempiere e solo dopo
aver dato termine per le deduzioni, sarà possibile dichiarare l’eventuale decadenza,
con provvedimento, peraltro soggetto ad impugnazione.
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Tutto questo nel caso in esame non sarebbe avvenuto.
Il ricorrente evidenziava, inoltre, come a suo avviso il Tribunale,
richiamando quanto ritenuto dal gip in ordine all’applicabilità all’ordinanza 14/2005
di un termine di efficacia quinquennale che sarebbe scaduto il 25 marzo 2010,

quello previsto dall’articolo 28 del Decreto Ronchi e dall’articolo 16 della legge
regionale Lazio numero 27/1998, che riguardano esclusivamente l’autorizzazione
all’esercizio dell’impianto e non, come nel caso in esame l’autorizzazione alla
realizzazione dello stesso, prevista invece dagli articoli 27 del Decreto Ronchi e 15
della legge del Lazio numero 27/1998, che non pongono alcun termine di efficacia.
Sul punto il ricorrente si doleva di avere ampiamente argomentato sia
nell’istanza di revoca del sequestro (da pagina 15 a pagina 18), sia nell’atto di
appello (alle pagine 14 a 22), senza che il tribunale nel provvedimento impugnato
abbia speso alcuna motivazione sugli articolati e, ove accolti, dirimenti rilievi
difensivi.
Il ricorrente lamentava altresì l’infondatezza in punto di

fumus

della

asserita consapevolezza della sopravvenuta decadenza dell’ordinanza in relazione
alla richiesta dell’autorizzazione integrata ambientale.
In ultimo, quanto all’ipotizzata violazione edilizia, non solo il ricorrente
contestava che non fosse sufficiente il titolo costituito dall’ordinanza, ma riteneva
non conforme al vero l’affermazione operata dal tribunale circa una di difformità tra
i lavori autorizzati a quelli realizzati.
Per tutti i motivi sopra ricordati il ricorrente chiedeva che venisse annullato
il provvedimento impugnato con ogni conseguenza di legge, ivi compresa la
restituzione dei beni sequestrati all’avente diritto.
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sarebbe incorso in violazione di legge. Il termine quinquennale richiamato sarebbe

In data 4.12.2013 veniva, tuttavia, presentata dichiarazione di rinuncia al
ricorso a firma dei difensori del ricorrente, con controfirma per ratifica ed
accettazione di Rando Francesco.
CONSIDERATO IN DIRITTO

ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 591 lett. d) cod. proc. pen..
Non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità (Corte Cost. sentenza 13.6.2000 n. 186), alla condanna della parte
ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al
pagamento della sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. nella
misura indicata in dispositivo.
P•Q•M•

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di C. 500,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 13.12.2013

A seguito dell’intervenuta formale rinuncia va dichiarata l’inammissibilità del

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