Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5448 del 13/11/2013


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 5448 Anno 2014
Presidente: MANNINO SAVERIO FELICE
Relatore: FRANCO AMEDEO

SENTENZA
sul ricorso proposto da Galli Angiolino, nato a Medesano il 28.7.1947;
avverso la sentenza emessa 1’8.2.2013 dalla corte d’appello di Milano;
udita nella pubblica udienza del 13 novembre 2013 la relazione fatta dal
Consigliere Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale
dott. Giuseppe Volpe, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
Svolgimento de/processo
Con la sentenza in epigrafe la corte d’appello di Milano confermò la sentenza emessa il 17.10.2008 dal giudice del tribunale di Lodi, che aveva dichiarato Galli Angiolino colpevole del reato di cui all’art. 47 comma 2 del D.L.vo n.
504/95 perché “deteneva eccedenze di additivi — pari rispettivamente a Kg
1.108,5 di additivo per benzina (prodotto finito) e Kg 3.345,8 di additivo per
gasolio (prodotto finito) — nei depositi fiscali, prodotti non rientranti nelle tolleranze ammesse, ovvero non giustificate dalla prescritta documentazione”, e lo
aveva condannato alla pena di mesi 4 di reclusione ed € 6.000,00 di multa, con i
doppi benefici.
Osservò la corte d’appello: a) che poiché nello statuto della società è prevista l’attività di miscelazione, doveva ritenersi che gli additivi fossero destinati a
questa funzione; b) che il metodo di controllo indicato nell’art. 18, 8° comma,
del decreto 27.3.2001 n. 153 si applica esclusivamente ai depositi fiscali di birra, di alcol etilico e di prodotti alcolici intermedi, ma non agli additivi indicati
nel capo di imputazione.
L’imputato, a mezzo dell’avv. Andrea Moro Visconti, propone ricorso per
cassazione deducendo:
1) inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 47, comma 2, in relazione

Data Udienza: 13/11/2013

all’art. 21 del d. lgs. 26 ottobre 1995, n. 504; mancanza o manifesta illogicità
della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato contestato sotto
il profilo della ritenuta applicabilità dell’accisa ai prodotti oggetto di contestazione. Ricorda che la norma contestata punisce la detenzione nei depositi fiscali, in quantitativi superiori rispetto alle soglie di tolleranza ammesse, di prodotti
soggetti ad accisa. Ora, gli additivi in questione non erano sottoposti ad accisa.
Infatti, l’art. 21 del d. lgs. 26 ottobre 1995, n. 504, nelle formulazione vigente
all’epoca dei fatti (in sostanza uguale sul punto alla vigente) dopo avere elencato, al primo comma, una serie di prodotti sottoposti ad accisa, stabiliva al secondo comma che “i seguenti prodotti [tra i quali, alla lettera m), figuravano i
prodotti di cui alla NC 3811, cui appartengono gli additivi per prodotti petroliferi oggetto di imputazione] sono soggetti a vigilanza fiscale e, se destinati ad
essere usati, se messi in vendita o se usati come combustibile o carburante, sono sottoposti ad accisa secondo l’aliquota prevista per il combustibile o il carburante per motori, equivalente”. Non è quindi corretta la contestazione della
violazione dell’art. 47 comma 2 del T.U.A., in quanto la stessa norma presuppone il riscontro nei depositi fiscali di eccedenze di prodotti soggetti ad accisa, ed
in quanto, a mente dell’art. 21 comma 2 del medesimo Testo Unico, tali non
possono considerarsi i prodotti di cui al codice NC 3811. salvo che gli stessi
non risultino (e nel caso di specie non risultano né possono risultare) destinati
ad essere usati o messi in vendita come combustibile o carburante.
Il giudice di primo grado aveva ritenuto che gli additivi fossero soggetti ad
accisa perché l’attività della Syneco è quella di effettuare per conto proprio e per
conto terzi attività di miscelazione e di trasformazione. Con l’appello si era eccepito che non si trattava in realtà di stabilire se i prodotti fossero genericamente destinati “ad essere utilizzati”, bensì se gli stessi fossero stati destinati “ad essere utilizzati come combustibile o carburante”. Invero, per i prodotti soggetti a
mera vigilanza fiscale, l’individuazione della destinazione specifica è di importanza decisiva, anche ai sensi della Direttiva europea 92/81/CEE, relativa
all’armonizzazione delle strutture delle accise sugli oli minerali (ivi compresi,
ex art. 2, comma 1, lett. 1), i prodotti di cui al codice NC 3811), la quale prevede
all’art. 8 che gli Stati membri debbano appunto esentare dall’accisa armonizzata,
tra gli altri, “gli oli minerali non utilizzati come carburanti o come combustibili
per riscaldamento”.
Quindi, se non è tassabile l’uso dei prodotti in questione diverso da quello
della combustione o della carburazione, gli stessi non potevano ritenersi soggetti ad accisa sino a quando non fosse stata data loro la destinazione d’uso: gli additivi, in ipotesi, potevano ancora essere destinati ad usi diversi da carburazione
e combustione ed in tal caso, dunque, non sarebbero stati soggetti ad alcuna imposta. Inoltre, poiché tali prodotti, se destinati ad essere usati, messi in vendita
o usati come combustibile o carburante, sono sottoposti ad accisa secondo l’aliquota prevista per il combustibile o il carburante per motori, equivalente, sino a
quando gli additivi rimangono custoditi nel deposito non è neppure possibile
anche qualora dovessero essere destinati all’utilizzo per scopi di carburazione o
di combustione individuare per gli stessi l’aliquota eventualmente applicabile. Doveva pertanto essere verificato se era intervenuto o meno quel momento

