Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 53331 del 19/09/2017


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 53331 Anno 2017
Presidente: CARCANO DOMENICO
Relatore: BASSI ALESSANDRA

SENTENZA
sui ricorsi proposti da
Quaini Stefano, nato il 18/10/1971 a Savona
Piredda Maruska, nata il 08/04/1976 a Udine

avverso la sentenza del 25/10/2016 della Corte d’appello di Genova

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessandra Bassi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Maria
Francesca Loy, che ha concluso chiedendo che i ricorsi siano rigettati;
udito il difensore Avv. Rita Menna in sostituzione dell’Avv. Scicchitano per la
parte civile “Italia dei valori”, costituita esclusivamente nei confronti di Maruska
Pirredda, che ha concluso come da conclusioni scritte e nota spese;
uditi i difensori, avv. Paolo Leoni in sostituzione dell’Avv. Carmela Musolino per
Maruska Piredda e avv. Paolo Gianatti per Stefano Quaini, i quali hanno concluso
chiedendo l’accoglimento dei ricorsi.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 5 aprile 2015, il Giudice dell’udienza preliminare del
Tribunale di Genova ha condannato Maruska Piredda e Stefano Quaini per i reati

Data Udienza: 19/09/2017

di peculato loro rispettivamente ascritti (Piredda di cui ai capi 7 e 8,
nell’ammontare precisato nel dispositivo; Quaini di cui ai capi 17 e 18,
nell’ammontare precisato nel dispositivo), mentre li ha assolti dalle restanti
imputazioni di falso e truffa aggravata.

2. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte d’appello di Genova, in parziale
riforma dell’appellata sentenza, ha assolto Maruska Piredda dalla condotta
appropriativa avente ad oggetto la somma eccedente quella rendicontata di

la pena inflitta alla appellante ad anni due e mesi sei di reclusione, determinando
nella stessa misura la durata della pena accessoria; ha assolto Stefano Quaini
dalla condotta appropriativa avente ad oggetto la somma eccedente quella
rendicontata di 8547,10 euro di cui alla prima parte del capo 18) ed ha
conseguentemente ridotto la pena inflitta nei confronti del medesimo ad anni due
e mesi due di reclusione, determinando nella stessa misura la durata della pena
accessoria; ha revocato le statuizioni civili a favore di “Italia dei valori” a carico
del Quaini; ha confermato nel resto la sentenza, condannando gli imputati alla
rifusione delle spese sostenute dalle parti civili, nei termini di cui al dispositivo.
2.1. La Corte d’appello ha preliminarmente dato conto dell’ordito
argomentativo della sentenza di primo grado e, nel sunteggiarne la motivazione,
ha rilevato che il procedimento in oggetto prendeva origine dalle operazioni di
intercettazione telefonica nei confronti del tesoriere del gruppo consiliare “Italia
dei valori” della Regione Liguria Giorgio De Lucchi (indagato in altro
procedimento unitamente a Marylin Fusco e Giovanni Paladini in relazione ad
alcune fatture per operazioni inesistenti). Da tali intercettazioni emergeva che gli
odierni ricorrenti Maruska Pirredda e Stefano Quaini – all’epoca entrambi
consiglieri regionali componenti del gruppo “Di Pietro – Italia dei valori” (dal 7
maggio 2010 al 16 gennaio 2014) nonché la Piredda di capogruppo della citata
compagine consiliare (dal 23 novembre 2012 al 16 gennaio 2014) – avevano
fatto un indebito utilizzo dei contributi ricevuti per il funzionamento, le iniziative
politiche e le attività collegate ai lavori del gruppo consiliare di appartenenza,
previsti dalla legge regionale n. 38 del 1990. In particolare, alcune telefonate
della fine di settembre del 2012 delineavano la forte preoccupazione della
Piredda verso l’iniziativa della giornalista Alessandra Costante del quotidiano
“Secolo XIX”, la quale si apprestava ad esaminare la documentazione della
Regione Liguria relativa alle spese sostenute dai diversi gruppi consiliari. Il 5
dicembre 2012, la Polizia Giudiziaria acquisiva presso gli uffici regionali i
documenti relativi alla rendicontazione dei contributi erogati dal 7 maggio 2010

