Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5403 del 04/12/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 5403 Anno 2015
Presidente: SIRENA PIETRO ANTONIO
Relatore: IANNELLO EMILIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PAOLINI MIRKO, nato il 09/03/1977

avverso la sentenza n. 409/2013 CORTE APPELLO di ANCONA, del
31/01/2013;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 04/12/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. EMILIO IANNELLO;
udito il Procuratore Generale in persona del Dott. OSCAR CEDRANGOLO che
ha concluso per l’annullamento senza rinvio per intervenuta prescrizione;
udito per il ricorrente il difensore Avv. GABRIELE MARRA del Foro di Urbino,
in sostituzione dell’Avv. LUCIO MONACO, che si è riportato ai motivi associandosi
alle conclusioni del RG.
RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 31/1/2013 la Corte d’appello di Ancona ha confermato
la sentenza con la quale il Tribunale di Urbino, in data 13/10/2011, aveva
dichiarato Paolini Mirko, amministratore unico della Securfer S.r.l., colpevole del
reato di lesioni colpose aggravate dalla violazione delle norme per la prevenzione
degli infortuni sul lavoro ai danni di Magnoni Lorenzo, conseguentemente
condannandolo alla pena di € 800,00 di multa: fatto commesso il 5/2/2008.
Era accaduto che il Magnoni, impegnato quale dipendente della D.G.S. nei

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Data Udienza: 04/12/2014

lavori di realizzazione di guardrail unitamente ai dipendenti della Securfer, in
esecuzione di appalto commesso ad un R.T.I. del quale sia la D.G.S. che la
Securfer facevano parte, veniva attinto al piede dalla caduta di pesantissime
lastre di ferro accatastate su di un cavalletto, provocata dal maldestro
sollevamento di quest’ultimo, da parte dell’operatore Lofti Smida, dipendente
della Securfer, attraverso un muletto al cui uso il Lofti non era abilitato.
L’evento era ascritto all’imputato per colpa generica e specifica, consistita
nella violazione dell’art. 38, comma 1, lett. b) d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626,

quest’ultimo utilizzasse il carrello elevatore, sebbene non fosse adeguatamente
formato e addestrato.
Nel confermare il giudizio di penale responsabilità espresso dal primo giudice,
ha rilevato la Corte d’appello che, benché risultasse la presenza al momento
dell’infortunio di lavoratori adibiti all’uso del carrello e l’esistenza di disposizioni
dirette a consentirne l’utilizzo solamente a lavoratori adeguatamente formati, era
tuttavia emerso che già altre volte il Lofti aveva eseguito la manovra di
caricamento delle lastre e che, comunque, la stessa veniva effettuata anche da
soggetti non abilitati.
Ha ritenuto, pertanto, la Corte, di dover precisare «il sillogismo posto dal
tribunale a fondamento della sentenza» nel senso che, nel descritto contesto, la
responsabilità del datore di lavoro andava «radicata sul fatto di non avere
adeguatamente vigilato sulla precisa osservanza delle dette disposizioni» e di
avere così consentito

«anche mediante l’omissione dei necessari controlli,

l’adozione di una prassi, ancorché non connotata da abitualità, in forza della
quale veniva consentito l’uso dei carrelli a soggetti non dotati di specifica
preparazione e addestramento».

2. Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione l’imputato, per
mezzo del proprio difensore, articolando quattro motivi.

2.1. Con il primo deduce inosservanza di norme processuali stabilite a pena
di nullità e segnatamente dell’art. 521 cod. proc. pen., lamentando il difetto di
correlazione tra accusa e sentenza.
Rileva, in sintesi, che la motivazione addotta dalla Corte d’appello comporta
un sostanziale mutamento delle ragioni della decisione, sostituendosi alla
condotta commissiva descritta in imputazione

(«aver consentito l’utilizzo del

carrello elevatore a soggetto non adeguatamente formato e addestrato»), una
condotta omissiva (mancato controllo del rispetto delle disposizioni impartite),
peraltro genericamente rapportata ad un fatto (la prassi asseritamente radicata

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perché, nella sua qualità di datore di lavoro del Lofti, aveva acconsentito che

all’interno dell’impresa) diverso da quello descritto in rubrica.

2.2. Lamenta – con il secondo motivo – che tale operazione ha comportato
una violazione del diritto di difesa, in primo luogo in ragione delle mutate
coordinate temporali di riferimento. Osserva che, infatti, ponendo a fondamento
del giudizio di responsabilità la violazione dei doveri di controllo, la Corte ha
finito per dare rilievo a circostanze fattuali che si collocano a monte della
violazione dell’art. 38 d.lgs. n. 626/94: circostanze sulle quali esso ricorrente

alla prova.

