Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 53477 del 15/06/2017


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 53477 Anno 2017
Presidente: DIOTALLEVI GIOVANNI
Relatore: IMPERIALI LUCIANO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
BENEDETTO MASSIMO N. IL 06/02/1970
BENEDETTO WALTER N. IL 17/03/1975
CAGLIOTI GIUSEPPE VINCENZO N. IL 27/08/1968
CAVALLARO BRUNO N. IL 20/01/1959
CAVALLARO FERDINANDO N. IL 02/11/1965
D’AMICO ANTONINO N. IL 12/06/1945
D’AMICO GIUSEPPE N. IL 19/02/1983
DOMINELLO MICHELE N. IL 22/10/1979
DOMINELLO SALVATORE N. IL 10/11/1981
MARINO ANTONINO N. IL 18/09/1972
MARINO NICOLA N. IL 18/09/1972
MARINO PIETRO N. IL 05/05/1945
avverso la sentenza n. 3812/2015 CORTE APPELLO di TORINO, del
22/02/2016
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 15/06/2017 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. LUCIANO IMPERIALI
Udito il Procuratore Gqnerale in persona del Dott.érilfSEeP/A49
che ha concluso per „(e’.

Data Udienza: 15/06/2017

Uditi i difensori:
avv. Flavio Campagna ed avv. Tommaso Servetto per Giuseppe Vincenzo Caglioti,
che ha insistito nei motivi di ricorso,
avv. Domenico Putrino ed avv. Giuseppe Del Sorbo per Michele Dominello e
Salvatore Dominello, che hanno insistito nei motivi di ricorso,
avv. Basilio Foti per Massimo Benedetto e Walter Benedetto, che ha chiesto
l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata,

impugnata.
avv. Vittorio Del Monte per Antonino D’Amico ed avv. Emilia Lodato per Antonino
D’Amico e Giuseppe D’Amico, che si sono riportati ai motivi del ricorso,
avv. Cosimo Palumbo per Pietro Marino e Nicola Marino, che ha chiesto
l’accoglimento dei ricorsi,
avv. Domenico Ioppolo ed avv. Giuseppe Antonio Gianzi, per Bruno Cavallaro e
Ferdinando Cavallaro, che si sonon riportati ai motivi di ricorso ed alle memorie
depositate.

avv. Carlo Maria Romeo, che ha chiesto l’annullamento senza rinvio della sentenza

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Torino ha solo parzialmente
riformato la sentenza emessa dal Tribunale di Torino in data 26/11/2014 ed avente ad oggetto
l’insediamento nel territorio della provincia di Torino dell’associazione di stampo mafioso
‘ndrangheta, nella specie con le cd. locali di Chivasso e di Livorno Ferraris, sentenza che aveva
affermato la penale responsabilità di tutti gli odierni ricorrenti in ordine al delitto di cui all’art.
416-bis cod. pen., e di Pietro Marino altresì in ordine ad alcuni delitti in materia di armi.
La Corte territoriale, come già la sentenza di primo grado, ha evidenziato che il

offerto in primo luogo dall’acquisizione delle prove raccolte e formate in altro procedimento,
cd. “Minotauro”, dall’esame degli operanti che avevano compiuto le diverse indagini poi
confluite nello stesso, dalle dichiarazioni rese in dibattimento dai collaboratori di giustizia
Antonino Cuzzola e Ciccio Nicodemo e da quelle, acquisite, di Rocco Varacalli nel processo
Minotauro, dagli esiti dei servizi di OCP, dalle dichiarazioni di numerosi testimoni, dall’esame
degli imputati e dagli esiti delle intercettazioni telefoniche ed ambientali svolte sia nel
procedimento Colpo di Coda, di cui si tratta, che nelle indagini confluite nei processi cd.
“Minotauro”, “Crimine” ed “Infinito”.
Nel ricostruire il fenomeno criminoso dell’insediamento nel territorio della provincia di
Torino dell’associazione di stampo mafioso ‘ndrangheta, organizzata in “locali”, ossia in
strutture attive in determinate aree dell’hinterland torinese, dotate di autonomia operativa ed
aventi come referenti la medesima organizzazione localizzata in Calabria, la sentenza
impugnata ha indicato la locale di Chivasso, al pari delle altre insediate in Piemonte, come
filiazione della ‘ndrangheta calabrese e come sua componente distaccata che può avvalersi grazie alla relazione di collegamento con la “Casa madre” – della forza di intimidazione che
quest’ultima ha acquisito nel tempo tramite una risalente e sistematica pratica di violenza e
minaccia che ha determinato un diffuso timore anche fuori dal territorio calabrese.
La sentenza della Corte territoriale riconosce, pertanto, una struttura unitaria
dell’associazione, ancorché capace di “figliare” nuove articolazioni in realtà territoriali lontane
dalla Calabria, fondando tale valutazione su una pluralità di dati fattuali comprovanti il
collegamento tra le locali dell’hinterland torinese tra loro e tra l’associazione e la “casa madre”
calabrese: si tratta di riti di conferimento di dote; dell’interessamento alla riapertura del locale
di Rivoli dopo la dismissione da parte di Salvatore De Masi, delle attività prodromiche alla
riapertura di una nuova locale, del ruolo di referente di Giuseppe Catalano, di una serie di
conversazioni intercettate denotanti la necessità di ottenere l’avallo del Crimine di Polsi per
poter aprire una nuova locale oppure per nominare cariche apicali di una locale o istituire nuovi
organi.
Secondo le sentenze dei giudici di merito però, il raccordo che si è così ricostruito non si
sarebbe tradotto in un totale assoggettamento delle cosche piemontesi a quelle della regione
d’origine in modo tale da essere le prime divenute espressione e strumento meramente
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procedimento di cui si tratta, denominato “Colpo di Coda”, si fonda sull’apporto conoscitivo

esecutivo di progetti e volontà maturati altrove, ossia un mero braccio operativo dislocato
altrove; al contrario, una volta costituita, attraverso la propria gerarchia interna, ciascuna
struttura avrebbe acquisito ed esercitato autonomia decisionale e gestionale, dando luogo a
manifestazioni concrete, vissute e percepite come tali nelle corrispondenti realtà territoriali.
Oggetto specifico della sentenza impugnata sono due locali, quella di Chivasso (già
oggetto del procedimento Minotauro, in relazione ad altri soggetti) e quella di Livorno Ferraris,
distaccatasi dalla prima.
Con riferimento alle vicende del locale di Chivasso sono stati individuati quali suoi

D’Amico, Antonino D’Amico, Pietro Marino, Nicola Marino, Antonino Marino, Michele Dorninello
e Salvatore Dominello e, nell’esaminare le vicende di tale struttura, si è dato rilievo al
conferimento della dote di trequartino a Pititto Salvatore, ad una riunione tenutasi il
30/10/2009 presso il bar Timone di Chivasso, alla vicenda – ritenuta “centrale” nel presente
procedimento – della “colletta” in favore dei sodali detenuti a seguito dell’operazione
Minotauro, ed alle reazioni dei fratelli Nicola ed Antonino Marino agli arresti eseguiti in tale
procedimento.
La locale Livorno Ferraris, invece, è stata indicata come costituita in occasione di una
riunione tenutasi il 1^ ottobre 2009 a casa di Maiolo Pasquale, destinato a divenirne il capo
locale, e di tale locale sono stati riconosciuti partecipi, tra gli altri, per quel che qui interessa,
anche Bruno Cavallaro, Ferdinando Cavallaro e Giuseppe Vincenzo Caglioti. Nella ricostruzione
delle vicende di questa sono stati valorizzati: i dati forniti dalle intercettazioni che avevano
rivelato i contatti preliminari tra Piemonte e Calabria per la creazione della nuova compagine;
l’incontro avvenuto in Chivasso in data 1 ottobre 2009 tra tutti i vertici della provincia di
Torino, all’esito del quale era stato prescelto Pasquale Maiolo, già organico al locale di
Chivasso, quale capo del nuovo locale, costituito per scissione da quest’ultimo; le
conversazioni intercettate tra Ferdinando Cavallaro e Brunina Chiera, tra Pietro Marino ed
Antonino Marino, le conversazioni relative alla figura di Giuseppe Catalano intercettate a bordo
della vettura di Mario Torino Maiolo, figlio del predetto Pasquale, alcune vicende particolari
come la cd. vicenda Laquale, le attività dei sodali per il mantenimento di Maiolo Pasquale, le
reazioni dei fratelli Cavallaro e di Vincenzo Caglioti agli arresti del proc. Minotauro, e la visita
dei sodali di Livorno Ferraris ad Mario Francesco Inzillo.
La sentenza della Corte di Appello di Torino in data 22/2/2016, nel riformare la sentenza
del primo giudice, in particolare:
– ha assolto Ferdinando Cavallaro dal reato di cui all’art. 12 quinquies d.l. 306/92
contestatogli al capo n. 3) e rideterminato la pena inflittagli per la partecipazione ad
associazione di stampo mafioso;
– ha concesso ad Antonino Marino le circostanze attenuanti generiche come equivalenti
all’aggravante contestata e rideterminato la pena allo stesso inflitta;

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appartenenti, tra gli altri, gli odierni ricorrenti Massimo Benedetto, Walter Benedetto, Giuseppe

- riduceva la pena inflitta anche a Massimo Benedetto, Giuseppe Vincenzo Caglioti,
Antonino D’Amico, Giuseppe D’Amico, Nicola Marino e Pietro Marino;
– ha revocato la confisca disposta ex art. 12 sexies d.l. 306/90 su beni appartenenti a
Ferdinando Cavallaro e Maria Ciconte, disponendone la restituzione ai medesimi;
– ha revocato la confisca disposta ex art. 12 sexies d.l. 306/90 sul conto corrente e sui
buoni postali cointestati ad Antonino Marino ed alla moglie Marinella Pisani per la quota di
metà appartenente a quest’ultima;
– ha confermato, nel resto, la sentenza impugnata.

rispettivi difensori gli imputati Massimo Benedetto, Walter Benedetto, Giuseppe D’Amico,
Antonino D’Amico, Pietro Marino, Nicola Marino, Antonino Marino, Michele Dominello e
Salvatore Dominello, Bruno Cavallaro, Ferdinando Cavallaro e Giuseppe Vincenzo Caglioti.
Alcuni motivi di impugnazione sono comuni ad una pluralità di ricorrenti.
3. Giuseppe D’Amico, Antonino D’Amico, Pietro Marino, Nicola Marino, Antonino Marino,
Bruno Cavallaro, Ferdinando Cavallaro e Giuseppe Vincenzo Caglioti deducono tutti la
violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla configurazione del delitto di cui all’art.
416 bis cod. pen. con riferimento alle due strutture oggetto del presente procedimento.
I ricorrenti contestano, in particolare, la ricostruzione operata dalla sentenza impugnata
secondo cui l’associazione di cui al capo 1) sarebbe un’associazione unitaria, seppur distinta in
“locali”, che per “le novità” risponde alla Casa Madre calabrese, agendo però in autonomia in
relazione alle attività ordinarie, sicché si sarebbe ritenuta non necessaria l’estrinsecazione del
metodo mafioso da parte della specifica locale di Chivasso e dei suoi presunti sodali. Si assume
nei ricorsi, infatti, che sarebbe contraddittoria la motivazione della sentenza laddove questa
ritiene le locali piemontesi soggetti distinti ed autonomi rispetto alla casa madre calabrese, e
poi ne afferma invece l’unitarietà sulla base di alcuni episodi e circostanze che vedono la
partecipazione di esponenti di diverse locali: nei ricorsi si afferma che nessuno di tali episodi
esprimerebbe elementi di prova certa circa la sussistenza di una struttura unitaria, non
potendosi ritenere sintomo di unitarietà la partecipazione a matrimoni e funerali, atteso che
non risulta costituita una Camera di Controllo, né operante il Crimine, e si contesta anche la
valorizzazione della mera aspirazione delle locali piemontesi a costituire la Camera di Controllo,
non avendo avuto attuazione concreta l’asserita tensione alla unitarietà strutturale ed
istituzionale né, a dire dei ricorrenti, potrebbe essere ritenuto determinante il mero
“sentimento di condivisione e comunanza”.
I fratelli Bruno e Fernando Cavallaro e Giuseppe Vincenzo Caglioti, inoltre, deducono la
violazione di legge ed il vizio di motivazione anche con riferimento all’asserita costituzione di
una locale cd. Livorno Ferraris, assumendo che nessuno dei collaboratori di giustizia ha riferito
di conoscerne l’esistenza, né di conoscerne gli appartenenti, ed in particolare i ricorrenti, che
non sarebbe emersa alcuna vicenda in cui alcuno degli aderenti alla locale abbia avuto contatti
con altre locali o partecipato a conferimenti di doti, anch’essi non emersi in alcun modo.
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2. Avverso la sentenza della Corte territoriale hanno proposto ricorso, a mezzo dei

L’apertura della locale, invece, verrebbe ricondotta alla riunione conviviale del 1/10/2009
presso l’abitazione di Maiolo Pasquale, senza che, nel difetto di captazioni, alcuno sappia di
cosa di sia parlato, senza che nei due anni successivi nemmeno i Carabinieri della stazione
Livorno Ferraris abbiano percepito segnali dell’esistenza della locale, e senza che la sentenza
abbia in alcun modo argomentato sulle contestazioni rivolte in appello sulle interpretazioni di
alcune conversazioni.
A tal proposito, si è richiamato anche il dibattito giurisprudenziale sulla cd. “mafia silente”
deducendo, in particolare, la necessità di attuale esteriorizzazione dell’agire mafioso dei nuovi

criminale della casa madre. Si assume, invece, non essere emerso alcun elemento dal quale
desumersi che la presunta cosca abbia permeato l’ambiente territoriale di riferimento con
assoggettamento e con la correlata omertà, e si lamenta la scarsa significatività degli episodi
intimidatori riportati in sentenza, che taluni deducono consistere solo in iniziative di singoli
soggetti operanti fuori dal contesto territoriale di appartenenza, altri assumono essere,
comunque, attribuibili nella quasi totalità a singoli soggetti ed inidonei a determinare la
percezione dell’esistenza di un’organizzazione strutturata come ‘ndrangheta alle spalle. Una
pluralità di ricorrenti assumono, in definitiva, che difetterebbe l’esteriorizzazione del metodo
mafioso da parte delle locali di cui si tratta, in quanto desunta in sentenza soltanto da iniziative
riferibili ad altre locali, sulla base di un’unitarietà tra associazioni che si riferisce negata anche
da alcuni precedenti di questa Corte di Cassazione, quali sez. 5 n. 14582 del 20/12/2014,
D’Onofrio, e sez. 6 n. 39112 del 20/05/2015, Catalano.
4. Altro motivo comune ad una pluralità di ricorrenti è quello con il quale si contesta che la
partecipazione alla “colletta” in favore delle famiglie di detenuti possa, di per sé, provare
l’affiliazione di un soggetto all’associazione di ‘ndrangheta.
Sotto tale profilo, si deduce che questa Corte ha annullato le condanne di Antonio Fotia e
Gaetano Lomonaco, arrestati nel proc. Minotauro sulla base degli stessi elementi qui in
contestazione, si rileva che Pietro Marino Pietro ha spiegato a Francesco Roberto che le ragioni
della colletta erano in rapporti di parentela e simili, argomento svalutato dalla Corte sulla base
di un’arbitraria interpretazione di sentimenti e delle modalità di chiusura della telefonata tra i
due. Si ricorda che tra i beneficiari vi era anche Rocco Schirrippa, facente parte di una locale
diversa, quella di Moncalieri, e si assume che tale circostanza è in contraddizione con l’assunto
della sentenza secondo cui Pasquale Maiolo non sarebbe stato destinatario della colletta perché
ad esso già provvedevano gli associati della locale di Livorno Ferraris. Si deduce mancanza di
motivazione in ordine al rilievo avanzato con i motivi di appello secondo cui si sarebbe trattato
di una contribuzione occasionale ed episodica in occasione di festività natalizie.
Con motivi aggiunti depositati in data 11/5/2017, poi, l’avv. Putrino ha insistito su tali
argomentazioni, trascrivendo diverse parti della sentenza n. 40851 del 19/5/2016 con la quale
la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di condanna da nei confronti di Antonino Fotia
e Gaetano Lomonaco, e la medesima pronuncia è stata ripetutamente invocata, nella parte in
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gruppi ritenuti essersi costituiti lontano dalla Calabria, e del concreto avvalersi della fama

cui riconosce l’insufficienza della partecipazione alla colletta per i detenuti a provare l’intraneità
al sodalizio dei conferenti e dei beneficiari, anche nelle memorie depositate nell’interesse dei
fratelli Domìniello il 25/5/2017, di Giuseppe D’Amico in data 31/5/2017, ed in data 8/6/2016
nell’interesse di Pietro Marino e Nicola Marino. Si è con tali memorie altresì rilevato che anche
la Corte di Appello ha assolto il Trunfio, destinatario di una colletta, nel giudizio di rinvio nei
confronti di Giuseppe Trunfio dopo l’annullamento con rinvio nel procedimento Minotauro.
5. Oltre a tali motivi comuni ad altri ricorrenti, Giuseppe D’Amico ed Antonino D’Amico,
con distinti ricorsi presentati dal primo a mezzo dell’avv. Emilia Lodato e dal secondo a mezzo