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9.050,00 euro di cui all’ultima parte del capo 8) ed ha conseguentemente ridotto

al 31 dicembre 2011 ed, il 22 gennaio 2013, eseguiva diverse perquisizioni,
anche nelle abitazioni e negli uffici degli imputati.
2.2. Il Collegio del gravame ha quindi rilevato che, nella sentenza appellata,
si era evidenziato: a) che gli scontrini fiscali consegnati dai consiglieri al
tesoriere De Lucchi erano indecifrabili o comunque non riportavano l’indicazione
dei beni acquistati sicché la polizia giudiziaria aveva dovuto recarsi presso i vari
esercenti emittenti per accertare se quanto acquistato fosse o meno attinente
con l’esercizio delle funzioni istituzionali; b) che la polizia giudiziaria non aveva

ricevute erano prive di data e firma, che da esse non emergeva il nominativo del
consigliere al quale attribuirle, che taluni scontrini erano stati riportati due volte
in contabilità e che alcune spese si riferivano a categorie inconferenti con
l’attività consiliare; c) che la consapevolezza della Piredda in ordine al fatto che,
secondo la legge regionale, i contributi non potevano essere riferiti a spese già
oggetto del trattamento economico corrisposto al singolo consigliere, era provata
dalle univoche risultanze della conversazione ambientale del 9 dicembre 2012
con l’assessore Cascino; d) che la e-mail inviata il 14 novembre 2012 dalla
Piredda e Quaini al Paladini (nella quale essi asserivano che avevano potuto
prendere visione del bilancio del gruppo soltanto il 23 ottobre e che v’erano
spese poco chiare dall’inizio della legislatura) appariva “un segmento della
strategia difensiva predisposta a futura memoria, diretta ad addossare ogni
responsabilità al capogruppo Scialfa Nicolò e al tesoriere De Lucchi Giorgio”; e)
che la mole degli scontrini e l’importo assai elevato delle spese documentate non
consentivano di attribuire ad un mero errore la relativa produzione quale
riscontro contabile delle spese compiute nell’interesse del gruppo consiliare,
unico soggetto ad avere diritto ai contributi.
2.3. Dopo avere dato atto dei motivi d’impugnazione proposti da Maruska
Piredda e da Stefano Quaini, la Corte d’appello ha rimarcato come, con il
subentro del De Lucchi all’integerrimo Dott. Dettoni nella posizione di tesoriere
del gruppo consiliare “Italia dei valori”, si fosse creato il terreno fertile per
condotte di approfittamento da parte dei consiglieri in relazione ai contributi da
loro ricevuti. Il Collegio ha aggiunto che, negli anni dal 2010 al 2012, non si era
tenuta la riunione del gruppo “Italia dei valori” destinata all’approvazione dei
rendiconti e che i verbali degli anni 2010 e 2011 trasmessi dal De Lucchi alla
Regione contenevano firme false dei consiglieri; che gli scontrini allegati erano
nella stragrande maggioranza indecifrabili o non contenevano alcun riferimento
al bene o al servizio per il quale erano stati emessi, tanto che avevano richiesto
delle verifiche da parte della Guardia di Finanza.

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rinvenuto giornali di cassa individuali o di gruppo, aveva accertato che alcune

Il Giudice d’appello ha dunque rilevato come la tesi dell’errore coltivata in
principalità dalla difesa della Piredda appaia priva di fondamento, atteso che la
difficoltà di ricostruzione riguarda, non isolati scontrini, ma la maggioranza di
essi, per un ammontare di oltre 9.000,00 euro; come la malafede dell’imputata
risulti confermata dalle emergenze delle intercettazioni telefoniche del settembre
2012 nonché dall’espediente costituito dallo scambio di messaggi di posta
elettronica avvenuto dopo l’acquisizione documentale da parte della Guardia di
Finanza il 5 dicembre 2012, avente il chiaro scopo di precostituirsi prove