2.3. Deduce ancora – con il terzo motivo – mancanza e contraddittorietà
della motivazione, in quanto ruotante attorno alla ritenuta esistenza di una prassi
interna all’impresa, che però non viene in sentenza affermata in termini di
certezza e che, comunque, contraddittoriamente, si precisa non essere
«connotata da abitualità», tanto più a fronte dell’affermazione contenuta nella
sentenza di primo grado circa l’esistenza, all’interno dell’impresa, di «modelli
organizzativi idonei ed efficacemente implementati».

2.4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce, infine, erronea applicazione
della legge penale in relazione alla ritenuta configurabilità dell’elemento
soggettivo.
Sostiene che l’esistenza di condotte che, in modo saltuario e asistematico,
violano le precise prescrizioni impartite dal vertice aziendale, non può ritenersi
circostanza idonea a intaccare la legittimità dell’affidamento che esso ricorrente
poteva riporre sulla funzionalità degli interventi di sicurezza operati e
dell’apparato di controllo.
Soggiunge che, peraltro, una volta accertata la presenza in ogni turno di
lavoro di un capo reparto, chiamato a garantire il rispetto di protocolli lavorativi,
è difficile ipotizzare l’assenza di interventi di controllo da parte del datore di
lavoro, così come è difficile rimproverare a quest’ultimo l’eventuale inerzia del
capo reparto nell’adempimento degli obblighi di vigilanza su di esso gravanti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Mette conto in premessa rilevare che, diversamente da quanto ipotizzato
nella sua requisitoria dal Procuratore Generale, non può considerarsi maturata la
prescrizione del reato per cui è processo. Trattasi, infatti, di delitto di lesioni
colpose commesso in data 5 febbraio 2008 per il quale il termine massimo di

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non ha avuto la possibilità di esplicare le proprie difese ed esercitare il suo diritto

prescrizione è da individuarsi in sette anni e mezzo; termine evidentemente ad
oggi non ancora decorso.

4. Sono infondati i primi due motivi di ricorso, congiuntamente esaminabili.
Il principio di correlazione tra sentenza e accusa, per pacifica
giurisprudenza, è violato soltanto quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi,
rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità
sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione,

dell’imputato, posto così, a sorpresa, di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza
avere avuto la possibilità di effettiva difesa. Tale principio non è invece violato
quando nei fatti, contestati e ritenuti, si possa agevolmente individuare un
nucleo comune e, in particolare, quando essi si trovano in rapporto di continenza
(cfr., tra le tante, Sez. 4, n. 16422 del 29/01/2007, Di Vincenzo, non
massimata).
Ciò è, nella specie, certamente consentito affermare atteso che il profilo di
colpa specifica accertato in sentenza è certamente riconoscibile nella descrizione
dell’addebito quale contenuta in imputazione. Non può, infatti, dubitarsi che il
rimprovero di aver «consentito l’utilizzo del carrello elevatore a soggetto non
adeguatamente formato e addestrato» non costituisca affatto qualcosa di diverso
rispetto a quello di aver omesso di controllare che il carrello elevatore non fosse
utilizzato da soggetti non adeguatamente formati, risolvendosi tale ultima
prospettazione in null’altro che in una diversa formulazione, in negativo, della
medesima proposizione.
È vero che tale formulazione vale anche a precisare il carattere omissivo,
piuttosto che commissivo, della condotta addebitata, ma è da escludere che tale
precisazione possa integrare violazione alcuna del principio di correlazione tra
accusa e sentenza. Ed infatti, non si ricava affatto dalla formulazione della
prima, nel caso di specie, una univoca prospettazione in senso commissivo della
condotta ascritta, ben potendo il verbo «consentire», ivi utilizzato, essere
interpretato nel più lato significato di «far sì che» e, quindi, rapportato più
all’esito finale della condotta anziché alla struttura della stessa, come
commissiva piuttosto che omissiva. A tanto del resto conducendo anche il
riferimento alla norma cautelare specificamente menzionata (l’art. 38, comma 1,
lett. b, d.lgs. n. 626/1994), la quale descrive un obbligo positivo di condotta
(quello di assicurarsi, da parte del datore di lavoro, che «i lavoratori incaricati
dell’uso delle attrezzature che richiedono conoscenze e responsabilità particolari
di cui all’art. 35, comma 5, ricevono un addestramento adeguato e specifico che
li metta in grado di usare tali attrezzature in modo idoneo e sicuro anche in

sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti

relazione ai rischi causati ad altre persone»), dovendosi per converso ritenere
che la contestata violazione di tale obbligo non possa che implicare di per sé quantomeno anche

l’ipotesi di una condotta omissiva (ossia non essersi il

datore di lavoro assicurato di ciò che si è detto).
Appare in ogni caso dirimente, nel senso di smentire la fondatezza della
censura, il rilievo che, in tema di reati colposi, non sussiste la violazione del
principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza di condanna se la
contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa (se si
fa, in altri termini, riferimento alla colpa generica, come accade nella specie),

essendo in tal caso consentito al giudice di aggiungere, agli elementi di fatto
contestati, altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa,
emergenti dagli atti processuali e quindi non sottratti al concreto esercizio del
diritto di difesa. Analogamente, non sussiste la violazione dell’anzidetto principio
anche qualora, nel capo di imputazione, siano stati contestati elementi generici e
specifici di colpa ed il giudice abbia affermato la responsabilità dell’imputato per
un’ipotesi di colpa diversa da quella specifica contestata, ma rientrante nella
colpa generica, giacché il riferimento alla colpa generica, anche se seguito
dall’indicazione di un determinato e specifico profilo di colpa, pone in risalto che
la contestazione riguarda la condotta dell’imputato globalmente considerata,
sicché questi è in grado di difendersi relativamente a tutti gli aspetti del
comportamento tenuto in occasione del fatto di cui è chiamato a rispondere,
indipendentemente dalla specifica norma che si assume violata (v. e plurimis
Sez. 4, n. 35943 del 07/03/2014 – dep. 19/08/2014, Denaro, Rv. 260161; Sez.
4, n. 51516 del 21/06/2013, Miniscalco, Rv. 257902; Sez. 3, n. 19741 del
08/04/2010, Minardi, Rv. 247171; Sez. 4, n. 35666 del 19/06/2007, Lanzellotti,
Rv. 237469)

5. è infondato anche il terzo motivo.
La Corte d’appello motiva adeguatamente il proprio convincimento,
conforme sul punto a quello del giudice di primo grado, circa la penale
responsabilità dell’imputato, evidenziando che dalle convergenti dichiarazioni
rese dal Lofti e dal teste Magnoni emerge che già altre volte il primo aveva
eseguito la manovra di caricamento delle lastre e che, comunque, la stessa
veniva effettuata anche da soggetti non abilitati all’uso del muletto. I giudici di
appello hanno inoltre ragionevolmente escluso che l’efficacia probatoria di tali
elementi potesse ritenersi contrastata dalla deposizione di altro teste, che ha
affermato di non avere mai visto il Lofti alla guida di uno dei muletti.
A fronte di un tale impianto argomentativo le presunte lacune o
contraddizioni segnalate dal ricorrente investono aspetti marginali ovvero si

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risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle prove come tale
certamente inammissibile nel giudizio di legittimità.
In particolare, l’affermazione, contenuta in sentenza (pagina 11), secondo
cui dalle suindicate dichiarazioni emergerebbe

«una prassi, ancorché non

connotata da abitualità» può forse bensì costituire una espressione erronea sul
piano lessicale, ma non basta di per sé a segnalare anche una insuperabile
contraddittorietà intrinseca della motivazione, restando chiaro ed univoco il
nucleo centrale della motivazione, rappresentato dalla individuazione, sulla

non talmente frequenti da potersi definire anche come abituali, che come tali
interpellavano comunque l’obbligo di controllo e vigilanza gravante sul datore di
lavoro, circa la corretta osservanza delle disposizioni riguardanti l’uso delle
attrezzature descritte.
Quanto poi all’affermazione, contenuta nella sentenza di primo grado,
relativa all’esistenza, all’interno dell’impresa, di

«modelli organizzativi idonei ed

efficacemente implementati», analogamente è da escludere che essa rappresenti
un elemento di incoerenza interna della complessiva struttura giustificativa delle
conformi sentenze di merito, valendo quell’affermazione solo a evidenziare
l’approntamento da parte del datore di lavoro di disposizioni organizzative in
astratto corrette ed efficaci, circostanza che di per sé non contraddice in nulla il
diverso addebito posto a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità,
il quale riguarda l’inadempimento dell’obbligo di attento controllo e vigilanza
sulla corretta osservanza da parte dei dipendenti di quelle disposizioni.