5.1. violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla loro partecipazione
all’associazione ex art. 416 bis cod. pen. come sopra configurata. Con riferimento alla
“colletta” in favore degli arrestati nel proc. “Minotauro” si contesta, in primo luogo, che possa
identificarsi nel D’Amico il “Giuseppe” di cui all’intercettazione tra Pietro Marino ed Antonino
Marino, identificazione definita nel ricorso una mera congettura priva di certezze ed inidonea a
rivestire il carattere di grave indizio, e si evidenzia che, comunque, anche a ritenere che
Giuseppe D’Amico sia stato “contato” dai due interlocutori tra i partecipi alla colletta, ciò non
significa che, poi, vi abbia effettivamente partecipato. Si assume, inoltre, che in relazione al
predetto ricorrente alla vicenda della colletta la sentenza impugnata associ solo l’episodio del
bar Timone del 30/10/2009, in relazione al quale si deduce che Giuseppe D’Amico sarebbe
giunto dopo gli altri, avvicinandosi al padre e restando in silenzio per tutta la breve durata
delle videoriprese, si contesta che siano state viste persone entrare ed uscire da una stanza
riservata, si rileva che erano presenti anche soggetti, quale Colosimo Paolino, poi rimasti
estranei sia al procedimento cd. Minotauro che a quello di cui si tratta, “Colpo di coda”, ed
infine si deduce che gli episodi di conferimento di dote al Pititto ed i festeggiamenti avvenuti in
occasione delle elezioni del comune di Chivasso non sarebbero sufficienti ad individuare la
natura ‘ndranghetista della riunione, avendo indicato la stessa Corte che non vi è prova diretta
del contenuto dell’incontro e delle sue finalità, che i predetti ricorrenti indicano essere stati di
mera natura conviviale. Si sottolinea, infine, come la loro partecipazione al sodalizio non risulti
da dichiarazioni di collaboratori, né risulta la realizzazione di reati fine, né emergerebbero
frequentazioni sospette con altri sodali o attività imprenditoriali volte a finanziare l’associazione
‘ndranghetista sicché, in definitiva, non sarebbe stato indicato quale possa essere stato
l’apporto fornito da Antonino e Giuseppe D’Amico all’associazione.
6. Anche i fratelli Massimo e Walter Benedetto, con ricorso presentato a mezzo del
comune difensore avv. Foti, deducono il vizio di motivazione in merito all’individuazione
dell’imputato Benedetti Massimo, assumendosi non essere a tal fine sufficiente l’indicazione del
solo nome di “Massimo” nella conversazione ambientale citata nella sentenza impugnata, né il
riferimento alla gestione di una macelleria, né la concordanza tra la data della conversazione
intercettata, 14/12/2011, e la data del conferimento della somma di euro 200 in favore di

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dello stesso avv. Lodato e dall’avv. Vittorio Del Monte, deducono:

Bendetto Walter il 16/12/2011 in occasione di una visita in carcere del fratello Massimo, né,
infine, la presenza di questo tra gli invitati ad alcuni matrimoni.
6.1. Con motivi aggiunti depositati il 31/5/2017 la difesa dei Benedetto ha insistito
sull’insufficienza dell’elemento indiziario a loro carico, costituito la raccolta di denaro a favore
dei detenuti, desunta da una conversazione ambientale, elemento ritenuto inidoneo ad
integrare la prova della responsabilità dei ricorrenti, nel difetto di qualsiasi elemento
sintomatico di affiliazioni rituali, o di atti illeciti commessi quali appartenenti al sodalizio, o di
coinvolgimenti da parte di chiamanti in correità.

mezzo del comune difensore, avv. Cosimo Palumbo, deducono la manifesta illogicità della
motivazione con riferimento alla ritenuta partecipazione degli stessi all’associazione contestata.
7.1. Pietro Marino assume essere stato ritenuto colpevole della partecipazione al sodalizio
senza che gli sia stato individuato il ruolo fattivo e concreto nell’ambito di questo, bensì sulla
mera partecipazione alla cd. colletta, nonostante la mancanza di qualsiasi indicazione dello
stesso Marino da parte dei collaboratori di giustizia e la sua mancata partecipazione alla
riunione del 1^/10/2009 nella quale si è conferita la dote a Salvatore Pititto, circostanza
ritenuta irrilevante dalla Corte di appello. Assume, altresì, non essere stata data effettiva
risposta, in sentenza, alle doglianze difensive fondate sulla telefonata con Rita Giuseppina
Faillaci, nel corso della quale Pietro Marino, a seguito degli arresti, dichiarava “io non ci ho
niente a che fare con nessuno e non mi interessa nessuno …. io rispetto tutti, siamo amici,
paesani”, argomento che si assume liquidato dalla Corte territoriale con un mero riferimento al
fatto che il Marino sarebbe fortemente critico con i sodali.
7.2. I predetti ricorrenti contestano, inoltre, gli elementi in base ai quali si assume essere
stata riconosciuta la loro partecipazione al locale di Chivasso, ed in particolare il rilievo
attribuito alle dichiarazioni della teste Sorokanjiuc, che nei ricorsi viene definita inattendibile,
in quanto già amante di Ferdinando Cavallaro ed interessata all’accusa, ed altresì la mancanza
di motivazione in relazione all’assunto secondo cui, con riferimento alla vicenda Laquale, in una
conversazione con Salvatore Cavallaro, Pietro Marino avrebbe parlato come sodale a
conoscenza delle dinamiche interne all’associazione mafiosa e non come amico del Maiolo.
7.3. Anche Nicola Marino contesta il giudizio di colpevolezza espresso senza che gli sia
stato individuato il ruolo fattivo e concreto nell’ambito del sodalizio criminoso, bensì sulla mera
partecipazione alla cd. colletta, deducendo che non solo non sarebbe determinante tale
partecipazione, ma anche che la sua partecipazione alla colletta non possa ritenersi provata,
non comparendo mai il suo nome a tal proposito, perché ricavato solo dall’espressione del
padre “noi siamo in tre”, e dall’esclusione logica della sorella, e deduce altresì che non sarebbe
neppure da escludere che, come avvenuto in occasione di funerali, il padre abbia contribuito a
raccolte di denaro in nome dei figli senza avvisarli. Il ricorrente contesta anche che gli siano
stati attribuiti, “oltre agli elementi comuni con il fratello, il contenuto della conversazione 2824
nella quale Marino Pietro auspicava che le redini venissero prese dai figli”, trattandosi di
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7. Anche Pietro Marino e suo figlio Nicola Marino, con due distinti ricorsi presentati a

conversazione dal significato non univoco in relazione alla quale non si è data risposta alle
censure difensive di cui a pag. 25 dell’atto di appello; contesta l’interpretazione data in
sentenza alla conversazione nn. 332 e 333 tra i due fratelli Nicola e Antonino Marino in
occasione dell’arresto del Vadalà, titolare del bar Timone, nell’operazione Minotauro, ed alla
preoccupazione per il padre e per il Maiolo. Contesta, poi, la mancanza di motivazione in
relazione alle doglianze dell’atto di appello in ordine alla reazione effettivamente civile
dell’interessato Nicola Marino al biglietto recapitatogli da un anonimo condomino, assumendo
non essere determinante per la sua posizione, invece, l’eventuale sfogo del padre o del fratello.

contesta che la sentenza non abbia evidenziato che si trattava di carica priva di poteri
decisionali, sicché non rivelerebbe un’infiltrazione per motivi politici, e si osserva non essere
stato indicato in sentenza che gli altri membri del consiglio di amministrazione della società
avessero maggiori competenze di quelle del ricorrente.
8. Con ricorso proposto a mezzo del suo difensore avv. Carlo Maria Romeo, Antonino
Marino ha dedotto la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen. ed il vizio di motivazione per
essersi desunta la sua partecipazione all’ipotizzata associazione di stampo ‘ndranghetistico
unicamente dalla partecipazione ad una colletta in favore di detenuti, partecipazione che si
assume anche indimostrata: si rileva, a tal fine, che da tutto il materiale investigativo del
presente procedimento, come anche del proc. Minotauro, all’esito di centinaia di conversazioni
intercettate e di servizi di OCP, non sarebbe emerso alcun contatto di Antonino Marino con
componenti dell’associazione operante sul territorio di Chivasso, e che la Corte territoriale non
si sarebbe confrontata con tali carenze investigative, valorizzando la sola presunta ed
indimostrata partecipazione ad una colletta.
9. Michele Dominello e Salvatore Dominello hanno presentato ricorsi a mezzo dei comuni
difensori, avv. Giuseppe Del Sorbo ed avv. Domenico Putrino.
9.1. L’avv. Del Sorbo deduce:
9.1.1. mancata assunzione di una prova decisiva e vizio di motivazione con riferimento
alla richiesta, disattesa dalla Corte di Appello, di rinnovare l’istruttoria dibattimentale con
l’audizione dell’ing. Veggé, al fine di acquisire la consulenza tecnica di parte di cui è menzione
in sentenza ed all’esito di tale acquisizione disporre perizia in ordine all’intercettazione
ambientale a bordo dell’autovettura di Pietro Marino per accertare se gli interlocutori abbiano
pronunciato il fonema “Dom – Domine”, ed altresì procedere a nuovo esame del perito Gobbi,
come avvenuto nel processo Minotauro, con successivo conferimento di incarico peritale, alla
luce della differenza tra le due perizie trascrittive depositate. Si deduce che la richiesta era
stata avanzata perché, a fronte di due opposte interpretazioni peritali del fonema, il Tribunale
aveva fatto proprie le conclusioni della perizia Gobbi, dopo che in altro procedimento il perito
Lomonaco aveva ritrattato le sue valutazioni affermando di percepire il fonema “Domine”
laddove prima lo aveva definito “incomprensibile”. Si deduce l’irritualità dell’introduzione di tale
trascrizione nel fascicolo processuale e si lamenta che la richiesta formulata dalla difesa ex art.
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Infine, con riferimento al ruolo ricoperto nella CHIND Spa, il ricorso di Nicola Marino

603 cod. proc. pen. sarebbe stata disattesa senza risposta, tale non potendo ritenersi quanto
riferito in sentenza, secondo cui la Corte ha ascoltato la registrazione in camera di consiglio
percependo un “Dom”, peraltro senza la strumentazione di un perito.
9.1.2. Vizio di motivazione con riferimento all’individuazione dei fratelli Dominello quali
partecipi alla colletta in favore dei carcerati ed alla valutazione di questa come prova della
partecipazione all’associazione ipotizzata. Con il secondo motivo di ricorso, così, si contestano
le deduzioni che la Corte territoriale ha tratto dal rilievo che dalle risultanze anagrafiche del
Comune di Montanaro con un cognome che inizia con “Dom” o “Don” esistono solo gli odierni

intercettata indicava solo Salvatore come di Montanaro e non anche il Michele
precedentemente citato, e si assume pertanto che si sarebbe giunti ad un “vero e proprio
travisamento della prova” sul punto; si contesta che, quanto alla presenza al matrimonio di
D’Amico, a cui risultano aver partecipato “Dominelli” ma non un “Dominelli Michele” come da
lista, si sia ritenuto che l’errore sia nel cognome e non nel nome dell’invitato.
9.1.3. Con il terzo motivo di deduce il vizio di motivazione e la violazione dell’art. 526 cod.
proc. pen. per essersi utilizzati nella decisione atti del procedimento cautelare, ed in particolare
sentenze di questa Corte nei procedimenti cautelari nei confronti di Walter Benedetto,
Salvatore Dominello e Saverio Dominello.
9.2. Il ricorso presentato dall’avv. Domenico Putrino nell’interesse degli stessi Michele e
Salvatore Dominello ripercorre le argomentazioni del codifensore con un lungo articolato
motivo nel quale si deduce la mancata risposta, da parte della Corte territoriale, alle richieste
istruttorie avanzate ex art. 603 cod. proc. pen. dalla difesa, ed altresì l’inutilizzabilità nei loro
confronti, ai sensi del comma 2 bis dell’art. 238 bis cod. proc. pen., del verbale dell’udienza del
28/10/2013 nel procedimento a carico di Trunfio Giuseppe, al quale non ha partecipato la
difesa dei ricorrenti. Nel ricorso sono state, pertanto, trascritte le risultanze delle due perizie
espletate sulla conversazione utilizzata a carico dei Dominello, si è evidenziato che nel proc.
Minotauro il perito trascrittore ha riferito che dall’ascolto della conversazione effettuato “in
aula” era emerso il fonema “Domine” e si è lamentata, pertanto, la mancata assunzione di
prova decisiva, senza alcuna risposta, da parte della Corte territoriale, alle doglianze difensive;
si è altresì rilevato che, comunque, nella conversazione intercettata non si indicano in alcun
modo come fratelli i due Michele e Salvatore, e che i due ricorrenti non risultano in alcun modo
coinvolti da dichiarazioni accusatorie, non sono risultati mai presenti al bar Timone neppure in
occasione del conferimento della dote di trequartino allo zio Pititto Salvatore e si evidenzia che
anche il padre dei ricorrenti, Saverio Donninello, per quanto condannato in passato per il reato
di cui all’art. 416 bis cod. pen. in concorso con esponenti della famiglia Pesce-Bellocco, non è
mai stato nemmeno indagato nel processo Colpo di Coda, né in quello Minotauro, si è
evidenziata l’assoluzione del Lomonaco e del Fotia per aver partecipato a collette nel presente
procedimento, sono state trascritti i verbali di audizione dei testi che hanno compiuto le
indagini e si è, conseguentemente, dedotta l’assenza di qualsiasi elemento che rivelasse il
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imputati con nome di battesimo Michele e Salvatore, assumendo che la conversazione

ruolo funzionale in esplicazione del quale i ricorrenti avrebbero fatto parte del sodalizio
criminoso.
10. Bruno Cavallaro e Ferdinando Cavallaro, con ricorso presentato dagli avv.ti Gianzi e
Ioppolo, deducono:
10.1. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta esistenza ed
utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, pur avendo la Procura cancellato i dati registrati
sui server, così impedendo la verifica della corrispondenza tra i dati ascoltati, verbalizzati e
trasferiti ed il tenore testuale di quanto registrato sul server. Deducono, inoltre, i ricorrenti, in

Cavallaro e Brunina Chiera e tra Bruno Cavallaro ed il fratello Salvatore un significato coerente
con l’ipotesi accusatoria, pur trattandosi di conversazioni equivoche o comunque suscettibili di
diverse interpretazioni.
10.2. La violazione di legge ed il vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta
responsabilità dei ricorrenti.
10.2.1. Quanto a Cavallaro Bruno, si deduce che questo è stato visto in Piemonte solo tre
volte negli ultimi tre anni, che non ha partecipato ad alcuna delle riunioni indicate, che non è
conosciuto né dal maresciallo dei Carabinieri né dai coimputati del procedimento “Colpo di
coda”, e soprattutto non sarebbe stato indicato in sentenza quale possa essere stato il suo
ruolo nell’associazione criminosa. Si deduce, inoltre, che sia stata individuata nel ricorrente la
figura di collegamento tra il neo-costituito locale Livorno Ferraris ed i referenti calabresi, in
particolare Rocco Bruno Tassone, pur intervenendo Bruno Cavallaro soltanto in telefonate con
il fratello suscettibili delle più disparate interpretazioni; che gli sia stato attribuito di essersi
recato da Giuseppe Giardino, su incarico del fratello, per ottenere l’assenso alla sostituzione
del Maiolo come capo-locale, pur essendo stato prosciolto il Giardino da ogni accusa di
partecipazione ad associazioni mafiose. Si contesta, inoltre, che le doglianze difensive in ordine
agli elementi ritenuti probanti in primo grado siano state affrontate nella sentenza di appello
con poche righe ed un rinvio alle argomentazioni censurate: ciò in ordine alla credibilità delle
dichiarazioni del fratello Ferdinando di essere stato lui a sollecitare un linguaggio criptico, in
ordine alla valenza probatoria del teste Sorokanjiouc, in ordine alle dichiarazioni del teste
Olivieri secondo cui Bruno Cavallaro era tenuto fuori dagli affari dei fratelli, ed a quelle del
teste Ciconte, che ha riferito che Cavallaro Bruno parlava delle elezioni di Chiavasso dinanzi a
numerose persone ed in un contesto festoso.
10.2.2. Anche in relazione a Ferdinando Cavallaro si deduce una valutazione illogica delle
doglianze difensive in ordine alla verifica dell’attendibilità della Sorokanjiuc, che ha riconosciuto
di voler ottenere dal ricorrente dichiarazioni al telefono per farlo arrestare, in ordine alle
dichiarazioni del teste Olivieri, che si assume essere stato creduto quando parlava di usura e
non quando escludeva la partecipazione del ricorrente alla criminalità organizzata, ed in ordine
all’asserita contraddittorietà dell’interpretazione delle conversazioni captate tra il ricorrente e
Chiera Brunina. Si lamenta, infine, la ripetizione delle argomentazioni del primo giudice in
9

particolare con riferimento alla vicenda Laquale, essersi dato alle conversazioni tra Ferdinando

ordine alle elezioni di Chivasso, senza considerare che la ‘ndrangheta non si schiera per
candidati certamente perdenti, che il Cavallaro benché titolare di impresa edile non ha mai
ottenuto lavori pubblici, ed infine che il Ministero dell’Interno non ha ritenuto di dover
procedere allo scioglimento del Consiglio Comunale di Chivasso, evidentemente ritenendo che
non vi fosse stata alcuna ingerenza mafiosa.
10.3. Con memoria difensiva depositata il 30/5/2017 la difesa dei fratelli Cavallaro ha
dedotto la mancanza di precisione e gravità degli elementi indizianti della partecipazione dei
predetti all’associazione mafiosa.

deduce:
11.1. Il vizio di motivazione in ordine all’inattendibilità delle dichiarazioni della teste
Sorokanijuc, inattendibilità che si assume confermata dall’anomalia di un mancato
riconoscimento in aula seguito da un riconoscimento fotografico, e si evidenzia che
l’affermazione attribuita alla teste secondo cui il Caglioti sarebbe stato l’esattore dei Cavallaro
è smentito dalla stessa sentenza che alla pag. 131 indica il loro esattore in Enzo Bartone,
cugino dei predetti.
Contesta, inoltre, il ricorrente che siano stati ritenuti significativi episodi di mera
solidarietà umana, come l’aver accompagnato dal commercialista la moglie del Trunfio, dopo
l’arresto di questo, oppure gli aiuti economici al Maiolo ed alla sua famiglia, e si evidenzia la
mancanza di intimidazioni nel legittimo tentativo di raccogliere voti nella campagna elettorale,
contestandosi altresì il significato degli altri episodi menzionati in sentenza che si assume
essere stati erroneamente ritenuti sintomatici del coinvolgimento del ricorrente
nell’associazione criminale ipotizzata
11.2. La violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sua
partecipazione all’associazione mafiosa di cui si tratta. Assume, tra l’altro, il ricorrente che la
sentenza impugnata avrebbe completamente ignorato il motivo di gravame con il quale si
lamentava l’assenza del Cagnotti dalla riunione costitutiva del 1/10/2009, oggetto di
osservazione, atteso che il suo nome compare, invece, solo due anni dopo con riferimento ad
incontri con altri sodali presso il bar di Chivasso il 26/2/2011 e presso la cascina Santhià il
21/2/2011, senza che siano accertati ruoli, compiti, rituali di affiliazione oppure commissione di
delitti scopo, non rilevando ad avviso del ricorrente l’identità dei soggetti frequentati, bensì
l’oggetto e lo scopo di tali frequentazioni, non potendosi qualificare come partecipazione la
mera vicinanza o disponibilità nei confronti dei mafiosi.
11.3. La violazione di legge ed il vizio di motivazione con riferimento alla riconosciuta
aggravante del carattere armato dell’associazione, assumendosi che la sentenza avrebbe
dovuto accertare la consapevolezza da parte di ciascun imputato del carattere armato
dell’associazione di cui si contesta la partecipazione, avendo anche omesso di accertare la
sentenza se le armi rinvenute nella disponibilità di singoli sodali fossero destinate proprio
all’attuazione del programma associativo.
10