Con specifico riguardo alla posizione del Quaini, dopo avere notato che
alcune spese indicate dalla difesa non sono oggetto di contestazione, la Corte
distrettuale ha evidenziato che, per taluni degli acquisti documentati, non sono
stati rinvenuti nella disponibilità dell’indagato i relativi beni; che gli scontrini
relativi ad altri beni sono generici (in particolare quelli per accessori di telefonia
ed informatica, una lavagna) e che l’acquisto di libri scientifici non ha trovato
riscontro nella disponibilità dell’indagato, sicché deve condividersi la conclusione
del primo giudice secondo il quale si trattava di beni per uso personale.
Quanto poi alle consumazioni presso bar e ristoranti, il Collegio di merito ha
rimarcato che gli imputati non hanno indicato l’identità degli ospiti con i quali
avrebbero avuto gli incontri asseritamente destinati all’attività politica, ponendo
in evidenza che Quaini aveva prodotto ai fini della rendicontazione uno scontrino
relativo ad un pranzo con uno sconosciuto commensale il giorno del suo
compleanno. Ancora, la Corte ha valorizzato l’acquisto con i contributi regionali
di una pena Montblanc del valore di 545,00 euro per il consigliere Marylin Fusco.
In relazione alla tesi difensiva svolta dalla Piredda secondo la quale ella
avrebbe sostenuto consistenti spese per affittare un appartamento in prossimità
del palazzo della Regione, il Collegio ha osservato come il canone di locazione
per l’alloggio non possa essere coperto con i contributi percepiti dai singoli
consiglieri ai sensi della legge regionale n. 38/1990 – in quanto aventi tutt’altra
finalità -, rientrando piuttosto nel rimborso mensile forfettario pari a migliaia di
euro. Quanto alla deduzione concernente le spese di viaggio oggetto di
contestazione, la Corte ha rilevato che, se si fosse trattato di missioni
concernenti l’attività politica, l’imputata avrebbe potuto produrre la
documentazione utile a giustificare una richiesta di autorizzazione.
2.4. Sulla scorta di tale ricostruzione in fatto, il Collegio di merito ha
confermato l’inquadramento giuridico della fattispecie nel delitto di peculato.
Dopo avere escluso l’applicabilità dei principi di diritto affermati da questa Corte
nelle sentenze Tretter e Fiorito – perché concernenti fattispecie diverse da quella
sub iudice

il Giudice a quo ha stimato correttamente ravvisata la veste di
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favorevoli.

pubblico ufficiale in capo ai consiglieri regionali percettori dei contributi in quanto
investiti della pubblica funzione legislativa; ha rimarcato che la percezione dei
contributi previsti dalla legge regionale n. 38/1990 trova fondamento e ragione
proprio in relazione a tale funzione pubblica, essendo i fondi volti ad assicurare al
singolo consigliere, in quanto appartenente necessariamente ad un gruppo
consiliare (eventualmente a quello c.d. misto), l’esplicazione del mandato in
collegamento con l’elettorato.
Infine, la Corte ha escluso la ravvisabilità nella specie del reato di tentata

commette peculato il pubblico ufficiale che abbia fatto proprio il bene altrui del
quale abbia già il possesso per ragioni del suo ufficio ricorrendo all’artificio o al
raggiro, non per conseguire il possesso, ma esclusivamente per occultare
l’avvenuta commissione dell’illecito.

3. Avverso la sentenza ha presentato ricorso Maruska Piredda , a mezzo dei
difensori di fiducia Avv. Carmela Musolino e Avv. Fernando Gallone, e ne ha
chiesto per i seguenti motivi.
3.1. Violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione agli artt.
314 e 40 cod. pen., per avere la Corte d’appello ritenuto erroneamente provata
la partecipazione dell’imputata al reato. Ad avviso della ricorrente, il reato si
perfezionava nel momento in cui venivano approvati i rendiconti finali destinati al
consiglio regionale per attestare, in modo definitivo l’impiego del denaro pubblico
ricevuto, rendiconti – nella fattispecie – predisposti con apposizione di firme false
dal solo tesoriere De Lucchi, dunque senza un diretto coinvolgimento della
medesima.
3.2. Violazione di legge penale in relazione all’art. 42 cod. pen., per avere la
Corte omesso di dare rilevanza all’esistenza di un accordo fra l’imputata ed il
tesoriere teso a rimettere a quest’ultimo la valutazione circa la compatibilità
della spesa documentata con le finalità del contributo regionale percepito.
3.3. Violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione agli artt.
314 cod. pen., 2 L.R. n. 38/1990, 4, comma 1, L.R. n. 3/1987 e L. n.
1261/1965, per avere la Corte ritenuto integrato il reato di peculato sebbene
l’imputata abbia documentato di avere impiegato il contributo ricevuto in
relazione a “spese comunque connesse” alla sua attività di consigliere regionale
e segnatamente per la locazione di un monolocale posto dinanzi alla sede del
Consiglio regionale, utilizzato esclusivamente ai fini dello svolgimento dell’attività
istituzionale, non potendosi ritenere la locazione estranea a tale ambito per il
mero fatto che ella percepisse il rimborso spese e la diaria.

