Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 53984 del 26/10/2017


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 53984 Anno 2017
Presidente: PEZZULLO ROSA
Relatore: SETTEMBRE ANTONIO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
AMOROSO ANTONIO nato il 29/11/1940 a ROSARNO

avverso la sentenza del 12/05/2016 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere ANTONIO SETTEMBRE
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore PASQUALE
FIMIANI, che ha concluso per l’annullamento senza rinvio perché il fatto non è
piu previsto dalla legge come reato.
Udito il difensore, avv. Francesco Angelini, il quale si riporta alle conclusioni
formulate dal Procuratore Generale.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte d’appello di Reggio Calabria ha, con la sentenza impugnata,
confermata quella emessa dal Tribunale di Palmi, che aveva condannato
Amoroso Antonio per furto di acqua, prelevata abusivamente dall’acquedotto
comunale mediante allaccio – non autorizzato – alla conduttura pubblica (artt.
624 e 625, nn. 2 e 7 cod. pen.).

Data Udienza: 26/10/2017

2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione l’imputato
lamentando:
a)

l’omessa motivazione sulla specifica censura difensiva concernente la

qualificazione dell’illecito (non già l’illecito penale contestato, ma l’illecito
amministrativo di cui all’art. 23 del d.lgs. n. 152 dell’11/5/1999);
b) la violazione dell’art. 625, n. 2, cod. pen.. Illegittimamente, deduce, è stata
ravvisata la violenza sulle cose, laddove l’allaccio era avvenuto senza

Eccepisce, da ultimo, l’intervenuta prescrizione del reato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso non ha fondamento.
1. Secondo la condivisibile giurisprudenza di questa Corte, l’impossessamento
abusivo dell’acqua convogliata nelle condutture dell’acquedotto municipale
integra il reato di furto aggravato e non la violazione amministrativa prevista
dall’art. 23 del D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, che si riferisce alle sole acque
pubbliche, ossia ai flussi non ancora convogliati in invasi o cisterne (Cass., sez.
4, n. 21586 del 29/1/2016; conforme., sez. 4, n. 6965 del 14/11/2012). Tale
orientamento non è contrasto con la copiosa giurisprudenza evocata dal
ricorrente, la quale si è riferita, in tutte le occasioni esaminate, ad acque
“pubbliche” non ancora convogliate (in questo senso, Cass., sez. 5, n. 25548 del
7/3/2007; Cass., Sez. 5, 186 del 29/11/2006 si riferisce ad acque sotterranee
prelevate da un pozzo mediante elettropompa. Lo stesso dicasi per Cass. sez. 5,
n. 39977 del 2005 e per Sez. 5, n. 26877 del 05/05/2004, Rv. 229878. Di acque
sotterranee parla ancora Sez. 5, sentenza n. 30176 del 28/8/2002. Ad esse si
aggiunge Cass., sez. 2, n. 17580 del 10/4/2013, che si riferisce al prelievo
d’acqua da un laghetto artificiale). In realtà, un vero contrasto sussiste solo con
Cass., sez. 5, n. 21008 del 3/6/2010, non massinnata, che estende, senza
puntuale motivazione, il principio da ultimo richiamato all’acqua prelevata
abusivamente dall’acquedotto comunale. Tale estensione (probabilmente
suggerita dalla particolarità della fattispecie, caratterizzata dall’inerzia della P.A.
nel dare risposta alla richiesta di allaccio formulata dal privato) non è però
condivisibile, per i solidi argomenti portati a sostegno della tesi opposta,
chiaramente esposti nella sentenza n. 6965 del 2012, la quale “scolpisce” la
nozione di “acqua pubblica” valevole per la legislazione speciale, distinguendola
nettamente da quella rilevante per il codice penale. Ebbene, la corretta esegesi
della normativa in materia di acque rende palese che le “acque pubbliche”, a cui
si riferisce l’art. 17 del R.D. 1755 del 1933, come modificato dal d.lgs. n.
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manomissione o rottura del tubo, ma solo svitando il tappo di una “saracinesca”.

152/1999, sono quelle sotterranee e superficiali, messe a disposizione dalla
natura, a cui gli enti pubblici abilitati non abbiano ancora conferito – sulla base
dei poteri ad essi conferiti dalla normativa vigente – una destinazione particolare.
Tali acque costituiscono – per volontà del legislatore – “una risorsa che è
salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà” (così l’art. 1 della legge
5 gennaio 1994, n. 36, che detta disposizione in materia di risorse idriche). Esse
sono cosa diversa, però, dalle acque prelevate dall’ambiente naturale e
destinate, da soggetti pubblici abilitati, a soddisfare specifici bisogni, trattandosi

abilitato esercita una signoria propria. Più specificamente, le acque delle
condotte idriche comunali sono destinate a soddisfare i bisogni idrici della
popolazione del Comune; e tale caratteristica hanno assunto dopo essere state
sottoposte a complessi procedimenti di potabilizzazione, che rictiiedono l’impiego
di risorse rilevanti e un controllo costante della qualità. Per tale motivo non
possono essere confuse con le acque “pubbliche” esistenti in natura, trattandosi
di acque aventi valore economico, riferibili, dal punto di vista proprietario, ad un
soggetto particolare. Molto perspicuamente, infatti, la sentenza sopra richiamata
ammonisce dal non sovrapporre la nozione di acqua pubblica valevole ai fini
dell’art. 17 del R.D. n. 1755 del 1933, come modificato dall’art. 23 del d.ls. n.
152 del 1999, a quella che trae causa dalla natura pubblica dell’ente
proprietario.
Nella specie, Amoroso si è impossessato di acqua convogliata nell’acquedotto
comunale di Rosarno, a mezzo di allaccio abusivo; di conseguenza, il reato di cui
deve rispondere è quello di cui all’art. 624 cod. pen. e non già dell’illecito
amministrativo contemplato dall’art. 23 cit.

2. Sussiste, nella specie, anche l’aggravante della violenza sulle cose, la quale è
integrata dall’impiego di energia fisica – che importi un mutamento di
destinazione della cosa altrui – diretta a vincere la resistenza che la natura o la
mano dell’uomo hanno posto a suo riparo o difesa (in questo senso, Cass., n.
2230 del 12/11/1984, rv 168164). Nella specie, l’aver sbullonato la “saracinesca”
della condotta idrica, al fine di attuare l’allaccio abusivo, concreta indubbiamente
un mutamento di destinazione della cosa, che abbisogna, per servire all’uso cui
era legittimamente destinata, di un intervento di ripristino.

3. La sussistenza delle aggravanti contestate esclude che possa dirsi maturata la
prescrizione alla data odierna. Il furto pluriaggravato è punito, infatti, con la
reclusione da tre a dieci anni, per cui il reato non verrà a prescrizione prima del
2021.

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di acque separate dall’insieme e costituenti un bene autonomo, su cui l’ente

4. Segue a tanto il rigetto del ricorso atteso che i motivi proposti, pur se non
inammissibili, risultano infondati per le ragioni sin qui esposte;
ai sensi dell’art. 592 c.p.p., comma 1, e art. 616 c.p.p il ricorrente va
condannato al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 26/10/2017

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