11. Caglioti Giuseppe Vincenzo, con ricorso presentato dagli avv.ti Servetto e Campagna,

11.4. Con motivi nuovi depositati il 26/5/2017 ex art. 585 comma 4 cod. proc. pen. la
difesa del Caglioti ha insistito nelle doglianze in ordine alla ritenuta partecipazione del predetto
all’associazione mafiosa, assumendo difettare “la messa a disposizione” rivolta
“incondizionatamente al sodalizio”, deducendo non essere a tal fine sufficiente “la mera
disponibilità a fornire il contributo richiesto”, occorrendo, invece, anche l’effettività di tale
contributo. In concreto, sottolineando la mancanza di prova dell’affiliazione o del conferimento
di doti, vengono dedotti nella memoria l’asserita irrilevanza delle frequentazioni personali con
coimputati e dell’attivismo manifestato verso la famiglia di Pasquale Triunfo, così come della

conoscenza, ed altresì delle dazioni in denaro in favore di Pasquale Maiolo, in relazione alle
quali si deduce non essere stata seguita la giurisprudenza di questa Corte che richiede di
distinguere tra collette effettuate in nome di solidarietà neutra e collette in nome di
cointeressenza economica criminale. Si deduce, ancora, che la Corte territoriale non avrebbe
messo a fuoco in che cosa possa essere consistito l’effettivo attivarsi del Caglioti in favore del
sodalizio e si ricorda che, proprio in considerazione di una simile mancanza, la Corte di
Cassazione ha annullato la sentenza di condanna di Beniamino Gallone, indicato come
candidato del sodalizio per le elezioni di Chivasso del 2011. Si deduce che anche in relazione
alla cd. vicenda Laquale non sarebbe emerso alcun attivismo del ricorrente, soltanto informato
della questione da Salvatore Cavallaro, e che l’aiuto prestato al figlio di questo, Ilario, non
indiziato di mafiosità, in relazione alla sala giochi Royal Venice, limitatosi al consiglio di
rivolgersi al padre, non avrebbe comportato alcun contributo all’associazione, così come
l’attivismo per le elezioni di Chivasso dovrebbe ritenersi pienamente lecito. Lamenta, infine, il
ricorrente che la sentenza impugnata avrebbe omesso di valutare elementi non concordanti
con il quadro indiziario, come la sua assenza alla riunione del 1^/10/2009, ritenuta fondativa
della locale Livorno Ferraris, la sua comparsa nelle intercettazioni solo nel 2011, la mancanza
di precedenti penali, di familiari mafiosi, di partecipazione di mafiosi agli eventi della sua
famiglia e di vantaggi per la sua piccola ditta in conseguenza di condizionamenti del mercato.
12. Pietro Marino, Nicola Marino, Antonino Marino, Bruno Cavallaro, Fernando Cavallaro ed
Enzo Caglioti, inoltre, con distinti motivi di ricorso deducono tutti la violazione di legge ed il
vizio di motivazione con riferimento al riconoscimento dell’aggravante dell’associazione armata,
pur difettando elementi che dimostrino la presenza di un arsenale comune o, in ogni caso, la
consapevolezza da parte loro della disponibilità di armi da parte dell’associazione, assumendo
non potersi ritenere determinante né il possesso di armi da parte di singoli associati, né quello
da parte di locale diversa rispetto a quella di cui ciascuno di essi è stato ritenuto responsabile
di aver fatto parte.
13. Ferdinando Cavallaro e ad Antonino D’Amico deducono, altresì, il vizio di motivazione
con riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche, ed analogo vizio viene
dedotto da Giuseppe D’Amico, Bruno Cavallaro ed Enzo Caglioti, ai quali, invece, tali attenuanti

11

conversazione n. 1136/2011, che si assume giustificata da meri rapporti di frequentazione e

sono state riconosciute, in relazione al giudizio di mera equivalenza con le contestate
aggravanti.
14. Pietro e Nicola Marino deducono, infine, la violazione di legge ed il vizio di motivazione
con riferimento alla mancata verifica concreta della pericolosità sociale necessaria per
l’applicazione di misura di sicurezza.
15. Giuseppe D’Amico ed Antonino D’Amico deducono, altresì, la violazione di legge ed
vizio di motivazione con riferimento alla conferma delle statuizioni di primo grado in ordine alla
confisca ex art. 192 sexies del D.L. n. 306/1992 dei beni del ricorrente, già oggetto di

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La massima parte dei ricorrenti contesta la configurabilità del delitto di cui all’art. 416
bis cod. pen. con riferimento alle due strutture oggetto del presente procedimento, denominate
“locale” di Chivasso e “locale” di Livorno Ferraris, deducendo l’asserita contraddittorietà della
ricostruzione dei fatti operata dalle due conformi sentenze di merito, che riconoscono da un
lato il legame di derivazione e dipendenza tra le strutture operative di matrice
‘ ndranghetistica, insediate nell’ambito torinese, oggetto dell’imputazione, e l’originaria
organizzazione di stampo mafioso calabrese, avente natura unitaria a prescindere dal
compimento delle sue attività in territori lontani ed estranei al suo ambito regionale, e d’altra
parte attribuiscono, però, ai singoli organismi decentrati autonomia di azione e di intenti.
Alcune contestazioni delle difese (ricorsi D’Amico Giuseppe, D’Amico Antonino, Marino
Pietro, Marino Nicola, Marino Antonino) si fondano su altre pronunce di questa Corte di
legittimità (sez. 5 n. 14582 del 20/12/2013, D’Onofrio; sez. 6 n. 39112 del 20/5/2015,
Catalano) che avrebbero, infatti, riconosciuto la totale autonomia delle compagini territoriali di
stampo ‘ndranghetista operanti in Piemonte, nonostante profili di collaborazione tra loro,
ritenendo insufficienti a dimostrare l’unitarietà dell’associazione alcuni degli elementi evocati
dalla sentenza impugnata a fondamento di tale unitarietà, quali la celebrazione di riti con il
conferimento di dote, riunioni in occasione dell’apertura di una nuova locale, riunioni plenarie
con la celebrazione contestuale di riti, inviti a matrimoni, doveri di assistenza ai detenuti e alle
loro famiglie, l’esistenza di un referente delle locali piemontesi in Calabria. Altre contestazioni,
invece, sui fondano sulla mancata costituzione della cd. “Camera di Controllo” (ricorsi
Cavallaro, Caglioti), in virtù della quale vi sarebbe una mera “tensione all’unitarietà”
dell’associazione, da intendersi, però, come una unitarietà ancora non attuale, ed è stato
anche richiamato il dibattito giurisprudenziale sulla cd. “mafia silente”, in particolare rilevando
che nessuno dei collaboratori di giustizia ha riferito di sapere dell’esistenza del cd. locale
Livorno Ferraris né, conseguentemente, ha riferito di conoscerne gli appartenenti, né
sarebbero emerse vicende in cui alcuno degli aderenti a tale locale abbia avuto contatti con
12

sequestro disposto dal giudice per le indagini preliminari.

altri locali o partecipato a conferimento di doti. Più in generale, si è sostenuto che la sentenza
impugnata non avrebbe evidenziato elementi dai quali desumersi che le strutture di cui si
tratta abbiano permeato l’ambiente territoriale di riferimento con assoggettamento dei cittadini
e con la correlata omertà.
Deve, però, rilevarsi che la sentenza impugnata ha ripetutamente fatto riferimento alle
vicende criminose illustrate nella sentenza di condanna del procedimento c.d. Minotauro,
definito con la sentenza di questa Corte sez. 2, n. 15412 del 30/1/2015, Agresta ed altri, non
massimata, con la quale è stata accertata in via definitiva la risalente esistenza di numerosi

propositi, reati-fine, nonché i luoghi d’incontro degli affiliati, sottoposti a servizi di osservazione
sul territorio, ed assume uno specifico rilievo ai fini delle determinazioni assunte nel presente
giudizio che tra questi vi sia compreso il locale di Chivasso, la cui esistenza, composizione
organica, gerarchia e regole interne e le cui attività costituiscono, così, oggetto di
accertamento ormai definitivo: si tratta di vicende ritenute pregiudiziali per lo stretto vincolo di
connessione e per l’interferenza probatoria con gli addebiti del presente processo, denominato
dagli investigatori “Colpo di coda”, sicché gli acquisiti atti del procedimento Minotauro sono
stati correttamente presi in esame dai giudici di merito, che senza desumere dalla sola
pronuncia di condanna dei coimputati, emessa in separata sede, la prova della responsabilità di
quelli odierni per effetto di automatico recepimento del suo contenuto decisorio, hanno
comunque sottoposto ad attento vaglio critico gli elementi di prova raccolti in precedenza,
apprezzandoli come rilevanti nel rispetto della regola di giudizio dettata dall’art. 238-bis cod.
proc. pen., che impone l’esercizio di una valutazione ampia e di considerazione autonoma del
materiale probatorio altrove acquisito.
2. In realtà, come meglio si evidenzierà in seguito, il richiamo al dibattito giurisprudenziale
in tema di cd. “mafia silente” deve ritenersi mal posto, in quanto con tale termine si suole
qualificare la situazione in cui un’organizzazione dalle caratteristiche mafiose, pur costituita ed
esistente, non si sia ancora proiettata all’esterno in iniziative delinquenziali per la realizzazione
del suo programma criminoso, fattispecie di problematica soluzione a ragione della
formulazione testuale dell’art. 416-bis cod. pen., comma 3, il quale pretende per poter definire
mafioso un sodalizio, e quindi distinguerlo da qualsiasi altra formazione incriminata ai sensi
dell’art. 416 cod. pen., che lo stesso si avvalga, appunto, del metodo intimidatorio (Sez. 1,
Sentenza n. 40851 del 19/05/2016, Cavallaro).

Nel caso di specie, invece, come si dirà, la sentenza impugnata ha evidenziato una
pluralità di vicende nelle quali si sono riconosciute forme di estrinsecazione del metodo
intimidatorio anche sul suolo piemontese e del controllo del territorio, sicché è solo per
completezza di esposizione che giova ricordare che – come peraltro evidenziato anche da Sez.
1, n. 40851 del 19/5/2016, Cavallaro, Fotia ed altri, ripetutamente invocata dai ricorrenti anche il dibattito sulla mafia silente appare essere approdato ad una soluzione che non ignora
13

locali di ‘ndrangheta costituiti ed attivi nel torinese, e con essa i relativi organigrammi,

le due originarie linee interpretative, ma giunge ad un’ormai generalmente condivisa
composizione dell’originario contrasto.
2.1. Una prima linea interpretativa, infatti, richiedeva quale requisito imprescindibile per la
configurazione del reato di cui all’art. 416 bis cod. pen. che la compagine abbia manifestato
all’esterno con la sua condotta, e che tanto sia riscontrabile sul piano degli effetti concreti, il
“modus operandi” tipicamente mafioso che si avvale della forza intimidatrice, derivante
dall’esistenza dell’associazione in sé e dalla diffusa conoscenza della sua presenza, per
prevaricare ed ingenerare nell’ambiente circostante la condizione di assoggettamento ai suoi

dell’ordine l’accaduto per non attivare il potere di contrasto dello Stato nella convinzione
dell’ineluttabilità di una reazione ritorsiva da parte di centri di potere soliti fare ricorso alla
violenza ed alla minaccia (Cass. sez. 6, n. 30059 del 05/06/2014, Bertucca, rv. 262398; sez.
2, n. 31512 del 24/04/2012, Barbaro, rv. 254031; sez. 1, n. 13635 del 28/03/2012, Versaci,
rv. 252358; sez. 1, n. 29924 del 23/04/2010, Spartà, rv. 248010): l’intimidazione prodotta nel
contesto sociale non può arrestarsi a livello di intento dei singoli affiliati, né essere soltanto
inclusa nel programma dell’associazione, ma deve trovare attuazione attraverso il compimento
di atti concreti, come tali percepibili e riscontrabili.
2.2 Altre pronunce dissentono da tale concezione (Cass. sez. 2, n. 25360 del 15/5/2015,
Concas e altri, rv. 264120; sez. 1, n. 5888 del 10/01/2012, Garcea, rv. 252418; sez. 5, n.
38412 del 25/06/2003, Di Donna, rv. 227361), assumendo che, giacché la fattispecie punita
dall’art. 416-bis cod. pen. è configurata come reato di pericolo, sarebbe qualificabile come
mafiosa un’organizzazione criminale anche se abbia la capacità solo potenziale, quindi non
attuale, di esternare con la sua sola esistenza una carica intirnidatrice, idonea a piegare ai
propri fini la volontà di quanti vengano in contatto con gli affiliati all’organismo criminale,
senza sia richiesta la determinazione di una condizione diffusa di assoggettamento ed omertà
attraverso il concreto esercizio di atti intimidatori.
2.3 n contrasto tra le due linee interpretative, nella sostanza, è stato ricomposto da
questa Corte laddove, proprio in un procedimento riguardante situazioni di reato connesse
all’esistenza di locali s ndranghetistici installati nel basso Piemonte, ha rilevato che il reato di
cui all’art. 416-bis cod. pen. è configurabile – con riferimento ad una nuova articolazione
periferica (c.d. “locale”) di un sodalizio mafioso radicato nell’area tradizionale di competenza anche in difetto della commissione di reati-fine e della esteriorizzazione della forza
intimidatrice, qualora emerga il collegamento della nuova struttura territoriale con quella
“madre” del sodalizio di riferimento, ed il modulo organizzativo (distinzione di ruoli, rituali di
affiliazione, imposizione di rigide regole interne, sostegno ai sodali in carcere, ecc.) presenti i
tratti distintivi del predetto sodalizio, lasciando concretamente presagire una già attuale
pericolosità per l’ordine pubblico (Sez. 5, n. 31666 del 03/03/2015 – dep. 21/07/2015,
Bandiera e altri, Rv. 264471).

14

voleri e di omertà, che induce quanti venuti a contatto con essa a non rivelare alle forze

Occorre, pertanto, precisare con chiarezza sul piano probatorio la condizione fattuale e
l’origine del nuovo sodalizio, se cioè costituisca una formazione autonoma, a sé stante e
soltanto nel suo aspetto organizzativo mutuante caratteristiche strutturali di mafie già
esistenti, di cui sfrutti la capacità di intimorire derivante dalla notoria loro esistenza e dal loro
operato, oppure se si tratti di una diramazione delocalizzata rispetto al contesto territoriale di
origine, in rapporto di subordinazione decisionale ed operativa con l’organizzazione da cui
promana, o, comunque, in collegamento con essa.
Nel primo caso, dovrà necessariamente condursi attenta verifica sul piano delle

tale modello operativo, che abbia ingenerato soggezione, timore ed omertà in conseguenza
dell’esistenza della cosca. Diversamente, nell’altra ipotesi, qualora sia provato il nesso di
derivazione genetica e funzionale con l’organizzazione madre preesistente, il nuovo aggregato
da essa scaturito ne riproduce tutte le caratteristiche qualificanti e si nutre della sua forza
intimidatrice e della capacità di sopraffazione e di imposizione, che esporta e mette a frutto nel

acquisizioni probatorie per riscontrare l’impiego reale del metodo mafioso, l’essersi “avvalsi” di

nuovo ambiente d’insediamento senza che sia necessario il compimento di gesti violenti e di( ,
coartazione.
Nel caso specifico della ‘ndrangheta, non può prescindersi dal considerare che è frutto di(”
accertamenti giudiziali definitivi, oltre che di riflessione sociologica, la constatazione che
trattasi di realtà delinquenziale affermatasi con proprie articolazioni in contesti territoriali
lontani dalla Calabria, comprese le regioni del Nord Italia ed alcuni paesi stranieri, nei quali si è
diffusa la conoscenza, divulgata dai mezzi di comunicazione di massa, della sua capacità di
infiltrazione nel tessuto sociale, economico e politico grazie all’investimento di ingenti risorse
finanziarie, del tenace perseguimento degli obiettivi di arricchimento attraverso l’acquisizione
del controllo di attività economiche, di appalti e concessioni pubbliche o la pratica del
finanziamento usurario ad imprenditori in crisi di liquidità, delle sue intraprese criminali,
dell’uso sistematico della violenza contro qualsiasi oppositore, servitore dello Stato o semplice
cittadino, dell’efficace reazione ritorsiva, anche attuata in via trasversale ed indiretta, tutte
caratteristiche qualificanti il “modus operandi” che appartiene tipicamente alla mafia. Da
questa fama negativa, meritata in conseguenza di reiterati comportamenti di violenza e di
minaccia, agiti con spietatezza e determinazione, e di un potere economico di difficile
contrasto, discende anche la percezione nei consociati e negli estranei della possibilità di una
loro reiterazione futura e l’agevolazione dell’operato antigiuridico ad antisociale dei suoi
esponenti.
Si è osservato con innegabile efficacia esplicativa che “pretendere che, in presenza di
simile caratterizzazione delinquenziale, con inconfondibile marchio di origine, sia necessaria la
prova della capacità intimidatrice o della condizione di assoggettamento od omertà è,
certamente, un fuor d’opera. Ed infatti, l’immagine di una ‘ndrangheta cui possa inerire un
metodo “non mafioso” rappresenterebbe un ossimoro, proprio in quanto il sistema mafioso
costituisce l’in se’ della ‘ndrangheta, mentre l’impatto oppressivo sull’ambiente circostante e’
15