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truffa aggravata atteso che, secondo l’insegnamento espresso da questa Corte,

3.4. Violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione agli artt.
314 cod. pen. e L.R. n. 38/1990, per avere la Corte erroneamente stimato
integrato il reato di peculato in relazione alle spese di viaggio in considerazione
del fatto che l’imputata non avesse chiesto l’autorizzazione alla missione,
trattandosi comunque di spese relative a spostamenti inerenti all’attività di
consigliera regionale.
3.5. Vizio di motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio, per avere la
Corte trascurato di considerare il comportamento estremamente diligente e

4. Ricorre avverso la decisione anche Stefano Quaini, a mezzo del difensore
di fiducia Avv. Paolo Gianatti, e ne chiede l’annullamento per i seguenti motivi.
4.1. Violazione di legge penale in relazione agli artt. 314 cod. pen. e 2 e 4
della legge regionale Liguria n. 38/1990. Il ricorrente evidenzia che l’elencazione
contenuta nell’art. 4, comma 3, di tale legge non è perentoria, essendo i
contributi sistematicamente collegati al funzionamento, alle iniziative politiche ed
ai lavori nel consiglio dei vari gruppi consiliari; che i gruppi consiliari sono stati
definiti dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 39 del 2014, come organi del
consiglio e proiezione dei partiti politici in assemblea regionale ovvero come uffici
comunque necessari e strumentali alla formazione degli organi interni del
consiglio sicchè deve ritenersi funzionale all’espletamento dei compiti dei gruppi
qualunque attività esterna rispetto al consiglio, che funga da collegamento fra il
consiglio stesso e della società.
4.2. Violazione di legge penale in relazione alle leggi regionali Liguria nn.
38/1990 e 3/1987 (capo 17). Il ricorrente pone in risalto che, contrariamente a
quanto ritenuto dalla Corte d’appello, non ogni spesa sostenuta per i trasporti
con i fondi del gruppo consiliare deve ritenersi illegittima in quanto già coperta
dalla diaria prevista dalla citata L.R. n. 3/1987, dovendosi valutare se la spesa di
trasporto sia o meno finalizzata alla rappresentatività politica del gruppo
consiliare o del consigliere regionale. Verifica sulla finalità degli spostamenti che,
nella specie, la Corte d’appello ha invece omesso di compiere.
4.3. Violazione di legge penale in relazione alle leggi regionali Liguria nn.
38/1990 e 3/1987 (capo 18), per avere la Corte ritenuto illegittime le spese per i
trasferimenti nel territorio di Genova, nelle province di Savona e di Milano, senza
verificare se fossero state o meno finalizzate allo svolgimento di funzioni
politiche.
4.4. Vizio di motivazione in ordine alla ritenuta integrazione del reato di
peculato sebbene, come dichiarato dal precedente tesoriere Dettoni e dal
segretario dell’ufficio di presidenza della Regione Liguria Giorgio Traverso, la
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collaborativo serbato dall’imputata.

commissione di verifica avesse e tuttora abbia un vero e proprio potere di
controllo sul rendiconto delle spese, potendo depennare eventuali pezze
giustificative ed infliggere sanzioni sul piano amministrativo in caso di erronea o
infedele rendicontazione delle spese: la Corte d’appello non avrebbe pertanto
considerato i limiti all’agire del giudice penale rispetto ai fatti per i quali è già
prevista la sanzione amministrativa.
4.5. Vizio di motivazione per mancato rispetto del canone di giudizio dell'”al
di là di ogni ragionevole dubbio” previsto dall’art. 533, comma 1, cod. proc. pen.,

riferissero ad attività non suscettibili di essere coperte con il contributo
regionale.
4.6. Vizio di motivazione per mancato rispetto del canone di giudizio dell'”al
di là di ogni ragionevole dubbio” prevista dall’art. 533, comma 1, cod. proc. pen.,
in considerazione del fatto che manca la prova certa che il pranzo in occasione
del compleanno del Quaini non si riferisse ad un evento concernente il suo
mandato.
4.7. Vizio di motivazione in ordine all’entità del contributo erogato
all’imputato, dal momento che la Corte d’appello, per un verso, stimava
inaffidabile il rendiconto compiuto dal De Lucchi nell’anno 2012; per altro verso,
trascurava le spese sostenute dall’imputato per il pagamento dello stipendio al
collaboratore Pirritano.
4.8. Vizio di motivazione in ordine ai rendiconti del 2010 e 2011, trattandosi
di documenti da ritenere – come dato atto dallo stesso giudice di merito – del
tutto illegittimi in quanto sottoscritti con firme false dei consiglieri, tra cui quella
dello stesso ricorrente.
4.9. Violazione di legge penale in relazione agli artt. 314 cod. pen. e 2 e 4
legge regionale Liguria n. 38/1990, per avere la Corte erroneamente escluso la
ravvisabilità nella specie del reato di truffa in luogo di quello di peculato. A tale
proposito si evidenzia che, in data 28 novembre 2012, Quaini cambiava il gruppo
consiliare di appartenenza e non fruiva più dei fondi destinati al medesimo
gruppo sicchè in quel momento cessava la possibilità per il medesimo di
impossessarsi delle somme nonché di occultare l’illiceità della appropriazione.