6. È altresì infondato, infine, il quarto motivo di ricorso.
La tesi del ricorrente, secondo cui l’obbligo gravante sul datore di lavoro
doveva ritenersi adempiuto con la predisposizione di corretti protocolli lavorativi
e la previsione della presenza, in ogni turno di lavoro, di un capo reparto,
chiamato a garantirne il rispetto, si appalesa debole e inconsistente, non
rispondendo ad una corretta interpretazione del contenuto e dello scopo degli
obblighi imposti dalle norme infortunistiche a carico del datore di lavoro: prima
tra tutte della norma base rappresentata dall’art. 2087 cod. civ. che, come noto,
obbliga l’imprenditore «ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che,
secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a
tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».
Secondo pacifica interpretazione di tale fondamentale disposizione, infatti, il
compito del datore di lavoro non si esaurisce nella predisposizione di adeguati
mezzi di prevenzione e protocolli operativi, essendo lo stesso tenuto ad
accertarsi che le disposizioni impartite vengano nei fatti eseguite e ad intervenire

scorta dei predetti elementi, di condotte, non episodiche né isolate, ancorché

per prevenire il verificarsi di incidenti (Cass. civ. Sez. lavoro, 09-03-1992, n.
2835), attivandosi per far cessare eventuali manomissioni o modalità d’uso
pericolose da parte dei dipendenti (Cass. civ. Sez. lavoro, 27-05-1986, n. 3576)
o il mancato impiego degli strumenti prevenzionali messi a disposizione (Sez. 4,
n. 6486 del 03/03/1995, Grassi, Rv. 201706).
Si è in tal senso precisato che, in tema di sicurezza antinfortunistica, il
compito del datore di lavoro, o del dirigente cui spetta la sicurezza de/lavoro, è
molteplice e articolato, e va dalla istruzione dei lavoratori sui rischi di

predisposizione di queste misure, al controllo continuo, pressante, per imporre
che i lavoratori vi si adeguino e sfuggano alla superficiale tentazione di
trascurarle. Il responsabile della sicurezza, sia egli o meno l’imprenditore, deve
avere la cultura e la forma mentis del garante del bene costituzionalmente
rilevante costituito dalla integrità del lavoratore ed ha perciò il preciso dovere
non di limitarsi a assolvere formalmente il compito di informare i lavoratori sulle
norme antinfortunistiche previste, ma deve attivarsi e controllare «sino alla
pedanteria», che tali norme siano assimilate dai lavoratori nella ordinaria prassi
di lavoro (Sez. 4, n. 6486 del 03/03/1995, Grassi, Rv. 201706; ma vds. anche,
nello stesso senso, Sez. 4, n. 13251 del 10/02/2005, Kapelj, Rv. 231156,
secondo cui «in tema di infortuni sul lavoro, il compito del datore di lavoro è
articolato e comprende l’istruzione dei lavoratori sui rischi connessi a
determinate attività, la necessità di adottare le previste misure di sicurezza, la
predisposizione di queste, il controllo, continuo ed effettivo circa la concreta
osservanza delle misure predisposte per evitare che esse vengano trascurate e
disapplicate, il controllo infine sul corretto utilizzo, in termini di sicurezza, degli
strumenti di lavoro e sul processo stesso di lavorazione»).
Alla luce di tali univoche indicazioni normative e giurisprudenziali, non può
dubitarsi che, lungi dal potersi considerare adempiuto l’obbligo gravante sul
datore di lavoro in materia antinfortunistica con la previsione di corretti protocolli
operativi, il fatto stesso che questi siano stati non occasionalmente violati vale di
per sé a dimostrare un atteggiamento lontano dal contenuto ben più attivo e
sostanziale che a tale obbligo occorre assegnare.
Quanto poi al richiamo al principio di affidamento (nella specie, sulla
funzionalità degli interventi di sicurezza operati e dell’apparato di controllo, in
particolare per la presenza in ogni turno di lavoro di un capo reparto) lo stesso si
appalesa destituito di fondamento, in difetto dei presupposti che tale affidamento
potrebbero legittimare.
Il motivo si risolve infatti nella generica affermazione dell’esistenza di
deleghe a figure sottoposte di garanti, correttamente negata dalla Corte

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determinati lavori e dalla necessità di adottare certe misure di sicurezza, alla

d’appello (v. sentenza impugnata, pag. 12) con motivazione con la quale il
ricorrente non si confronta affatto.

7. In definitiva il ricorso deve essere rigettato, con la conseguente condanna
del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

processuali.
Così deciso il 4/12/2014

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese

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