assicurato dalla fama conseguita nel tempo da questa stessa consorteria”. Del resto, anche la
novellazione della norma di cui al comma ottavo dell’art. 416-bis cod. pen., introdotta dal D.L.
4 febbraio 2010, n. 4, art. 6, conv. in L. 31 marzo 2010, n. 50, laddove prevede che “le
disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla ‘ndrangheta e alle altre
associazioni comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza
intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni
di tipo mafioso”, avvalora il convincimento espresso nella sentenza impugnata sulla scorta di
precedenti uniformi che “non esistano distinte ed autonome espressioni ‘ndranghetiste, posto

locali, dotate di sostanziale autonomia operativa, pur se collegate e coordinate da una
struttura centralizzata” (Sez. 5, n. 31666 del 03/03/2015, Bandiera, Rv. 264471).
2.4 Tale arresto interpretativo, oltre ad essere ormai maggioritario, ribadisce
l’impostazione teorica già affermata dalla Suprema Corte in diversi procedimenti, sia cautelari
che di merito, aventi ad oggetto la realtà criminosa dei locali di Chivasso e Livorno Ferraris, e
da ultimo anche nel procedimento nei confronti di coimputati dei ricorrenti che hanno definito
le loro posizioni con il rito abbreviato (Sez. 1, n. 40851 del 19/5/2016, Cavallaro, Fotia ed altri,
ripetutamente citata dai ricorrenti). In particolare, si è ravvisata la configurabilità del “reato
associativo in presenza di una mafia silente purché l’organizzazione sul territorio, la distinzione
di ruoli, i rituali di affiliazione, il livello organizzativo e programmatico raggiunto, lascino
concretamente presagire … la prossima realizzazione di reati fine dell’associazione,
concretando la presenza del marchio (‘ndrangheta), in una sorta di franchising tra province e
locali che consente di ritenere sussistente il pericolo presunto per l’ordine pubblico che
costituisce la ratio del reato di cui all’art. 416 bis cod. pen.” (Cass. sez. 2, n. 4305
de1111/01/2012, Caridi; sez. 5, n. 35998 del 5/06/2013, Cavallaro Ferdinando; sez. 5, n.
35272 del 24/04/2013, Cavallaro Salvatore; sez. 5 n. 28337 del 7/5/2013, Marino; sez. 5 n.
28317 del 19/3/2013, Benedetto; sez. 5, n. 35997 del 5/6/2013, Caglioti, tutte non
massimate).
Su analoghe posizioni si è attestata anche la pronuncia resa nel procedimento c.d.
Minotauro (sez. 2, n. 15412 del 30/01/2015, Agresta, non massimata), la quale, nel
richiamare le decisioni sopra citate, ha puntualizzato “la nozione di cd. mafia silente, non già
come associazione criminale aliena dal cd. metodo mafioso o solo potenzialmente disposta a
farvi ricorso, bensì come sodalizio che tale metodo adopera in modo silente, cioè senza
ricorrere a forme eclatanti (come omicidi e/o attentati di tipo stragistico), ma avvalendosi di
quella forma di intimidazione – per certi aspetti ancora più temibile – che deriva dal non detto,
dall’accennato, dal sussurrato, dall’evocazione di una potenza criminale cui si ritenga invano
resistere” grazie ai collegamenti con la casa madre e con altre strutture operative periferiche,
ed altresì grazie alla diffusa conoscenza delle sue notorie pregresse attività criminose.
2.4. In piena coerenza con tale condivisibile orientamento della giurisprudenza di
legittimità, la sentenza della Corte territoriale impugnata riconosce, pertanto, una struttura
16

che la ‘ndrangheta e’ fenomeno criminale unitario, articolato in diramazioni territoriali, intese

unitaria dell’associazione, pur nascendo da tale struttura nuove articolazioni in realtà territoriali
lontane dalla Calabria, come evidenziato da una pluralità di dati fattuali comprovanti il
collegamento delle locali dell’hinterland torinese tra loro e tra l’associazione e la “casa madre”
calabrese, quali i riti di conferimento di dote, l’interessamento della casa madre alla riapertura
del locale di Rivoli dopo la dismissione da parte di Salvatore De Masi, le attività prodromiche
alla riapertura di una nuova locale, il ruolo di referente svolto da Giuseppe Catalano (già capo
del locale di Siderno a Torino, designato ad assumere la carica di capo del costituendo organo
di controllo dei locali piemontesi, denominato “Provincia”, e morto invece suicida in carcere

conversazioni intercettate denotanti la necessità di ottenere l’avallo del Crimine di Polsi per
poter aprire una nuovo locale oppure per nominare cariche apicali di una locale o istituire nuovi
organi.
Pur dando atto della mancanza sia di una “Camera di Controllo”, la cui costituzione risulta,
allo stato, solo un’aspirazione dei locali piemontesi, sia di un “Crimine” effettivamente
operante, senza incorrere in vizi logici la sentenza impugnata ha evidenziato, però, come le
forme di raccordo con le zone di provenienza non si siano sviluppate in un totale
assoggettamento delle cosche piemontesi a quelle della regione d’origine, tale da essere le
prime divenute espressione e strumento meramente esecutivo di progetti e volontà maturati
altrove, quasi un mero braccio operativo dislocato altrove, giacché, invece, attraverso la
propria gerarchia interna ciascuna struttura, una volta costituita, ha acquisito ed esercitato
un’autonomia decisionale e gestionale, dando luogo a manifestazioni concrete, vissute e
percepite come tali nelle corrispondenti realtà territoriali.
2.5. Tanto precisato sul piano dei rapporti con la casa madre, però, giova comunque
rilevare che, come si è già anticipato, comunque emergono dalla sentenza impugnata una serie
di episodi e vicende che senza vizi logici sono state riconosciute evidenziare forme di
espressione del metodo intimidatorio anche sul suolo piemontese, tali che consentirebbero di
ritenere integrato il delitto associativo contestato anche si volessero seguire gli orientamenti
interpretativi più restrittivi sopra ricordati, ormai minoritari.
In primo luogo, infatti, deve ricordarsi che l’art. 416 bis cod. pen. richiede che
l’associazione si affermi con la forza di intimidazione propria delle associazioni mafiose tipiche,
e che tale metodo caratterizza in primo luogo i rapporti interni tra associati e le rigide
gerarchie che connotano ogni sodalizio mafioso, qualunque denominazione esso abbia, in
quanto fondato sulla notoria impossibilità anche per i sodali di sottrarsi all’esecuzione degli
ordini ricevuti ed al rispetto delle regole della cosca. In tal senso, le sentenze di merito hanno
correttamente valorizzato i rapporti di assoggettamento interno alle regole mafiose, come
emersi, ad esempio, dalla conversazione intercettata in data 12/10/2012 nel procedimento
Minotauro, tra Pietro Marino e soggetto non identificato, nel corso della quale i due
interlocutori, nel commentare le vicende di Peppe Catalano, già capo del locale di Siderno a
Torino, designato ad assumere la carica di capo del costituendo organo di controllo dei locali
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dopo aver ammesso in un memoriale di essere stato partecipe dell’associazione), una serie di

piemontesi, denominato “provincia” e morto suicida in carcere dopo avere ammesso in un
memoriale di essere stato partecipe dell’associazione, mostravano di rimpiangere i tempi in cui
era sufficiente rendere conto una volta all’anno alla struttura di controllo in Calabria, mentre al
momento bisognava dar conto “sia qua”, ossia a Torino, sia “la sotto”, pur confermando,
comunque, di essere “l’uno per l’altro” e che “qua e là sotto sono collegati insieme”.
Sotto tale profilo, poi, emergono significativamente dalla sentenza impugnata sia il
rispetto dei rituali tradizionali ‘ndranghetistici, attraverso cui avviene la fondazione di nuove
compagini localizzate, l’affiliazione di nuovi adepti e la promozione nelle diverse cariche dei

di detenzione o comunque nei momenti di difficoltà, ed anche, però, la soggezione degli affiliati
a regole interne rigide ed obbligatorie, improntate al rispetto della gerarchia, della solidarietà
reciproca e dell’omertà, dalla cui violazione discende la punizione ed il discredito presso gli altri
partecipi, come nel caso di Pasquale Maiolo, oggetto di una conversazione intercettata tra
Pietro Marino e Salvatore Cavallaro, chiaramente rivelatrice del rispetto delle regole di
comportamento al quale si pretendeva si uniformassero i sodali, giacché i due stigmatizzavano
il comportamento del Maiolo, che ritenevano essersi posto in condizione ridicola ed inadeguata
al suo ruolo andando a casa del Laquale per rimproverarlo della relazione con la moglie (“ma
come, tu vuoi fare il mafioso, vuoi intimorire i cristiani e tu… … …”) .
Numerose estrinsecazioni del metodo mafioso anche all’esterno del sodalizio sono state,
poi, evidenziate dalla Corte territoriale, che ha sottolineato una serie di comportamenti e
circostanze, logicamente considerati nella loro valenza rappresentativa, in grado di
esteriorizzare l’impiego del metodo mafioso da parte di esponenti dei due locali di Chivasso e
Livorno Ferraris non solo nei rapporti interni tra affiliati, ma anche nel contesto sociale esterno:
si tratta, in primo luogo, del carattere armato dell’associazione, ma anche di una pluralità di
episodi, quali le iniziative di mediazione di controversie tra privati, composte con l’imposizione,
ed in particolare l’attività di mediazione descritta a pag. 111 della sentenza impugnata e svolta
in una controversia di lavoro da Salvatore Cavallaro (coimputato nel presente procedimento,
giudicato separatamente con giudizio abbreviato e anche in considerazione di tale attività
definitivamente ritenuto responsabile del delitto di cui si tratta dalla sentenza Sez. 1, n. 40851
del 19/5/2016, Cavallaro), e quella svolta in altra situazione da Ferdinando Cavallaro in un
contrasto condominiale sorto in uno stabile di via Mazzè, laddove il predetto veniva
evidentemente riconosciuto soggetto autorevole e non contestabile, pur in assenza di qualsiasi
apparente interesse nella vicenda. Sono stati individuati, poi, anche altri episodi in tal senso
significativi e tra questi appare sufficiente ricordare: l’estorsione ai danni di Roberto Carraro; le
vicende di usura riferite da Antonio Fernando Olivieri, che ne è rimasto vittima; la soluzione
con metodo intimidatorio ed aggressivo della contesa di natura concorrenziale, relativa alle
sale giochi ed alla Royal Venice s.a.s. di Ilario Cavallaro, in assenza di un intervento
dell’autorità costituita, in quanto Salvatore Cavallaro contattava, tramite il Caglioti, Enzo
Amantea, ritenuto fare concorrenza alla società, per mostrargli il suo fastidio al riguardo e, poi,
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sodali all’interno dell’associazione mafiosa, sia i vincoli di mutua assistenza tra affiliati in caso

il figlio Ilario non denunciava alle forze dell’ordine un danneggiamento subito, ma attivava i
suoi familiari per la reazione necessaria a riaffermare la supremazia anche in campo
economico.
3. Le difese hanno contestato anche, talvolta in termine estremamente generici, la natura
armata dell’associazione o, comunque, l’applicabilità ai singoli ricorrenti dell’aggravante di cui
ai commi quarto e quinto dell’art. 416 bis cod. pen. Si tratta di doglianze manifestamente
infondate, in primo luogo perché, come già rilevato da questa giurisprudenza di legittimità, in
tema di associazione per delinquere di tipo mafioso, la natura oggettiva dell’aggravante in

possesso delle stesse da parte della consorteria criminale o che per colpa lo ignorino (Sez. 6,
n. 44667 del 12/05/2016, P.G. in proc. Camarda e altri, Rv. 268677; sez. 5, n. 1703 del
24/10/2013, Sapienza e altri, rv. 258956; sez. 6 n. 42385 del 15/10/2009, Ganci, rv. 244904;
sez. 1 n. 5466 del 18/4/1995, Farinella, rv. 201650) e, del resto, la natura armata della
‘ ndrangheta come sodalizio criminoso e l’impiego della violenza e di armi per la soppressione
dei suoi nemici esterni o interni costituiscono dati conoscitivi assodati in separati procedimenti
già definiti rientranti ormai nel fatto notorio su cui fondare una massima di esperienza, perché
già accertato incontrovertibilmente in precedenti pronunce giudiziarie (Cass. sez. 6, n. 38796
del 17/6/2014, lana, non massimata; sez. 1 n. 13008 del 28/9/1998, Bruno e altri, rv.
211901; sez. 1, n. 40851 del 19/05/2016, Cavallaro, non massimata): senza incorrere in vizi
logici, pertanto, la sentenza impugnata, avvalendosi di materiale intercettativo, ha ritenuto che
il possesso di un’arma da parte di un affiliato fosse dato di conoscenza anche per gli altri
partecipanti e che l’adesione ai due locali di Chivasso e di Livorno Ferraris fosse avvenuta nella
consapevolezza dei singoli sodali di essere parte di una formazione ‘ndranghetistica avente
nella propria disponibilità armi da impiegarsi per gli scopi illeciti oggetto del suo programma
criminoso. Premesso che la sentenza impugnata ha ricordato come il collaboratore di giustizia
Varacalli abbia precisato non risultargli un arsenale comune ma anche che ogni associato
doveva avere a disposizione le armi (perché, altrimenti, sarebbe “come il carabiniere senza
pistola, uguale”), la stessa ha, comunque, evidenziato anche che l’analisi congiunta di quanto
emerso nel procedimento c.d. Minotauro, le dichiarazioni testimoniali di operatori dì P.G., i
verbali di perquisizioni e sequestro e le risultanze delle conversazioni intercettate hanno
rivelato il possesso di armi da parte di aderenti ad entrambi i locali di Chivasso e Livorno
Ferraris, quali Giuseppe Vincenzo Caglioti, Antonino D’Amico, Ferdinando Cavallaro, Pietro
Marino e Salvatore Cavallaro, anche a voler tacere di Antonino Fotia, Beniamino Gallone,
Walter Benedetto e Salvatore Dominiello.
4. Con altro motivo di ricorso proposto da diversi ricorrenti si sostiene l’insufficienza della
partecipazione alla colletta per i detenuti a provare l’intraneità all’associazione dei conferenti e
dei beneficiari.
La sentenza impugnata, infatti, desume la prova della raccolta di una colletta da una
pluralità di elementi, anche diversi da pur inequivoche intercettazioni ambientali, quali il
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questione comporta la sua configurabilità a carico dei partecipi che siano consapevoli del

memoriale con il quale il coimputato Antonio Fotia, giudicato separatamente con il rito
abbreviato, ammetteva che, per iniziativa di Pietro Marino, era stata fatta una raccolta di
denaro da devolvere ai detenuti, che dovevano ricevere tutti 200 euro, e l’obbligatorietà di
contribuire alla raccolta di fondi a scopo assistenziale (a beneficio materiale e morale dei
detenuti, che percepiscono la persistenza, nonostante l’esilio carcerario, del rapporto
dare/avere con l’associazione) è affermata anche da Mihaela Andreea SoroKanjiuc (già legata
al Cavallaro Ferdinando e, pertanto, profondamente inserita nel costume e nelle regole del
clan), con dichiarazioni in data 27/12/2012, a proposito della regola gravante sugli “amici”

Soprattutto, però, la prova e la natura di tali contribuzioni sono emerse dalle
intercettazioni di dialoghi tra gli odierni ricorrenti Pietro Marino e suo figlio Antonino, nonché
tra lo stesso Pietro Marino e Antonino D’Amico, ed ancora tra il Marino e tale Francesco
Roberto, amico della famiglia Vadalà, nella quale il primo, nel commentare l’atteggiamento di
ostilità della figlia di Giovanni Vadalà verso quanti erano ancora in libertà, aveva rievocato
l’episodio dell’invio in prossimità delle festività natalizie di denaro per il tramite di “uno”,
indicato esplicitamente nel Fotia, nell’ambito di un’iniziativa di sostegno solidale assunta a
favore anche di altri detenuti, raggiunti da ordinanza di custodia cautelare nell’ambito del
procedimento c.d. Minotauro.
Le difese hanno contestato anche asseriti vizi di motivazione della sentenza impugnata in
relazione all’assunto difensivo secondo cui si sarebbe trattato di una mera contribuzione
occasionale ed episodica in occasione di festività natalizie. Le sentenze di merito, le cui
argomentazioni si integrano a vicenda, invece, con articolate ed esaurienti argomentazioni,
prive di vizi logici, hanno ben evidenziato gli elementi che riconducono inequivocabilmente le
contribuzioni di cui sin tratta a logiche associative, non solo perché non risultano rapporti di
parentela dei beneficiari Pititto, Vadalà e Scarrippa con i conferenti, se non con i nipoti, né
rapporti di affari, ma anche perché le modalità della raccolta del denaro denotano
inequivocabilmente il carattere di una vera e propria colletta, dal momento che le contribuzioni
non erano libere nella loro quantificazione (come avveniva, invece, in occasione dei matrimoni,
laddove ognuno offriva in una busta quanto riteneva congruo in relazione ai suoi rapporti con
le famiglie dei festeggiati), ma predeterminate nel loro ammontare sia con riferimento a
quanto da ciascuno versato, sia con riferimento all’identica somma, di duecento euro, ricevuta
da ciascun detenuto, il tutto con conferimenti anche da parte di chi non risulta avere parenti od
amici tra i beneficiari, e perfino a favore di chi mostrava malanimo nei confronti dei conferenti
(come il Vadalà nei confronti dei Marino). Anche alla luce di tali considerazioni, senza vizi logici
la Corte territoriale ha indicato una conversazione tra Pietro Marino ed Antonino D’Amico come
un’icastica conferma della funzione di colletta in quanto, a fronte della reazione di Eleonora
Iervasi che aveva evidenziato di non poter ricambiare, i due commentavano che la predetta
non doveva preoccuparsi di ricambiare un regalo natalizio, quanto piuttosto di sostenere i
sodali detenuti nella prospettiva della loro liberazione.
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dell’aiuto economico in favore dei familiari del detenuto.