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in cui il prodotto riceve una effettiva destinazione d’uso e, perciò, se tale uso lo
prevede, era assoggettato all’imposta, secondo l’aliquota prevista.
Osserva che è poi irrilevante la considerazione secondo cui, «essendo prevista nello statuto l’attività di miscelazione, giustamente la G.d.F. ha ritenuto
che gli additivi rinvenuti fossero destinati all’indicata funzione. Né d’altro canto la parte ha fornito alcuna prova di diversa destinazione degli additivi rinvenuti in deposito». Invero, non si vede come la parte avrebbe potuto fornire la
prova di una destinazione diversa, dato che gli additivi si trovavano ancora
presso il deposito. Il fatto poi di compiere, per statuto, anche attività di miscelazione, ancora non significa che quegli additivi avrebbero avuto impieghi nella
combustione piuttosto che nella carburazione, o, comunque, che fossero già stati destinati con certezza ad un simile uso. E’ poi irrilevante anche il contratto
con la Misal Arexons perché, da un lato, quella svolta per conto della Misal Arexons non esaurisce l’attività della Syneco, dall’altro la stessa Misal Arexons
commercializza, tra gli altri, anche prodotti estranei all’ambito della carburazione e della combustione.
Ribadisce quindi come l’applicazione dell’accisa — da liquidare necessariamente dopo l’estrazione del prodotto dal deposito fiscale, anche ai fini della
determinazione della specifica aliquota — dipenda esclusivamente dalla destinazione d’uso che l’utilizzatore vorrà dare all’additivo e come, dunque, la detenzione di eventuali eccedenze di tali prodotti nel deposito fiscale rimanga estranea alla sfera di applicazione dell’art. 47 D.L.vo n. 504/95, trattandosi di prodotti che non possono (ancora) considerarsi sottoposti ad accisa.
2) inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 47, comma 2, in relazione
all’art. 18. comma 8, del d.m. 153/01, in relazione alla ritenuta sussistenza del
reato contestato sotto il profilo del ritenuto superamento della soglia di tolleranza ammessa. Lamenta che è erronea la modalità utilizzata dagli operanti per determinare la soglia delle eccedenze ammesse durante la verifica fiscale; in particolare, è erronea la scelta di prendere a riferimento, per sommarvi il carico introdotto successivamente, i dati contabili risultanti alla data del 1° gennaio di
quell’anno, anziché quelli effettivi, risultanti alla data dell’ultima verifica compiuta (risalente, nella specie, al 25 febbraio dell’anno precedente). Invero, l’art.
18, comma 8, del D.M. n. 153/01, alla lettera b), relativa ai depositi fiscali di alcol etilico e di prodotti alcolici intermedi, stabilisce che è ammessa “una tolleranza del 2 per cento rispetto al carico di magazzino, definito come somma della giacenza al momento della precedente verifica e dei prodotti successivamente introdotti”. Ricorda che aveva evidenziato che la diversa procedura utilizzata
dalla G.d.F. — contrariamente a quanto sostenuto dal Giudice di prime cure —
conduceva a risultati diversi rispetto alla procedura suggerita dalla normativa
vigente, tanto che il consulente aveva dimostrato che la procedura corretta (peraltro fino ad allora sempre seguita) portava ad eccedenze ben al di sotto della
tolleranza ammessa. La corte d’appello ha rigettato l’eccezione per il motivo che
l’art. 18 cit. “si applica esclusivamente ai depositi fiscali di birra, di alcol etilico e di prodotti alcolici intermedi, ma non agli additivi indicati nel capo di imputazione”. Osserva che alla norma deve però essere data applicazione analogica per la definizione del carico del magazzino anche ai fini del calcolo delle tol-

