Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5343 del 20/09/2013


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 5343 Anno 2014
Presidente: VECCHIO MASSIMO
Relatore: MAZZEI ANTONELLA PATRIZIA

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:
DOBI EGERT N. IL 24/01/1983
avverso l’ordinanza n. 111/2012 TRIBUNALE di RAVENNA, del
26/07/2012
dato avviso alle parti;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ANTONELLA
PATRIZIA MAZZEI;

Data Udienza: 20/09/2013

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza deliberata il 26 luglio 2012 il Tribunale di Ravenna,
giudice dell’esecuzione, ha respinto la domanda proposta da Dobi Egert,
diretta ad ottenere il riconoscimento del vincolo della continuazione tra tre
reati di illecita detenzione di sostanze stupefacenti commessi, tutti, in
Ravenna, nelle seguenti date: 31 agosto 2002, 26 settembre 2007 e 17
gennaio 2012.

l’omogeneità delle violazioni, ha escluso che i reati, commessi a più anni di
distanza l’uno dall’altro, potessero essere ricondotti ad un disegno criminoso
unitario in cui tutti fossero ricompresi, almeno nelle linee essenziali, fin dal
momento della commissione del primo reato.

2. Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il
Dobi, tramite il difensore, il quale deduce l’erronea applicazione degli artt.
81, comma secondo, cod. pen. e 671 cod. proc. pen., come modificato
dall’art. 4 vides d.l. 30/12/2005, n. 272, convertito con modificazioni nella
legge 21/02/2006, n. 49; e il vizio della motivazione per illogicità e
contraddittorietà.

CONSIDERATO in DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.
1.1. Il primo motivo è manifestamente infondato perché, secondo la
costante giurisprudenza di questa Corte, lo stato di tossicodipendenza non è
di per se solo sufficiente a dimostrare l’unitarietà del disegno criminoso,
ancorché tutti i reati cui attiene la domanda di applicazione della
continuazione, in sede esecutiva, costituiscano violazioni della legge in
materia di sostanze stupefacenti.
E, invero, in tema di reato continuato, a seguito della modifica dell’art.
671, comma 1, cod. proc. pen. ad opera della legge n. 49 del 2006, nel
deliberare in ordine al riconoscimento della continuazione, il giudice deve
verificare che i reati siano frutto della medesima, preventiva risoluzione
criminosa, tenendo conto se l’imputato, in concomitanza della relativa
commissione, era tossicodipendente, e se il suddetto stato abbia influito
sulla commissione delle condotte criminose alla luce di ulteriori specifici
indicatori, così individuati dalla giurisprudenza: a) distanza cronologica tra i
fatti criminosi; b) modalità della condotta; c) sistematicità ed abitudini

Il Tribunale, pur considerando lo stato di tossicodipendenza del Dobi e

programmate di vita; d) tipologia dei reati; e) bene protetto; f) omogeneità
delle violazioni; g) causali; h) stato di tempo e di luogo (c.f.r., tra le molte,
Sez. 2, n. 49844 del 03/10/2012, dep. 21/12/2012, Gallo, Rv. 253846).
1.2. Ebbene, tale analisi non è stata omessa né illogicamente svolta dal
decidente, come da ulteriore censura della motivazione anch’essa
manifestamente infondata.
L’ordinanza impugnata, infatti, con argomentazioni puntuali e coerenti

e diritto, ha osservato che la notevole distanza temporale tra i reati oggetto
delle sentenze di condanna dedotte, pari a circa cinque anni tra il primo e il
secondo fatto e, ancora, a cinque anni tra il secondo e il terzo, era
contrastante con la possibilità di ricomprenderli in uno stesso disegno
criminoso; né emergevano dalle sentenze dedotte, secondo il giudice
dell’esecuzione, elementi idonei a ricondurre le plurime violazioni ad
un’unica preventiva risoluzione criminosa, mentre esse si configuravano,
piuttosto, come espressione di proclività a delinquere e di un generico stile
di vita deviante, con distinte deliberazioni criminose e contingenti impulsi a
delinquere.

2. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue, ai sensi
dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad
escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte
Cost., sent. n. 186 del 2000), anche la condanna al versamento a favore
della cassa delle ammende di una sanzione pecuniaria che pare congruo
determinare, tra il minimo ed il massimo previsti, in euro mille.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della cassa
delle ammende.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, il 20 settembre 2013.

colla giurisprudenza sopra richiamata, senza incorrere in violazioni di logica

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