Si tratta di argomentazioni dalla logica lineare, che non possono ritenersi smentite dal
fatto che una quota della colletta sia stata destinata a Rocco Schirripa, affiliato della locale di
Moncalieri, e non a Pasquale Maiolo, dovendosi considerare da un lato la già ricordata
unitarietà dell’associazione, ben compatibile con un sostegno ai detenuti non riservato solo a
chi appartiene alla stessa locale ma anche al sodale che, come lo Schirripa, benché inserito in
altra locale, comunque era stato arrestato nella medesima operazione e raggiunto dalla stessa
accusa (in relazione alla quale avrebbe, poi, patteggiato la pena); non a caso, infatti, in una
conversazione intercettata l’esclusione del Maiolo dai beneficiari della colletta veniva spiegata

questo già provvedevano gli associati a tale locale.
Ulteriore conferma della chiave interpretativa di questi riferimenti, infine, è stata desunta
dal passaggio in cui, dopo che Francesco Roberto aveva affermato di avere a sua volta
consegnato del denaro da far pervenire al Vadalà, come fatto anche in favore di altro
arrestato, Bruno Trunfio, il Marino aveva precisato la diversa natura della contribuzione,
proveniente in misura uguale da una pluralità di sovventori, in favore di persone con le quali
avevano “un altro rapporto”.
Conseguentemente, al dato fattuale della raccolta di denaro destinato ai detenuti da parte
di una cerchia limitata in virtù di un preesistente rapporto, i giudici di merito hanno assegnato
valore dimostrativo dell’appartenenza al medesimo sodalizio, sia dei sovventori, che dei
sovvenzionati, perché estrinsecazione del vincolo di solidarietà e di affiliazione, che impone
l’aiuto reciproco anche di tipo finanziario nei momenti di difficoltà.
Le difese contestano la legittimità di tali argomentazioni, evocando a tal riguardo anche la
pronuncia della sentenza della prima sezione di questa Corte di Cassazione n. 40851 del
19/5/2016, che ha annullato la sentenza di condanna pronunciata dalla Corte di Appello di
Torino nei confronti di Antonio Fotia e Gaetano Lomonaco in relazione al medesimo reato
associativo.
Nonostante la connotazione chiaramente associativa della colletta, si tratta di un motivo
almeno parzialmente fondato.
In tema di associazione di tipo mafioso, infatti, la condotta di partecipazione è riferibile a
colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo
del sodalizio, tale da implicare, oltre che uno “status” di appartenenza, in questo caso anche
un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato “prende parte” al
fenomeno associativo, rimanendo anche a disposizione dell’ente per il perseguimento dei
comuni fini criminosi. Come riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte di Cassazione,
tale partecipazione può essere desunta da diversi indicatori fattuali dai quali, sulla base di
attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo
mafioso, possa logicamente inferirsi la appartenenza nel senso indicato, purché si tratti di
indizi gravi e precisi – tra i quali, esemplificando, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di
“osservazione” e “prova”, l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di “uomo d’onore”, la
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non già con la mera appartenenza alla locale di Livorno Ferraris, quanto con il fatto che a

commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, e però significativi, “facta concludentia” -,
idonei senza alcun automatismo probatorio a dare la sicura dimostrazione della costante
permanenza del vincolo, con puntuale riferimento, peraltro, allo specifico periodo temporale
considerato dall’imputazione (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Rv. 231670). Coerentemente
con tali principi, si è rilevato che ai fini dell’integrazione della condotta di partecipazione
all’associazione di tipo mafioso storico non è necessario che ciascuno dei membri del sodalizio
si renda protagonista di specifici atti esecutivi della condotta criminosa programmata, perché il
reato associativo, secondo la struttura tipica dei reati di pericolo presunto, si consuma anche

disposizione per il perseguimento dei comuni fini criminosi accresce, per ciò solo, la potenziale
capacità operativa e la temibilità dell’associazione: circostanza, questa, che integra la lesione
del bene giuridico – ordine pubblico – tutelata dalla norma (Sez. 2, n. 27394 del 10/05/2017,
Pontari, non massimata).
In mancanza di prova diretta di una rituale affiliazione, peraltro, tra gli indicatori fattuali
dell’adesione al sodalizio può certamente rientrare anche la condotta di colui che partecipi ad
un fondo di solidarietà (cosiddetta “colletta”) a favore di detenuti inseriti nell’associazione
mafiosa: sulla base di ormai note regole di esperienza la giurisprudenza di questa Corte
riconosce che tale condotta riveste, di per sé, efficacia indiziante del reato di partecipazione ad
associazione mafiosa, ex art. 416 bis cod. pen. (Sez. 5, n. 35997 del 05/06/2013, Rv. 256947)
e tuttavia, per quanto si tratti di indizio che l’esperienza indica come particolarmente
significativo, comunque si tratta di un indicatore che non si sottrae al principio, ricordato anche
dalla giurisprudenza delle sezioni unite sopra menzionata, che non consente automatismi
probatori.
La sentenza impugnata, invece, non risulta aver fatto sempre buon governo di tale
principio. Nel vagliare le singole posizioni, la Corte territoriale ha talvolta diffusamente
esaminato una pluralità di altri elementi fattuali che convergevano nel dimostrare
univocamente la stabile partecipazione del singolo imputato all’associazione di ‘ndrangheta,
così mostrando di considerare, in quei casi, la partecipazione alla colletta un elemento
significativo ma, comunque, convergente con altri ugualmente significativi nel provare in modo
incontrovertibile la militanza dell’imputato nel sodalizio. Nell’esaminare altre posizioni, invece,
il percorso argomentativo della sentenza impugnata appare fondarsi pressoché esclusivamente
sulla partecipazione alla colletta in favore delle famiglie dei sodali detenuti, in tal modo
mostrando di applicare quell’automatismo probatorio che, in coerenza con il già ricordato
insegnamento delle sezioni unite di questa Corte (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, cit.),
anche in questo procedimento cd. “Colpo di coda” è stato riconosciuto non potersi applicare
con riferimento alla menzionata colletta (Sez. 1, n. 40851 del 19/5/2016, Cavallaro): si tratta
di casi nei quali non manca l’indicazione di altri elementi ritenuti confermare la partecipazione
del singolo imputato al sodalizio criminoso, spesso, però, oggetto di mera elencazione senza un
adeguato approfondimento della loro valenza probatoria, evidentemente perché ritenuta a tal
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con la sola dichiarata adesione all’associazione da parte del singolo, il quale mettendosi a

fine già di per sé sufficiente la partecipazione alla colletta in favore delle famiglie dei sodali, in
coerenza con l’affermazione – esplicitata alla pag. 81 della sentenza impugnata – secondo cui,
nel difetto di elementi che consentano di riferire il versamento del denaro ad una mera forma
di solidarietà familiare o amicale nei confronti di persone comuni che stavano passando un
momento difficile, comunque la partecipazione alla colletta “costituisce prova della intraneità
dei conferenti e dei beneficiari”, senza distinguere, con tale affermazione, se si tratti di una
condotta isolata oppure reiterata nel tempo, se si tratti di una partecipazione in qualità di
collettore oppure di contribuente oppure ancora di beneficiario né, in un caso come nell’altro,

concorrano a dimostrare in modo incontrovertibile la partecipazione all’associazione.
In relazione a tali posizioni la sentenza impugnata va, conseguentemente, annullata, con
rinvio alla Corte territoriale per un nuovo esame del materiale probatorio acquisito, alla luce
dei principi sopraindicati.
Tanto premesso sul piano generale, vanno valutate le posizioni dei singoli ricorrenti ed i
motivi di ricorso nell’interesse degli stessi proposti.
5. I motivi addotti a sostegno del ricorso proposto nell’interesse di Pietro Marino attengono
soprattutto al merito della decisione impugnata, in quanto finalizzati a proporre inammissibili
ricostruzioni dei fatti mediante criteri di valutazione diversi da quelli adottati dal giudice di
merito che, peraltro, ha esplicitato le ragioni del suo convincimento con motivazione esente da
vizi logici e giuridici. Si tratta, comunque, di motivi privi di fondamento e talvolta anche
aspecifici, in quanto ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice
del gravame, con conseguente mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla
decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo
ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità
conducente, a mente dell’art. 591 comma 1 lett. c) cod. proc. pen., all’inammissibilità (Sez. 4,
29/03/2000, n. 5191, Rv. 216473; Sez. 1, 30/09/2004, n. 39598, Rv. 230634; Sez. 4,
03/07/2007, n. 34270, Rv. 236945; Sez. 3, 06/07/2007, n. 35492, Rv. 237596).
Si sono già dinanzi ricordate le numerose conversazioni del predetto Pietro Marino Pietro
con suo figlio Antonino, con Antonino D’Amico e con Francesco Roberto, dalle quali è emersa la
sua attiva partecipazione alla raccolta di fondi per i detenuti, e sono state anche ricordate
espressioni utilizzate dal Marino in queste conversazioni che, di per sé, rivelano la natura e la
finalità di tale contribuzione, rendendone palese il significato di assistenza ai sodali (“cosa che
abbiamo fatto noi…. noi abbiamo un altro rapporto. ..noi abbiamo fatto per uno e abbiamo
fatto per l’altro.. .i soldi sono andati a tutti…e tanti a ciascuno”). E’, tuttavia, infondato
l’assunto del ricorrente secondo cui la sua partecipazione al sodalizio sarebbe stata desunta
unicamente da tale colletta in quanto, al contrario, si è già ricordata anche la conversazione
intercettata tra Pietro Marino e soggetto non identificato, avente ad oggetto le vicende di
Peppe Catalano, già capo del locale di Siderno a Torino e designato ad assumere la carica di
capo del costituendo organo di controllo dei locali piemontesi denominato “Provincia”, e morto
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quale sia stata l’entità di tale contribuzione, e senza valutare adeguatamente se altri elementi

suicida in carcere dopo avere ammesso in un memoriale di essere stato partecipe
dell’associazione: nel rimpiangere i tempi in cui era sufficiente rendere conto una volta all’anno
alla struttura di controllo in Calabria, lamentando che ora bisognava invece dar conto “sia
qua”, ossia a Torino, sia “la sotto” (comunque confermando, comunque, di essere “l’uno per
l’altro” e che “qua e là sotto sono collegati insieme”) i due interloquivano in modo tale da
evidenziare comunque un loro stabile e radicato inserimento nel sodalizio criminoso.
Quale ulteriore conferma di tale partecipazione nell’associazione di cui si tratta, anche con
ruolo di rilievo, la Corte territoriale ha altresì valorizzato, al pari della sentenza di primo grado

ed in particolare il ruolo emerso da una conversazione telefonica con Salvatore Cavallaro a
proposito del comportamento di Pasquale Maiolo, capo locale di Livorno Ferraris resosi ridicolo
recandosi a casa del Laquale per minacciarlo perché aveva una relazione con la mogli: si è,
infatti, osservato che i commenti del Marino, di disapprovazione del comportamento del Maiolo,
contrario alle regole non scritte della ‘ndrangheta, ed i consigli conseguentemente
somministrati al Cavallaro su come trattare il suo capo locale non si conciliano con una mera
finalità di risolvere un contrasto sentimentale, ed evidenziano, invece, un autorevole
inserimento nelle dinamiche mafiose.
Ulteriore elemento convergente nell’indicare la partecipazione del Marino al sodalizio è
stato ravvisato dalla Corte territoriale anche nella conversazione con Antonino D’Amico,
intercettata il 9/3/2012, nella quale i predetti portavano i saluti al capo locale Trunfio
Pasquale, tramite Paolino Cosimo, e proprio la qualità di capo locale attribuita al Trunfio
almeno fino agli arresti nel proc. Minotauro è stata senza vizi logici riconosciuta dalla sentenza
impugnata come elemento che spiega l’assenza del Marino sia alla riunione del 1°/10/2009
fondativa della locale di Livorno Ferraris, sia al conferimento della dote a Pititto Salvatore, pur
compatibilmente con la sua partecipazione al sodalizio, atteso che a tali riunioni partecipavano
i capi locale, ma non potevano certo partecipare tutti i componenti di ogni locale, indicati in
numero non inferiore a cinquanta.
Altrettanto immune da vizi logici è, poi, la considerazione della sentenza impugnata
secondo cui la presa di distanza dai sodali arrestati, che appare emergere da una
conversazione di Marino con Rita Giuseppa Failaci, va logicamente intesa come manifestazione
di vivace critica nei confronti dei sodali che, facendosi riprendere dalle telecamere delle forze
dell’ordine e, poi, parlando con la stampa, si erano esposti tradendo antiche consuetudini di
comportamento della ‘ndrangheta. Contrariamente all’assunto del ricorrente, si tratta di
valutazione con la quale viene data adeguata risposta anche alle doglianze dell’atto di appello,
sul punto, fondate sulle espressioni utilizzate per evidenziare tale critica (“io non ci ho niente a
che fare con nessuno e non mi interessa nessuno …. io rispetto tutti …), atteso anche che la
sentenza ricorda come la stessa critica risulti espressa dal Marino anche in una conversazione
con tale Natale (n. 2824), nel corso della quale lo stesso ricorrente precisava “… eh non è che
a me non m’interessa, guarda..”: senza alcuna illogicità, pertanto, la presa di distanza dagli
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e senza incorrere in alcun vizio logico, il coinvolgimento del Marino nella cd. vicenda Laquale,

arrestati è stata ritenuta inidonea ad evidenziare l’estraneità del ricorrente al sodalizio, e tale
da confermare, invece, la sua profonda e radicata conoscenza delle regole di questo e delle sue
radici storiche, propria dell’intraneus. Del resto, la sentenza impugnata ricorda anche, in altra
parte, altra conversazione tra il Marino e la Failaci, che si lamentava di due persone che
parlavano male di lei con il suo convivente, ed alla quale il ricorrente consigliava di fare il suo
nome, consapevole dell’effetto intimidatorio che la sola evocazione di questo poteva
determinare (“…sono amica di Pietro Marino, mi volete lasciare stare o devo parlare con lui ?
allora loro prendono e ti lasciano in pace.. …”).

elementi come particolarmente significativi e convergenti nel comprovare lo stabile inserimento
di Pietro Marino nell’associazione di cui si tratta, sicché deve ritenersi qui sufficiente ricordare
che nell’articolata motivazione della sentenza vengono menzionati anche altri elementi, di
contorno ma anch’essi non privi di significato, coerenti con la predetta spiegazione, quali la
conversazione del 16/9/2012 con Antonino D’Amico, nel corso della quale i due commentavano
tentati omicidi di tali Valentino e Carmine, la partecipazione ai funerali del fratello di Caglioti
Enzo (oltre che a quelli di un familiare del Fotia, di cui al separato procedimento di cui si è
detto), la testimonianza di Andrea Sorokanjuc nella parte in cui riferiva di aver appreso dall’ex
amante Ferdinando Cavallaro che il Marino ed i suoi figli erano persone per lui affidabili,
testimonianza in relazione alla quale la sentenza impugnata, lungi dall’omettere di considerare
i cessati rapporti della Sorokanjiuc con i Cavallaro, ha evidenziato però che la teste non ha
millantato alcun rapporto con i Marino, limitandosi a riferire quanto appreso dall’ex amante, ed
ha indicato la mancanza di rapporti con il ricorrente come elemento sufficiente ad escludere
intenti calunniatori.
6. I ricorsi proposti nell’interesse di Marino Antonino e Marino Nicola, invece, sono
meritevoli di accoglimento, nei limiti che seguono.
La Corte territoriale ha ben evidenziato, senza incorrere in alcun vizio logico, come i due
figli di Pietro Marino abbiano partecipato alla colletta in favore dei sodali arrestati nel proc. cd.
Minotauro, come emerso da una conversazione intercettata tra Antonino Marino ed il padre, nel
corso della quale, in prossimità delle feste natalizie, i due contavano il denaro raccolto da
tredici conferenti, ciascuno dei quali aveva versato 200 euro, in favore di otto beneficiari, che
dovevano ricevere 200 euro ciascuno, con l’unica eccezione di tale Massimo, che doveva
versare 120 euro e prendere dal denaro raccolto 80 euro, in modo da avere 200 euro
complessivi per un unico beneficiario. Dal momento che nei conteggi i due ripetutamente si
riferivano a gruppi familiari (come “i due di Montanaro” o “compare Nino e Giuseppe” con
riferimento a D’Amico Antonino e suo figlio Giuseppe) non è certo illogica la deduzione della
Corte territoriale secondo cui, laddove Marino Pietro nel contare il denaro diceva “noi siamo
tre”, intendeva riferirsi ad un terzo legato da vincoli familiari, altrettanto non illogicamente
individuato nel figlio Nicola, atteso che altra figlia non risulta aver mai partecipato alle attività
oggetto di indagine, a differenza del predetto.
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Con un solido percorso argomentativo, pertanto, la Corte territoriale ha indicato i predetti