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-4 leranze ammesse nei depositi di oli minerali, altrimenti lasciato al più pericoloso arbitrio. Per contro, non si può non prendere atto dell’inconfutabile dato aritmetico della disparità dei risultati ottenibili con i due diversi metodi, dimostrato dal consulente della difesa. Infatti, se i risultati raggiungibili con i due descritti sistemi di calcolo sono diversi e così lontani, appare evidente che le due
procedure non possono coesistere, non potendosi ammettere la simultanea validità e legittimazione di due sistemi di impostazione del calcolo tali da condurre
a risultati inconciliabili. Né la diversificazione dei metodi potrebbe sensatamente giustificarsi in ragione della diversa natura dei prodotti o delle sostanze detenute nei depositi (alcool o birra piuttosto che oli minerali), che non ha nulla a
che vedere con gli aspetti strettamente matematici del problema e che si rivelerebbe pertanto un criterio del tutto irrazionale. Ricorda che aveva evidenziato il
vizio del metodo adottato dalla G.d.F., che risiede in una presunzione di attendibilità e correttezza dei dati contabili risultanti alla data del 1 ° gennaio, la quale però avrebbe ragion d’essere solo ove fosse accompagnata da un obbligo (in
realtà inesistente) in capo al titolare del deposito fiscale di inventariare a quella
data i prodotti ivi stoccati. In ogni caso, quindi, la sentenza impugnata non contiene una motivazione idonea a sostenere la correttezza del metodo di calcolo
seguito dagli operanti.
Motivi della decisione
Ritiene il Collegio che il ricorso sia infondato.
Nella specie, l’imputato è stato ritenuto responsabile per il reato di cui
all’art. 47, comma 2, del d.lgs. 26 ottobre 1995, n. 504, il quale punisce le eccedenze di prodotti nei depositi fiscali e le eccedenze di prodotti denaturati non
rientranti nei limiti delle tolleranze ammesse, ovvero non giustificate dalla prescritta documentazione, salvo che venga dimostrata la legittima provenienza dei
prodotti ed il regolare assolvimento dell’imposta, se dovuta.
Nella specie, il giudice del merito ha appunto accertato che gli additivi in
questione (Kg. 1.108,5 di additivo per benzina e Kg. 3.345,8 di additivo per gasolio) erano detenuti in eccedenza nel deposito fiscale del ricorrente, per una
misura che non rientrava nei limiti delle tolleranze ammesse, e senza che
l’imputato ne avesse dimostrato la legittima provenienza ed il regolare assolvimento dell’imposta.
I giudici hanno anche accertato che si trattava di additivi destinati ad essere usati come carburanti per motori, specificandone la quantità destinata alla
benzina e la quantità destinata al gasolio. Questo accertamento è stato compiuto
attraverso un apprezzamento di fatto adeguatamente e congruamente motivato, e
quindi non censurabile in questa sede, avendo i giudici osservato, sulla scorta
anche di quanto ritenuto dalla GdF, che l’attività della Syneco era proprio quella di effettuare per conto proprio e per conto terzi attività di miscelazione e di
trasformazione, dal che si ricavava la ragionevole dimostrazione che gli additivi
erano destinati ad essere utilizzati a tale scopo (ed erano pertanto soggetti ad
accise), anche perché non si rinveniva nel concreto caso di specie alcuna altra
funzione per i prodotti in questione e perché, del resto, la difesa non aveva fornito alcun elemento che potesse far ipotizzare una diversa destinazione degli
additivi rinvenuti nel deposito.

-5 Quanto alle modalità di misurazione (e quindi all’avvenuto accertamento
del superamento delle soglie di tolleranza) il collegio ritiene che non è riscontrabile un errore di diritto nella affermazione del giudice del merito che la procedura seguita dai militari (che hanno considerato quali dati di partenza quelli
risultanti alla data del 1° gennaio 2006 dai registri provenienti dalla stessa parte
nei cui confronti si esplicava la verifica e non quelli risultanti dall’ultima concreta verifica del febbraio 2005) non era vietata dalla legge e che il particolare
metodo di calcolo indicato nell’art. 18, comma 8, del DM 27.3.2001 n. 153 (Regolamento recante disposizioni per il controllo della fabbricazione, trasformazione, circolazione e deposito dell’alcole etilico e delle bevande alcoliche, sottoposti al regime delle accise, nonché per l’effettuazione della vigilanza fiscale
sugli alcoli metilico, propilico ed isopropilico e sulle materie prime alcoligene)
– il quale prevede specifiche tolleranze nei depositi rispetto alle giacenze e possibile controllo fiscale solo a decorrere da un armo rispetto alla precedente verifica – si applica esclusivamente ai depositi fiscali di birra, di alcol etilico e di
prodotti alcolici intermedi, ma non agli additivi indicati nel capo di imputazione. Del resto, nel ricorso non è nemmeno indicato quali sarebbero gli elementi
che dovrebbero portare a ritenere sussistente una identità di ratio e quindi applicabile questa specifica norma anche alla diversa fattispecie in esame per colmare la presunta lacuna (qualora realmente esista).
Escluso quindi che sia ravvisabile un errore di diritto, il collegio ritiene
che non vi sia nemmeno un vizio di motivazione, non apparendo manifestamente illogico il metodo seguito, dal momento che come dati di partenza sono stati
utilizzati proprio quelli risultanti dai registri provenienti dalla stessa società
soggetta a verifica, la quale peraltro — come osservato dal giudice di primo grado — nel corso dell’accertamento non aveva fornito giustificazioni né presentato
osservazioni.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Per questi motivi
La Corte Suprema di Cassazione
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 13
novembre 2013.

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