La sentenza valorizza anche la reazione dei due fratelli Marino alla notizia degli arresti
effettuati nel procedimento Minotauro, evidenziata da una conversazione telefonica nella quale
i due si mostravano preoccupati per il probabile arresto di Vadalà Giovanni, gestore del bar
Timone, luogo di incontro dei sodali, si informavano se il padre fosse rientrato a casa ed
adoperavano espressioni preoccupate: si tratta di reazione che mostra quantomeno una
contiguità dei due al sodalizio criminoso ed alle attività illecite del padre, sicché ben può essere
considerata un riscontro all’individuazione, nel Nicola, del terzo familiare impegnato nella
colletta in favore dei familiari degli arrestati in quell’occasione, ma la sentenza impugnata, pur

conversazione possa confermare, oltre ad una solidarietà familiare, anche l’intraneità dei due
al sodalizio del quale la successiva colletta costituisce solo un grave indizio.
Allo stesso modo, la Corte territoriale indica correttamente come ulteriore manifestazione
della solidarietà familiare la reazione della famiglia Marino al rinvenimento di un biglietto
anonimo con il quale ci si lamentava del chiasso che veniva fatto al mattino presto quando
venivano montati i dehors del suo bar. L’intercettazione ambientale di una conversazione tra
Pietro Marino e suo figlio Antonino ben evidenzia il tono di spregio e di prevaricazione assunto
dal primo nei confronti dell’autore del biglietto, così come individuato dal figlio Antonino, però
la sentenza impugnata non spiega in alcun modo se e come si sia estrinsecata tale
prevaricazione nei confronti del vicino di Nicola Marino, se cioè sia stata esercitata a nome o
tramite la locale di Chivasso, oppure se eventuali violenze o minacce abbiano costituito mera
estrinsecazione di un modus vivendi proprio dei Marino, anche in un contesto familiare.
Anche l’inserimento del nominativo di Antonino Marino nelle tre liste matrimoniali dei figli
di Pasquale Maiolo, Salvatore Cavallaro ed Antonino D’Amico è un elemento che ben può
essere valutato come una forma di ossequio alla regola ‘ndranghetista che impone la
partecipazione della famiglia del sodale anche agli eventi che riguardano i familiari di altri, ma
si tratta di elemento che, di per sé, è notoriamente compatibile anche con consuetudini sociali
proprie anche di ambienti non criminali, come già rilevato dalla giurisprudenza di questa Corte
in relazione anche alle vicende questa locale (sez. 1^, sez. 1 n. 40851 del 19/05/2016,
Cavallaro).
La sentenza impugnata evidenzia, inoltre, l’anomalia della stabile partecipazione di Nicola
Marino al CDA della CHIND S.p.A., società partecipata del Comune di Chivasso e della Regione
Piemonte, volta alla promozione di attività produttive in quella città e nella Regione Piemonte.
La Corte territoriale ben illustra gli elementi di anomalia della presenza del predetto ricorrente
nel consiglio di amministrazione della società, pur non avendone in alcun modo i requisiti di
esperienza e capacità politica e tecnica richiesti, così come illustrati da una testimonianza della
quale sono riportati ampi stralci, per di più ricoprendo tale carica per lunghi anni, anche con il
mutare degli equilibri politici nel territorio: la sentenza, però, non illustra con chiarezza in
quale modo tali anomalie possano essere riconducibili alla locale di Chivasso, se non con vago

26

riportando alcuni passaggi della conversazione telefonica, non spiega perché tale

riferimento, alla pag. 86, ad un “interesse” mostrato da sodali in occasione di elezioni
amministrative di quel comune.
Per entrambi i gemelli Marino, infine, la sentenza valorizza, quale elemento significativo
della loro intraneità al sodalizio criminoso, il contenuto di una conversazione intercettata (n.
2824) “nella quale Marino Pietro auspicava che le redini venissero prese dai figli”, anche in
questo caso, però, senza meglio specificare il tenore del dialogo, così da mostrare se lo stesso
possa indurre a presupporre ragionevolmente un coinvolgimento dei due figli, anche
all’attualità, nelle attività della locale di Chivasso.

Corte territoriale – come si dirà anche con riferimento ad altri ricorrenti – appare chiaramente
condizionato dalla non condivisibile valutazione secondo cui la mera partecipazione anche ad
una sola colletta in favore di famiglie di sodali detenuti possa ritenersi di per sé una prova, e
non solo un indizio, per quanto particolarmente significativo e grave, dell’intraneità al sodalizio
del singolo partecipe, sia esso contribuente o beneficiario, sicché gli altri elementi di interesse
in relazione a tali posizioni vengono esposti quasi come elementi di mero contorno, senza
adeguate specificazioni che consentano di attribuire loro il carattere della precisione in modo
da poter convergere in modo significativo con la partecipazione alla colletta al fine di
eventualmente provare in modo incontrovertibile, al di là di ogni ragionevole dubbio,
l’intraneità dei ricorrenti al sodalizio.
Si impone, pertanto, l’annullamento del sentenza impugnata, in relazione a tali posizioni,
con rinvio ad altra sezione della Corte territoriale, per una più adeguata valutazione di tali
posizioni alla luce dei principi sopra enunciati.
7. I ricorsi proposti da Antonino D’Amico e suo figlio Giuseppe D’Amico, invece, sono
infondati e non possono trovare accoglimento.
Deve, infatti, preliminarmente rilevarsi che non sono censurabili né il significato attribuito
in sentenza alla colletta in favore degli arrestati nel procedimento cd. Minotauro, di cui si è
detto, né il riconoscimento della partecipazione dei due predetti ricorrenti a tale colletta.
Ai fini dell’identificazione in Antonino D’Amico e suo figlio Giuseppe di due partecipanti alla
colletta, infatti, la Corte di Appello, nel ricordare alcune conversazioni relative alla fase di
distribuzione del denaro, ha ben evidenziato che in una di queste, mentre Marino Pietro e
D’Amico Antonino contavano le banconote dicendo “uno e due … uno e due …”, si udiva perfino
il fruscio del denaro che veniva contato, e che in precedenza, nella fase della raccolta del
denaro in prossimità delle feste natalizie, Pietro Marino e suo figlio Antonino avevano fatto
espresso riferimento ai due D’Amico con le espressioni “compare Nino l’hai contato? …. Si, Nino
compare Nino e Giuseppe..”: in relazione a tali espressioni la Corte territoriale ha fornito
adeguata spiegazione dei motivi che hanno portato all’identificazione dei due ricorrenti, atteso
che anche in altre conversazioni Antonino D’Amico veniva chiamato “Nino” dagli altri sodali,
che non risultano altre persone appellate in tal modo, che successive conversazioni intercettate
(quale quella relativa alla fase di distribuzione del denaro, dinanzi richiamata) hanno
27

In sintesi, deve rilevarsi che l’esame delle posizioni dei due fratelli Marino da parte della

confermato la partecipazione di Antonino D’Amico alla colletta, e che l’associazione dei nomi
“compare Nino e Giuseppe” in un unicum ben si spiega soltanto con il legame familiare tra i
due. Dalla sentenza impugnata emerge chiaramente, poi, che la partecipazione di Antonino
D’Amico al conteggio del denaro dimostra come all’indicazione dei ricorrenti tra i partecipanti
alla colletta sia seguita anche la loro effettiva e successiva partecipazione.
Senza alcun vizio logico, poi, la Corte territoriale ha evidenziato i motivi per cui
l’affermazione della moglie del Pititto, Patrizia Bertino, di aver ricevuto dal Marino solo 50 euro
non possono essere ritenute idonee a contrastare i predetti elementi, giacché si tratta di

intercettazione, con formazione di quote tutte uguali (“uno e due”) e con l’esplicita
soddisfazione degli interlocutori per il fatto che non fosse mancato il denaro necessario, nonché
con le risultanze delle dichiarazioni del Fotia secondo cui ciascuno dei beneficiari aveva
ricevuto, appunto, la stessa somma di euro 200; inoltre, la Corte ha anche evidenziato la
generale inattendibilità delle dichiarazioni della compagna del Pititto, anche con riferimento al
conferimento della dote a quest’ultimo, sicché debbono ritenersi inammissibili in questa sede le
prospettazioni di diverse letture di tali elementi, valutati senza illogicità evidenti.
Il giudizio di penale responsabilità nei confronti di Antonino D’Amico e di suo figlio
Giuseppe, però, non si fonda soltanto sulla loro pur determinante partecipazione alla colletta in
favore dei sodali detenuti, giacché in relazione ad entrambi la Corte territoriale, senza
incorrere in vizi logici, ha adeguatamente evidenziato anche la loro partecipazione alla riunione
presso il bar Timone di Vadalà Giovanni il 30/10/2009, constatata dalla RG. che effettuava un
servizio di OCP seguendo Maiolo Pasquale: la sentenza impugnata ha ritenuto di poter
valorizzare tale riunione, alla luce delle nuove acquisizioni probatorie, anche se non ritenuta
significativa nel procedimento cd. Minotauro e, a tal fine, ha in primo luogo sottolineato come
tale bar fosse il luogo di ritrovo dei sodali della locale di Chivasso, tanto che altri servizi di OCP
hanno rivelato che proprio presso tale esercizio ebbero a celebrarsi il rito di conferimento della
dote a Pititto Salvatore e ad effettuarsi i festeggiamenti per le consultazioni elettorali del
comune di Chivasso. Giova rilevare, poi, che la partecipazione di Antonino e Giuseppe D’Amico
alla riunione smentisce inequivocabilmente le affermazioni di entrambi di non conoscere il
Maiolo, presente anch’egli alla riunione, e che, invece, e senza incorrere in vizi logici la Corte
attribuito alla stessa un rilievo determinante, desumendo l’incontrovertibile carattere
associativo dell’incontro non solo dal fatto che i partecipanti non erano stati visti dagli operanti
entrare nel locale dalla via pubblica, sicché non potevano che provenire dalla parte riservata
del locale, ma soprattutto dall’intercettazione della conversazione tra Pietro Marino e tale
Natale, durante la quale il primo criticava i sodali per essersi fatti riprendere dalle telecamere
(“… … perché li hanno ripresi a tutti con le telecamere e non possono dire che non è vero, si
sono fatti vedere a tutto il mondo…”). La sentenza impugnata, infine, ha desunto il carattere
associativo della riunione dalla qualità dei partecipanti – Pasquale Trunfio, Stefano Modaferri,
Giovanni Vadalà, Salvatore Pititto, Mario Tonino Maiolo e Paolino Colosimo, oltre i due D’Amico
28

dichiarazione incompatibile con il significato palese della conta del denaro oggetto di

- indicati come soggetti tutti “legati” alla locale di Chivasso, circostanza in alcun modo smentita
dal rilievo difensivo secondo cui, pur essendo stata riconosciuta nel proc. cd. Minotauro
l’affiliazione del Modaferri e del Vadalà, in alcun procedimento, invece, sarebbe stato implicato
Paolino Colosimo: il legame di quest’ultimo con la locale in questione, infatti, è stato comunque
esplicitato dalla sentenza con la precisazione che si tratta del consuocero del Trunfio e del
Modaferri, tanto che ripetutamente la sentenza menziona la conversazione telefonica nel corso
della quale Pietro Marino ed Antonino D’Amico parlavano dei saluti inviati al Trunfio proprio
tramite il Colosimo.

nel difetto di prova diretta del contenuto dell’incontro, comunque la pluralità dei convergenti
elementi sopraindicati ne dimostra il carattere associativo, né può essere contrastata in questa
sede con la prospettazione di diverse ricostruzioni della dinamica dell’episodio, e non già dei
partecipanti, fondate su asseriti travisamenti della prova. Al di là di ogni considerazione in
ordine al rilievo assolutamente marginale delle contestazioni rivolte, infatti, giova ricordare che
nel caso di cosiddetta “doppia conforme”, come nel caso di specie, il vizio del travisamento
della prova, per utilizzazione di un’informazione inesistente nel materiale processuale o per
omessa valutazione di una prova decisiva, può essere dedotto con il ricorso per cassazione ai
sensi dell’art. 606, comma primo, lett. e) cod. proc. pen. solo nel caso in cui il ricorrente
rappresenti – con specifica deduzione – che il dato probatorio asseritamente travisato è stato
per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento
di secondo grado. (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016 – dep. 20/02/2017, La Gumina e altro, Rv.
269217), il che non è avvenuto nella fattispecie in esame.
In considerazione del rilievo attribuito dai giudici di merito alla partecipazione di entrambi i
D’Amico sia alla riunione in questione che alla colletta in favore degli arrestati nel proc.
Minotauro, pertanto, il riconoscimento dell’affiliazione dei predetti alla locale di Chivasso deve
ritenersi immune da vizi logici e da violazioni di principi di diritto.
Per mera completezza di esposizione, peraltro, va ricordato che la sentenza impugnata ha
ripetutamente evidenziato l’esistenza di ulteriori elementi a carico di Antonino D’Amico, alcuni
più significativi ed altri di mero contorno, quali una conversazione nella quale Mario Maiolo
confidava la sua preoccupazione per essere stato visto dai carabinieri mentre era in sua
compagnia, la sua visita a Salvatore Pititto appena scarcerato, effettuata insieme a Pietro
Marino, i saluti che, sempre insieme a quest’ultimo, ha inviato a Pasquale Trunfio tramite il
Colosimo, l’inserimento del suo nome in liste matrimoniali dei figli di Salvatore Cavallaro e
Pasquale Maiolo, la sua partecipazione ai funerali di familiari di soggetti associati a diverse
locali, ed altro.
8. Le censure rivolte nel ricorso dei fratelli Benedetto all’identificazione in uno di essi del
macellaio di cui si parlava nella menzionata conversazione tra Pietro Marino ed il figlio Antonino
debbono ritenersi aspecifiche, in quanto reiterative di doglianze già avanzate con il ricorso in
appello e disattese con motivazione assolutamente congrua e priva di vizi logici, laddove
29

E’, pertanto, immune da vizi logici la ricostruzione dei giudici di merito secondo cui, pur

questa ha evidenziato che è pacifico che Massimo Benedetto gestiva effettivamente una
macelleria in Volpiano, ed ha anche convenuto che, come dedotto nel ricorso, la conversazione
tra il Marino ed il D’Amico nella quale ci si riferisce al macellaio Massimo è di mesi successiva a
quella nella quale Pietro Marino ed il figlio Antonino indicavano che il Massimo non versava la
quota sua quota di 120 euro ma prendeva dal denaro raccolto 80 euro e li sommava ai suo
120; la sentenza ha, però, evidenziato anche che da tale conversazione emerge altresì che
quel Massimo – proprio come il Benedetto – aveva un congiunto detenuto in carcere e
conosceva qualcuno degli organizzatori della colletta, così come il macellaio Massimo

figlia di quest’ultimo. Infine, senza incorrere in vizi logici, la Corte territoriale ha valorizzato la
singolarissima circostanza che la ricezione proprio della somma di 200 euro da parte del
detenuto Walter Benedetto, importo identico a quello indicato per i beneficiari della colletta, è
successiva di soli due giorni alla conversazione avente ad oggetto i conteggi del denaro a
questa destinato.
Se non è dubbia l’identificazione dei due Benedetto, l’uno come partecipe alla colletta e
l’altro tra i beneficiari di questa, tuttavia la trattazione della posizione dei predetti ricorrenti
risente degli stessi limiti già evidenziati con riferimento alle posizioni dei gemelli Marino, atteso
che la motivazione della sentenza impugnata appare fondare il giudizio di responsabilità
essenzialmente sul coinvolgimento dei due fratelli nella colletta di cui si è detto, indicando altri
elementi, pur significativi, solo per illustrare le ragioni dell’identificazione dei predetti o,
comunque, come elementi di mero contorno rispetto a quello che erroneamente viene ritenuto
di per sé sufficiente a provarne l’affiliazione alla locale di Chivasso.
Così, ai fini dell’identificazione del macellaio Massimo, la sentenza ha evidenziato che
Massimo Benedetto ebbe a partecipare ai funerali di Francesco Scali, fratello di Domenico Scali,
vittima di un omicidio, ed in quell’occasione veniva visto in compagnia di Agresta Agresta, capo
locale di Volpiano, Antonino D’Amico ed altri sodali, e risulta altresì nelle liste matrimoniali dei
figli di Pasquale Maiolo, dello stesso Antonino D’Amico e di Salvatore Cavallaro, sicché,
trattandosi di soggetti che nell’associazione hanno rivestito ruoli tutt’altro che marginali, è
stato correttamente rilevato che non appare verosimile che gli stessi abbiano invitato a tali
matrimoni il ricorrente solo perché a loro noto come macellaio di fiducia, il D’Amico per di più
estendendo l’invito anche al fratello Walter: la Corte, però, rilevando che tali celebrazioni, pur
non costituendo di per sé prova dell’affiliazione all’associazione, sono comunque usualmente
anche occasioni di riunioni tra sodali per discutere di questioni inerenti la stessa, sicché la
distribuzione degli inviti non è casuale, poi non ha illustrato se alla luce delle circostanze del
caso tale elemento possa essere valorizzato o meno, e nel primo caso in quale misura, anche
ai fini dell’accertamento dell’intraneità dello stesso nel sodalizio di cui si tratta. Non diverse
risultano, poi, le indicazioni contenute nella sentenza impugnata in ordine ad altre
frequentazioni del ricorrente, soprattutto in età giovanile, con soggetti in qualche modo legati
al sodalizio e di conversazioni telefoniche nelle quali lo stesso è stato menzionato, con
30

Benedetto conosceva il Marino ed il D’Amico, tanto da risultare nella lista matrimoniale della

riferimento ad episodi anche delittuosi (quale ad esempio una sparatoria ai danni di tali
Amantea e Volpe), senza in alcun modo indicare il ruolo che in questi episodi possa aver
eventualmente svolto o, comunque, la natura del suo coinvolgimento negli stessi.
Analogamente, per quanto concerne Walter Benedetto, detenuto in carcere per delitti
comuni e beneficiario in un’occasione della colletta organizzata dal sodalizio, la sentenza
riferisce genericamente di una lettera del 2010 di tale Pontieri, anch’egli detenuto, rinvenuta
nel corso di una perquisizione presso suo fratello Massimo, dalla quale sarebbero emersi non
meglio specificati rapporti tra lo stesso Walter ed Antonino D’Amico, ed altresì di lettere inviate

Pasquale Trunfio, senza però in alcun modo indicare se il tenore di tali missive possa
confortare, ed in quale misura, l’ipotesi accusatoria dell’affiliazione del ricorrente al sodalizio.
Nel difetto di specificazioni in ordine ad eventuali coinvolgimenti dei fratelli Benedetto in
atti illeciti commessi quali appartenenti al sodalizio, pertanto, la sentenza dagli stessi ricorrenti
impugnata va annullata, con rinvio alla Corte territoriale perché espliciti l’eventuale valore
indiziante di elementi diversi dalla mera partecipazione, in un’unica occasione, alla menzionata
colletta, e l’idoneità di questi ad integrare tale partecipazione al fine di dimostrare al di là di
ogni ragionevole dubbio l’intraneità dei ricorrenti alla locale di Chivasso.
9. Per le stesse ragioni vanno accolti anche i ricorsi presentati nell’interesse di Michele e
Salvatore Dominello, nei limiti di seguito indicati, pur presentando essi profili di inammissibilità
in relazione alle censure rivolte alla parte della motivazione della sentenza che li individua tra i
partecipi della più volte menzionata colletta in favore dei carcerati.
9.1. Sono inammissibili, infatti, le doglianze proposte in ordine al mancato accoglimento
della richiesta di procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale con l’audizione di un
consulente e, quindi, di acquisire una consulenza di parte in relazione alla decifrazione di
un’espressione utilizzata da Pietro Marino e suo figlio Antonino nel corso della conversazione
intercettata ed avente ad oggetto i partecipi alla colletta, il tutto al fine di disporre, poi, una
perizia idonea a risolvere il contrasto tra le perizie trascrittive acquisite, in ordine
all’interpretazione di un fonema pronunciato dai due interlocutori.
Giova infatti ricordare, a tal proposito, che la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale,
prevista dall’art. 603, comma 1 cod. proc. pen., è subordinata alla verifica dell’incompletezza
dell’indagine dibattimentale e alla conseguente constatazione del giudice di non poter decidere
allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria, e tale accertamento comporta una
valutazione rimessa al giudice di merito che, se correttamente motivata, come nel caso in
esame, è insindacabile in sede di legittimità (sez. 4 n. 18660 del 19/2/2004, Rv. 228353; sez.
3 n. 35372 del 23/5/2007, Rv. 237410; sez. 3 n. 8382 del 22/1/2008, Rv. 239341).
Senza incorrere in vizi logici, infatti, la Corte territoriale ha dato ampia e articolata
giustificazione in ordine agli elementi che hanno indotto ritenere assolutamente certa
l’identificazione dei due ricorrenti come partecipi alla colletta di cui si tratta, rilevando che i due
dialoganti nell’autovettura del Marino il giorno 14/12/2011 si riferivano prima a “i due di
31

dal carcere dal medesimo ricorrente a Giuseppe Trunfio, figlio del capo locale di Chivasso,

Montanaro”, indicati come “Michelino e Salvatore”, e poi indicavano le prime lettere del
cognome, percepite dalla P.G. come “Domine” e nella perizia trascrittiva come “don”;
conseguenti ricerche anagrafiche avevano consentito di accertare che l’unica coppia di fratelli
residenti nel piccolo comune di Montanaro che avessero i nomi propri di Michelino e Salvatore
e cognome che inizia non solo con Don o Domine, ma anche con fonemi solo simili (Dom,
Dome, Done, Domino, Domini, ecc.), è quella costituita, appunto, dai ricorrenti Dominello. La
sentenza ha rilevato anche che solo dopo tali accertamenti si è riscontrato che i due sono
nipoti di Salvatore Pititto, proprio uno degli arrestati dell’indagine Minotauro, e figli di Saverio

Bellocco di Rosarno, elemento ritenuto riscontrare l’individuazione così effettuata. Da ultimo, la
Corte ha riferito di aver direttamente proceduto all’ascolto della conversazione di cui si tratta
rilevando che dopo le parole “Michelino … e Salvatore” veniva pronunciata un’espressione di cui
si percepivano solo le prime lettere come “Dom”, con la “m” particolarmente nasale.
Si tratta di argomentazioni di merito, esposte senza contraddizioni o illogicità evidenti, che
rendono adeguatamente conto dei motivi per i quali la Corte ha ritenuto non fosse
assolutamente necessario procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per
acquisire ulteriori prove dichiarative e procedere poi a perizia per compiere ulteriori valutazioni
in ordine alle parole che hanno seguito l’indicazione dei nominativi Michele e Salvatore nel
dialogo relativo alla colletta. Soprattutto, però, occorre rilevare che, secondo la consolidata e
condivisibile giurisprudenza di questa Corte di legittimità, la perizia non rientra nella categoria
della “prova decisiva” ed il relativo provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi
dell’art. 606, comma primo, lett. d), cod. proc. pen., in quanto costituisce il risultato di un
giudizio di fatto che, se sorretto da adeguata motivazione, è insindacabile in cassazione (sez.
4, n. 4981 del 05/12/2003, Rv. 229665; sez. 6, n. 43526 del 03/10/2012, Rv. 253707; sez. 4,
n. 7444 del 17/01/2013, Rv. 255152).
9.2. Per i motivi già dinanzi esposti, invece, i ricorsi di cui si tratta sono fondati nella parte
in cui contestano la motivazione della sentenza impugnata laddove questa appare indicare la
partecipazione dei fratelli Dominello alla colletta in favore dei detenuti come prova del loro
stabile inserimento in un’associazione mafiosa e non già come elemento meramente indiziario,
per quanto di rilevante spessore e significato.
Non è privo di rilievo, peraltro, che la sentenza impugnata indichi anche i fratelli Dominello
tra gli imputati raggiunti da “altri elementi”, ulteriori rispetto alla partecipazione alla colletta in
questione, ed in particolare che ricordi l’arresto di Michele Dominello nel 2000 per spaccio di
stupefacenti e reati in materia di armi, ed un controllo subìto dallo stesso insieme a Giuseppe
D’Amico, l’arresto del fratello Salvatore nel 2010 per reati in materia di armi, il controllo subìto
anche da questo insieme allo stesso D’Amico, e l’inserimento dello stesso nella lista del
matrimonio di Ilario Cavallaro: anche con riferimento ai predetti ricorrenti, però, si tratta di
elementi oggetto di mera elencazione, in quanto espressamente indicati come di mero
contorno a quella che erroneamente è stata considerata prova sufficiente di per sé a
32

Dominello, condannato per partecipazione ad un’associazione collegata alla cosca Pesce

dimostrare l’intraneità al sodalizio in questione, senza alcun approfondimento di tali vicende e
della loro idoneità ad integrare il predetto grave indizio al fine di raggiungere il valore di
incontrovertibile prova. Anche laddove la Corte territoriale ha offerto una descrizione di
ulteriori elementi, ed in particolare della vicenda cd. Verterame, si è trattato di descrizione
esplicitamente rivolta a riscontrare la correttezza dell’individuazione dei Dominello come
partecipi alla colletta, e non già per valutarne la forza probatoria in ordine alla loro eventuale
partecipazione all’associazione criminale: si tratta di vicenda avente ad oggetto competizioni
tra imprenditori operanti nel settore del movimento terra, teatro di imposizioni da parte delle

visto, però, l’intromissione di Francesco letto, coinvolto nel processo cd. “Infinito”, proprio in
lavori affidati al predetto Dominello, sicché il padre di questo, Saverio, si era lamentato con
toni accesi dell’intromissione ed aveva avvisato il Verterame di aver già interessato della
questione “Rosarno”, con un riferimento inteso come alla ‘ndrina del posto e, come tale,
indiretta conferma la correttezza dell’identificazione dei due Dominello come partecipi alla
colletta, senza alcun valutazione, però, dell’eventuale efficacia probatoria anche di tale
elemento in relazione alla partecipazione dei due, e non solo del padre, all’associazione di
stampo mafioso oggetto del procedimento.
10.

Non possono trovare accoglimento, invece, i ricorsi proposti nell’interesse di

Ferdinando Cavallaro, Bruno Cavallaro e Vincenzo Caglioti, riconosciuti colpevoli di aver fatto
parte della locale di Livorno Ferraris, la nuova locale operante nel territorio di Chivasso formata
da soggetti originari delle Serre Vibonesi e derivata da quella di Chivasso, con la quale
conservava elementi di collegamento.
11. E’ innanzitutto priva di fondamento l’eccezione di nullità o inutilizzabilità degli esiti
delle attività intercettive – avanzata con il secondo motivo di ricorso dai fratelli Cavallaro e
reiterativa di doglianza già disattesa dalla Corte territoriale con esaurienti argomentazioni – per
essere stati cancellati dal server della Procura della Repubblica i dati originari delle
intercettazioni, una volta riversati sul supporto CD Rom. La sentenza impugnata, infatti,
richiamando anche la giurisprudenza delle sezioni unite di questa Corte di legittimità che con
l’atto di appello era stata invocata, ha ricordato che condizione necessaria per l’utilizzabilità
delle intercettazioni è soltanto che l’attività di registrazione – che, sulla base delle tecnologie
attualmente in uso, consiste nella immissione dei dati captati in una memoria informatica
centralizzata – avvenga nei locali della Procura della Repubblica mediante l’utilizzo di impianti
ivi esistenti, mentre non rileva che negli stessi locali vengano successivamente svolte anche le
ulteriori attività di ascolto, verbalizzazione ed eventuale riproduzione dei dati così registrati,
che possono dunque essere eseguite “in remoto” presso gli uffici della polizia giudiziaria (Sez.
U, n. 36359 del 26/06/2008, Rv. 240395; così anche Sez. 2, n. 6846 del 21/01/2015, Rv.
263430). Le sezioni unite di questa Corte hanno osservato che la rivoluzione che ha
trasformato la telefonia nel recente passato ha segnato, in estrema sintesi, il progressivo
passaggio dalla trasmissione di segnali in maniera analogica a quella di dati in forma digitale,
33

diverse locali, settore nel quale operava anche il ricorrente Michele Dominello e che aveva

trasformando il servizio telefonico (a partire da quello di telefonia mobile) in un sistema
informatico o telematico, sicché è mutato lo stesso oggetto fisico della comunicazione
telefonica e, quindi, della sua intercettazione. Di conseguenza, è stato fatto progressivamente
ricorso alla utilizzazione di sistemi di registrazione digitale computerizzata che hanno sostituito
gli apparti “meccanici”. In definitiva si è assistito ad una profonda trasformazione della realtà
presupposta dal legislatore del 1988, giacché per la registrazione vengono ormai utilizzati
apparati multilinea (collegati cioè ad un flusso di linee telefoniche) che registrano dati
trasmessi in forma digitale e successivamente decodificati in file vocali immagazzinati in

su supporti informatici (essenzialmente Cd-Rom o DVD) per renderli fruibili all’interno dei
singoli procedimenti. In pratica, dunque, i supporti costituiscono il corredo documentale in
precedenza rappresentato dai nastri magnetici ed il trasferimento (o “scaricamento”) dei dati
sui supporti costituisce uno dei segmenti dell’intercettazione, autonomo rispetto alla
“registrazione” e tecnicamente diverso da questa. La medesima giurisprudenza ha, pertanto,
rilevato che, d’altra parte, il legislatore ha previsto specifici mezzi di tutela, per le ipotesi in cui
possano sorgere dubbi circa la regolarità della “registrazione” o sospetti di manipolazione,
atteso che, in forza dell’art. 268 cod. proc. pen., comma 6, “ai difensori delle parti è
immediatamente dato avviso che, entro il termine fissato a norma dei commi 4 e 5, hanno
facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi
di comunicazioni informatiche o telematiche” (Sez. U, n. 36359 del 26/06/2008, Rv. 240395
cit.): orbene, nel caso in esame non risulta in alcun modo, né è stato anche soltanto dedotto
nel ricorso, che sia stata disattesa una richiesta dei ricorrenti, avanzata nei predetti termini, di
ascoltare le registrazioni o prendere cognizione dei flussi, né risulta dedotto che, avendo
esercitato tale facoltà, sia stata constatata una specifica difformità tra i dati originari delle
intercettazioni e quelli riversati sul supporto CD Rom, sicché deve ritenersi del tutto destituito
di fondamento l’assunto difensivo secondo cui le modalità di acquisizione delle copie
informatiche delle registrazioni sarebbero “palesemente in contrasto con il dettato normativo e
pertanto inficiate da nullità ex art. 178 comma 1 lett. c) cod. proc. pen.”
10.2. Con riferimento al medesimo motivo di impugnazione, inoltre, deve rilevarsi che
questo è anche viziato da genericità, laddove i ricorrenti assumono, in particolare con
riferimento alla vicenda Laquale, che la Corte territoriale – senza considerare le prospettazioni
difensive – avrebbe dato un significato delle conversazioni tra Ferdinando Cavallaro e Brunina
Chiera e tra Bruno Cavallaro ed il fratello Salvatore coerente con l’ipotesi accusatoria, pur
trattandosi di conversazioni equivoche o comunque suscettibili di diverse interpretazioni che,
però, non risultano in alcun modo specificate nel ricorso, da ritenersi, pertanto, sotto tale
profilo privo dei requisiti prescritti dall’art. 581, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. in quanto, a
fronte di una motivazione della sentenza impugnata ampia e logicamente corretta, non indica
gli elementi che sono alla base della censura formulata, non consentendo al giudice
dell’impugnazione di individuare i rilievi mossi ed esercitare il proprio sindacato.
34

memorie informatiche centralizzate, ed i dati così memorizzati vengono poi di regola trasferiti

10.3. Anche gli altri motivi proposti dai fratelli Cavallaro, così come dal Caglioti, non
possono trovare accoglimento, in quanto sono privi di fondamento, oltre che, in massima
parte, reiterativi di doglianze già avanzate al giudice dell’appello e da questo adeguatamente
affrontate con un percorso argomentativo ampio, denso di riferimenti a significativi episodi
specifici e soprattutto coerente, con esposizione specifica e consequenziale delle risultanze
processuali, fornendo di queste una lettura unitaria e logica con la quale i ricorsi in esame non
appaiono confrontarsi adeguatamente, in quanto reiterano la tendenza, già censurata dalla
Corte territoriale, a contestare il significato di singoli episodi o singole affermazioni della

vanno, invece, collocate.
In particolare, con i ricorsi si reiterano le doglianze in ordine ad elementi significativi di cui
difetterebbe il materiale probatorio acquisito – quali la mancanza di una audio-video
registrazione della riunione del 1’79/2009, il mancato riferimento alla locale ed ai suoi
componenti da parte di collaboratori di giustizia, la mancanza di uno specifico ambito
territoriale di operatività della locale, ecc. – senza confrontarsi con il rilievo, correttamente
mosso dalla Corte territoriale, secondo cui tali doglianze sono del tutto inefficaci nel momento
in cui non viene contrastato il complesso di elementi particolarmente significativi e convergenti
nel provare in modo inequivocabile l’esistenza della locale in questione: le conversazioni
intercettate nel periodo precedente la riunione del 1″/10/2009 con la quale si è costituita la
locale, preparatorie di tale costituzione, anche se fino al 1″/9/2009 – come evidenziato dalle
difese – non risultava essere giunta l’autorizzazione all’apertura di un nuovo locale di
‘ndrangheta da parte dei referenti calabresi; il servizio di OCP che, pur nel difetto di
videoregistrazioni, ha accompagnato tale riunione, precedentemente organizzata con
linguaggio criptico, logicamente ritenuto non necessario ove si fosse trattato di una riunione
conviviale; il rinvenimento a casa di Pasquale Maiolo dei fogli manoscritti con il rito di apertura
della locale; la sicura riferibilità a Ferdinando Cavallaro della scrittura di tali foglietti, emersa
inequivocabilmente dall’intercettazione di una conversazione tra lo stesso Cavallaro e la
Sorokanjiuc, prima ancora che dalla testimonianza di questa e dal raffronto con la scrittura di
una quietanza dallo stesso ricorrente sottoscritta; la conversazione dello stesso Cavallaro con
Brunina Chiera, nel corso della quale il primo manifestava le sue preoccupazioni in ordine a
possibili propalazioni di tale “Baffo”; l’esclusione dei Cavallaro dalla colletta per i detenuti
organizzata dai Marino argomentata sul rilievo che “Nando non c’entra più niente”; i commenti
di Mario Maiolo in ordine al suicidio di Giuseppe Catalano, successivo alla sua decisione di
collaborare con la giustizia, laddove il predetto Maiolo lamentava che sarebbe stato meglio se il
Catalano si fosse suicidato tre anni prima (pertanto, proprio l’anno dell’apertura della locale di
Livorno Ferraris); i commenti in ordine alla mancata partecipazione dei Cavallaro e del Caglioti
al funerale di Jolanda Giancotta, suocera di Renato Macrì, assenza interpretata come una
“trascuranza”, essendo stata notata la loro mancata partecipazione, il tutto con una
contrapposizione tra “loro” e “gli altri”; la visita dei sodali di Livorno Ferraris a Mario Francesco
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sentenza, prescindendo dal contesto complessivo nel quale le singole emergenze processuali

Inzillo; il mantenimento di Pasquale Maiolo da parte del Cavallaro e del Caglioti; la
conversazione tra Pietro Marino e Salvatore Cavallaro in ordine alla cd. vicenda Laquale, di cui
si è detto; le preoccupazioni di Ferdinando Cavallaro, emerse da conversazioni intercettate, in
ordine ad una possibile denuncia della moglie Maria Ciconte con accuse nei suoi confronti di
“mafiosità” e del possesso di un’arma, con il suo timore anche della possibile propalazione di
nomi dei sodali (“spero che non mi è andata a fare i nomi degli altri..”); l’attivismo di
Ferdinando e Salvatore Cavallaro, del Caglioti ed altri sodali di entrambe le locali di cui si tratta
in relazione alle elezioni di Chivasso, così come emerso da intercettazioni telefoniche e servizi

consistente di voti all’una o all’altra, come poi accaduto, prescindendo del tutto da convinzioni
o programmi ideali o politici, con l’offerta accettata dal candidato De Mori, che così vinceva le
elezioni, salvo poi, successivamente agli arresti eseguiti nell’operazione Minotauro, ricoverarsi
per un esaurimento nervoso prima in un ospedale psichiatrico e poi in una clinica, ed infine
presentare le dimissioni, sicché tali imprevisti sviluppi rendono priva di rilievo la deduzione dei
ricorrenti di non aver ricevuto dalla giunta appalti o vantaggi di alcun genere. Né può ritenersi
illogica la ricostruzione del significato delle risultanze intercettive in ordine alle vicende
politiche del Comune di Chivasso effettuata dalla Corte territoriale, sul rilievo che – a dire delle
difese – la ‘ndrangheta non si schiera per candidati certamente perdenti, atteso che le
intercettazioni effettuate risultano aver evidenziato, appunto, l’incidenza della cosca al fine
prima di giungere al ballottaggio e, poi, di favorire il miglior offerente, che la sentenza indica
come risultato poi non a caso il candidato poi effettivamente eletto, il De Mori, la cui scelta
risultava già registrata dalla P.G. all’esito di un servizio di OCP del 19/5/2011 in occasione di
una riunione nella sede di opposta lista politica, nel corso della quale Ferdinando Cavallaro
comunicava l’accordo raggiunto con il candidato. Il dettagliato e coerente percorso
argomentativo della sentenza, poi, ha anche dato conto delle comunicazioni tra Bruno
Cavallaro, Enzo Caglioti e Ferdinando Cavallaro in ordine alla notizia della vittoria, dell’euforia
in particolare del Caglioti con riferimento all’esito del ballottaggio, che lo stesso indicava come
determinato dai 400 voti “portati” dal candidato del sodalizio, Beniamino Gallone, che i fratelli
Cavallaro con espressioni colorite commentavano non avere adeguata personalità, ma che
comunque Pasquale Maiolo aveva indicato in una conversazione intercettata come candidato
del sodalizio (“..abbiamo candidato uno dei nostri … lì Beniamino..”), sicché si tratta di
elementi in alcun modo contrastabili con l’assunto difensivo secondo cui alcuno dei Cavallaro
possa aver parlato delle elezioni anche in pubblico ed in contesto di allegria.
10.4. Attengono, inoltre, esclusivamente al merito della decisione impugnata le censure
con le quali il ricorso dei fratelli Cavallaro contesta, peraltro in termini estremamente generici,
sia la valutazione delle dichiarazioni della teste Sorokanjiuc, già amante di Ferdinando
Cavallaro, che si assume effettuata senza un’adeguata verifica della sua attendibilità (censura
mossa anche dal ricorso del Caglioti), sia la valutazione delle dichiarazioni del teste Oliviero: va
rilevato, infatti, che la sentenza impugnata ha mostrato di attribuire particolare rilievo alla
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di OCP, al fine di giungere ad un ballottaggio tra due liste, così da poter offrire poi un numero

conversazione, oggetto di intercettazione, tra il Cavallaro e la Soerokanjiuc, già dinanzi
ricordata, prima ancora che ai suoi racconti, in relazione ai quali senza vizi logici ha evidenziato
che gli stessi in realtà riscontrano, per lo più, soltanto circostanze aliunde acquisite, sicché
proprio tali acquisizioni ne confermano l’attendibilità. Allo stesso modo, la sentenza impugnata
ha valutato di modesto rilievo, tale da solo colorare altre risultanze, le dichiarazioni del teste
Olivieri, indicato come caduto vittima di usura – non oggetto del presente procedimento – da
parte di Ferdinando e Salvatore Cavallaro e di altri, a causa del suo vizio del gioco:
conseguentemente, senza incorrere in vizi logici, la Corte territoriale ha ritenuto l’assunto

per sé inidoneo a contrastare la congerie di convergenti risultanze processuali a carico dei
ricorrenti.
10.5. Quanto, in particolare, alla posizione di Bruno Cavallaro, inoltre, deve ritenersi privo
di fondamento l’assunto del ricorso secondo cui non sarebbe stato indicato in sentenza quale
fosse il suo ruolo effettivo e concreto all’interno del locale Livorno Ferraris, atteso che, invece,
come in altra parte nello stesso ricorso si riconosce, la sentenza impugnata evidenzia che il
predetto si è reso utile al sodalizio proprio grazie alla sua residenza in Calabria, in virtù della
quale viene indicato aver svolto il ruolo di tramite tra la locale Livorno Ferraris ed i referenti
calabresi, in particolare Tassone Rocco Bruno e Giardino Giovanni, avendo osservato la Corte
territoriale che tale ruolo non può ritenersi smentito dall’assoluzione dal reato di cui all’art. 416
bis cod. pen. ricevuta dal Giardino in altro procedimento, fondato su diversi elementi e riferito
comunque ad anni precedenti quelli di cui si tratta: al contrario, tale funzione di raccordo è
stata indicata come emersa dalle reazioni seguite agli arresti effettuati nel procedimento
Minotauro, con l’attivarsi di Bruno Cavallaro sia nell’allertare i fratelli dopo tali arresti, sia con il
procurarsi copia dell’ordinanza cautelare di quel procedimento, che ha esaminato con i fratelli
per accertarsi che potevano continuare “il lavoro”. Altre conferme sono state ravvisate anche
nella vicenda Laquale, con il coinvolgimento del ricorrente in occasione di una visita al Giardino
proprio con tale funzione di raccordo, ed altresì nella sua partecipazione alle scelte relative alle
elezioni di Chivasso.
11. Anche il riconoscimento della penale responsabilità di Vincenzo Caglioti in relazione al
reato associativo ascrittogli risulta immune dai vizi logici e giuridici attribuitigli con il ricorso
presentato nell’interesse dello stesso.
Il ruolo di partecipe del Caglioti alla locale Livorno Ferraris, infatti, risulta fondato dalla
sentenza impugnata su una molteplicità di elementi, primo tra tutti la ripetuta contribuzione
dello stesso al mantenimento di Pasquale Maiolo, emersa da una pluralità di risultanze
interiettive e menzionate alle pagg. 124 e ss. della sentenza, laddove si evidenzia anche la
raccolta di denaro in vista della visita di Mario Maiolo al padre in carcere, tale da smentire le
interpretazioni alternative offerte dal ricorrente, tanto più che la Corte territoriale ha
interpretato il significato di tali contribuzioni alla luce delle dichiarazioni oggetto di
intercettazioni, non solo del Caglioti, ma anche di Salvatore Cavallaro, Ferdinando Cavallaro e
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dell’Olivieri di non aver percepito il carattere “mafioso” della condotta illegale del Cavallaro di

perfino di Brandusa Avram, già amante del Maiolo e poi di Ferdinando Cavallaro, tutte
convergenti nel riferire le contribuzioni proprio alla visita di Mario Maiolo al padre in carcere.
La partecipazione del Caglioti alla contribuzione di cui si tratta, peraltro, costituisce solo
uno dei numerosi e convergenti elementi a carico del ricorrente indicati dalla sentenza
impugnata. Questa, infatti, ha evidenziato anche l’intercettazione ambientale che ha consentito
di apprendere che, dopo gli arresti per l’operazione Minotauro, significativamente Mario Tonino
Maiolo, parlando con gli zii, include “Enzo Caglioti” tra le persone ancora libere dopo la
predetta operazione, in perfetta coerenza con le preoccupazioni espresse dalla moglie del

luce di tali elementi, la Corte territoriale ha ritenuto che i contatti del Caglioti con la moglie di
Pasquale Trunfio, il giorno stesso dell’arresto di questo, non indicassero una mera solidarietà
per tale arresto, nemmeno menzionato per telefono, quanto, piuttosto, con
l’accompagnamento della stessa dal commercialista dell’arrestato, una cointeressenza negli
affari del Trunfio e, quindi, una conferma dell’intraneità del Caglioti all’associazione criminosa.
La sentenza impugnata, peraltro, pur dando atto dei presenti alla riunione costitutiva della
locale del 1/10/2009, senza indicare il Caglioti, lo ha indicato, invece, come presente ai
successivi incontri con altri sodali presso il bar di Chivasso il 26/2/2011 e presso la cascina
Santhià il 21/2/2011, entrambi oggetto di servizi di osservazione, ed ha evidenziato come, pur
nel difetto di videoregistrazioni di tali riunioni, le modalità degli inviti e le staffette delle auto
organizzate per portare gli invitati sul posto abbiano portato ad escludere il carattere
meramente conviviale delle stesse. La sentenza della Corte di Appello ha anche indicato una
pluralità di diversi elementi che hanno indotto a riconoscere nel Caglioti non già il ruolo di
esattore del sodalizio, come impropriamente si assume nel ricorso (atteso che, invece, la Corte
territoriale ha riconosciuto che l’Enzo che avrebbe proceduto all’esazione del credito usurario
nei confronti dell’Olivieri è da individuarsi nel cugino dei Cavallaro, tale Enzo Bartone), bensì
quello di una persona costantemente ed incondizionatamente a disposizione del sodalizio, tanto
da ricevere le confidenze dei fratelli Cavallaro ed intervenire con il suo contributo in ogni
occasione utile, come emerso nella vicenda Laquale, allorché il 3/5/2011 riceveva a casa
propria i sodali proprio per affrontare l’argomento, ed anche nella vicenda relativa alla sala
giochi Royal Venice, allorché riceveva notizia da Ilario Cavallaro, figlio di Ferdinando, dei danni
cagionatigli da un concorrente, inviandogli un fabbro ed offrendogli anche sostegno ed aiuto
qualora avesse voluto comunque aprire la sala giochi quella sera nonostante l’accaduto, il tutto
manifestando anche ad altri preoccupazioni per la possibile reazione di Ferdinando Cavallaro.
Di particolare rilievo, poi, nella ricostruzione della Corte territoriale, è stata anche l’attiva
partecipazione del Caglioti alle iniziative del sodalizio nell’ambito delle elezioni amministrative
del 2011 a Chivasso, come emerse da intercettazioni telefoniche, oltre alla visita ad un
detenuto in permesso premio ritenuto di elevato spessore criminale, tale Mario Francesco
Inzillo, già arrestato per aver fatto parte di una cosca insediatasi nel territorio eporediese e
condannato con pena definitiva fissata al 2017 per tentato omicidio, associazione finalizzata al
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ricorrente per gli arresti di persone vicine al marito. Senza vizi logici, pertanto, soprattutto alla

traffico di stupefacenti, rapina, estorsione, violazione della legge sulle armi, visita effettuata
insieme con Salvatore Cavallaro il 6/2/2011: a tal proposito le due pronunce di merito con
argomentazioni prive di vizi logici hanno ben evidenziato come non possa ritenersi
determinante l’asserita presenza della scorta del detenuto, giacché l’incontro dei due visitatori,
quello stesso giorno, presso un bar di Chivasso anche con il capo locale Pasquale Maiolo e con
Ferdinando Cavallaro conferma il significato di vicinanza e solidarietà al detenuto che il gruppo
di Livorno Ferraris intendeva mostrare al detenuto con la predetta visita.
12. Il motivo di ricorso con il quale Pietro Marino deduce la violazione di legge ed il vizio di

concreta pericolosità sociale del ricorrente, ai fini dell’applicazione della misura di sicurezza, è
del tutto destituito di fondamento, anche alla luce del tenore letterale dell’art. 417 cod. pen.,
che ha indotto la giurisprudenza di questa Corte di Cassazione a riconoscere che nel caso di
condanna per reati di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, l’applicazione della
misura di sicurezza prevista dalla predetta norma non richiede l’accertamento in concreto della
pericolosità del soggetto, dovendosi ritenere operante al riguardo una presunzione semplice,
desunta dalle caratteristiche del sodalizio criminoso e dalla persistenza nel tempo del vincolo
malavitoso, che può essere superata solo quando siano acquisiti elementi idonei ad escludere
in concreto la sussistenza della pericolosità (Sez. 5, n. 38108 del 08/07/2015, Rv. 265006;
Sez. 6, Sentenza n. 44667 del 12/05/2016, Rv. 268678), evenienza che non ricorre nel caso di
specie.
13. Le doglianze dei ricorrenti Giuseppe ed Antonino D’Amico con riferimento alla
conferma delle statuizioni di primo grado in ordine alla confisca ex art. 12 sexies del D.L. n.
306/1992 attengono al merito della decisione impugnata e fuoriescono, pertanto, dai parametri
dell’impugnazione di legittimità stabiliti dall’art. 606 cod. proc. pen., atteso che, quanto al
primo, i giudici di merito hanno evidenziato trattarsi di persona a carico dei genitori, con i quali
convive, e che non percepisce redditi, sicché senza incorrere in vizi logici si è ritenuto che il
saldo del conto deposito a suo nome non sia compatibile con le dedotte modeste regalie
saltuarie che si assume avrebbe ricevuto e che, comunque, ove anche esistenti, sarebbero
state presumibilmente utilizzate per spese personali.
Analogamente, quanto alla confisca disposta nei confronti di Antonino D’Amico, nello
stesso ricorso viene dato atto che sono stati effettuati accertamenti sui redditi e sulle capacità
economiche del ricorrente e della moglie per il lungo arco temporale che va dall’anno 2000 al
2011, mentre nessun elemento è stato addotto a sostegno della tesi del ricorrente secondo cui
il patrimonio del suo nucleo familiare sarebbe stato accumulato in anni precedenti: lo stesso
ricorrente deduce, inoltre, peraltro in termini di assoluta genericità, che le unità immobiliari
confiscate sarebbero state acquistate agli inizi degli anni 2000, e pertanto in un periodo non
ben specificato ma comunque oggetto di verifica, né è stato documentato il “secondo lavoro”,
anch’esso non meglio specificato, al quale lo stesso si sarebbe, a suo dire, sempre dedicato,

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motivazione della sentenza impugnata per non avere questa effettuato una verifica della

sicché nessun vizio logico o giuridico può riconoscersi in relazione alle disposizioni così
contestate.
Quanto alla confisca dei beni disposta nei confronti di Antonino Marino, l’annullamento con
rinvio della sentenza preclude a questa Corte di valutare le censure dell’interessato in ordine
alla confisca disposta con la sentenza annullata, che all’esito del giudizio di rinvio sarà oggetto
di valutazione del giudice di merito alla luce della pronuncia.
14. La mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche a Ferdinando Cavallaro
e ad Antonino D’Amico, così come a Pietro Marino, è giustificata dal ruolo dagli stessi svolto

distribuzione del denaro per la colletta, oltre che dall’autorevole e negativa personalità
mostrata nei confronti degli altri associati e degli estranei all’associazione e, quanto al
Cavallaro, anche dal possesso di armi da fuoco e dalla disponibilità a farne uso per incutere
timore, e quanto al D’Amico anche dalla denuncia a piede libero per il possesso di armi
nell’operazione cd. Minotauro: si tratta di argomentazioni esenti da manifesta illogicità, che,
pertanto, sono insindacabili in cassazione (Cass., Sez. 6, n. 42688 del 24/9/2008, Rv.
242419), anche considerato il principio affermato da questa Corte secondo cui non è
necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti
generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti
o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o
comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 2, n.
3609 del 18/1/2011, Rv. 249163; Sez. 6, n. 34364 del 16/6/2010, Rv. 248244).
Analogamente, per quanto concerne le posizioni di Giuseppe D’Amico, Bruno Cavallaro e
Vincenzo Caglioti, ai quali, invece, tali attenuanti sono state riconosciute, ma che si dolgono
del giudizio di mera equivalenza con le contestate aggravanti, deve rilevarsi che le statuizioni
relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti sono censurabili in
sede di legittimità soltanto nell’ipotesi in cui siano frutto di mero arbitrio o di un ragionamento
illogico, e non anche qualora risulti sufficientemente motivata la soluzione dell’equivalenza
allorchè il giudice, nell’esercizio del potere discrezionale previsto dall’art. 69 cod. pen., l’abbia
ritenuta la più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena in concreto irrogata (Sez. 2, n.
46343 del 26/10/2016, Rv. 268473; Sez. 5, n. 5579 del 26/09/2013, Rv. 258874; Sez. 6, n.
6866 del 25/11/2009, Rv. 246134), come verificatosi nel caso di specie, atteso che il giudice di
merito senza incorrere in vizi logici ha ritenuto che le ragioni poste a fondamento delle
attenuanti generiche, da ravvisarsi nel corretto comportamento processuale e dall’esistenza di
un’attività lavorativa, non fossero così pregnanti da poter prevalere sul carattere armato
dell’associazione.
15. In conseguenza di quanto esposto, pertanto, la sentenza impugnata va annullata nei
confronti di Benedetto Massimo, Benedetto Walter, Dominello Michele, Dominello Salvatore,
Marino Nicola e Marino Antonino, con rinvio ad altra sezione della Corte territoriale per nuovo
giudizio che si uniformi al principio di diritto secondo cui la condotta di colui che partecipi ad un
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nella vicenda, avendo il D’Amico – al pari del Marino – provveduto personalmente alla

fondo di solidarietà a favore di detenuti inseriti nell’associazione mafiosa integra un indicatore
fattuale della partecipazione all’associazione particolarmente pregnante ma che, comunque,
non si sottrae alla regola secondo cui nella dimostrazione della costante permanenza del
vincolo associativo non sono consentiti automatismi probatori, sicché anche la partecipazione
alla colletta non può essere ritenuta, di per sé ed anche a prescindere dall’ammontare delle
contribuzioni, una prova assorbente e decisiva dell’intraneità di conferenti e beneficiari al
sodalizio. A tal fine, invece, occorre che vengano anche valutate le modalità di partecipazione
alla raccolta, se cioè si tratti di una contribuzione isolata o reiterata nel tempo, se si tratti di un

legami familiari o di altra natura tra i singoli contribuenti e beneficiari, ed eventualmente anche
se ricorrano altri elementi fattuali che, per la loro natura o per le loro modalità, possano
concorrere a provare l’appartenenza organica, stabile e durevole nel tempo all’associazione
criminosa.
I ricorsi proposti nell’interesse di Caglioti Giuseppe Vincenzo, Cavallaro Bruno, Cavallaro
Ferdinando, D’Amico Antonino, D’Amico Giuseppe e Marino Pietro, invece, vanno rigettati, con
conseguente condanna dei predetti, per il disposto dell’art. 606 cod. proc. pen., al pagamento
delle spese processuali.

P.Q. M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Benedetto Massimo, Benedetto Walter,
Dominello Michele, Dominello Salvatore, Marino Nicola e Marino Antonino con rinvio ad altra
sezione della Corte di Appello di Torino per nuovo giudizio.
Rigetta i ricorsi proposti da Caglioti Giuseppe Vincenzo, Cavallaro Bruno, Cavallaro
Ferdinando, D’Amico Antonino, D’Amico Giuseppe e Marino Pietro, che condanna al pagamento
delle spese processuali.

Così deciso il 15 giugno 2017

Il Consigliere estensore
Dott. IciarjJmQeriali

organizzatore della raccolta o di un mero contributore, o ancora di un beneficiario, se vi siano

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