5. Nei motivi nuovi depositati in cancelleria, il patrono di Stefano Quaini ha
svolto ulteriori argomenti a sostegno del quinto e del sesto motivo del ricorso. In
particolare, ha evidenziato che, contrariamente a quanto ritenuto dai Giudici di
merito, il ricorrente partecipava, il giorno del suo compleanno, quale
moderatore, ad un convegno legato all’attività politica, sicchè la spesa per il
pasto era stata legittimamente rendicontata; che, ai fini dei contributi previsti
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là dove – nella specie – manca la prova certa che le spese rendicontate si

dalla legge n. 38/1990, non è richiesta l’indicazione dei commensali; che le
spese rendicontate relative a taluni beni si correlano all’attività politica,
trattandosi di beni impiegati per le attività del gruppo (la lavagna) ovvero
destinati ad essere regalati ai figli di persone che avevano partecipato ad un
convegno (i modellini, un libro ed un gioco); che gli oggetti di telefonia non sono
stati rivenuti nella disponibilità del Quaini all’atto della perquisizione, in quanto
all’epoca egli era ormai scaduto dal mandato consiliare da oltre quattro mesi;
che i libri acquistati erano testi scientifici evidentemente non “riconosciuti” dagli

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono infondati in relazione a tutte le deduzioni mosse e devono
pertanto essere rigettati.

2. Occorre rilevare come tutte le doglianze mosse dai ricorrenti in merito
alla ricostruzione in fatto dei fatti oggetto di contestazione non sfuggono ad una
preliminare ed assorbente censura di inammissibilità.
2.1. Per un verso, i ricorrenti non si confrontano con il compendio
motivazionale svolto dai Giudici della cognizione nelle sentenze di primo e di
secondo grado (sopra sintetizzata nei paragrafi 1 e 2 nel ritenuto in fatto) e,
dunque, omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata
avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone
e altri, Rv. 243838). D’altronde, deve essere ribadito il principio più volte
espresso da questa Corte di legittimità, secondo cui, ai fini del controllo di
legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di
appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo
corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure
proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed
operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza,
concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a
fondamento della decisione (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv.
257595). Siffatta integrazione tra le due motivazioni si verifica non solo allorché
i giudici di secondo grado abbiano esaminato le censure proposte dall’appellante
con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti
alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico – giuridici della decisione, ma
anche, e a maggior ragione, quando i motivi di appello non abbiano riguardato
elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed

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operanti fra gli altri volumi presenti nella biblioteca dell’imputato, che è medico.

ampiamente chiarite nella decisione di primo grado (da ultimo, Sez. 3, n. 13926
del 01/12/2011, dep. 12/04/2012, Rv. 252615).
2.2. Per altro verso, le deduzioni in ordine alla ricostruzione in fatto si
traducono in una sollecitazione ad una rilettura delle emergenze processuali, non
consentita in questa Sede, dovendo la Corte di legittimità limitarsi a ripercorrere
l’iter argomentativo svolto dal giudice di merito per verificare la completezza e
l’insussistenza di vizi logici ictu ocu/i percepibili, senza possibilità di valutare la
rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (ex plurimis Sez. U, n.

2.3. Non può inoltre sottacersi che, a fronte della duplice condanna in primo
ed in secondo grado (c.d. doppia conforme), il vizio di travisamento della prova,
desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo
purché specificamente indicati dal ricorrente, non può essere coltivato dinanzi a
questa Corte, se non nel caso in cui il giudice di appello, per rispondere alle
critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non
esaminati dal primo giudice ovvero quando entrambi i giudici del merito siano
incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma
di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili,
il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di
merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti
(Sez. 4, n. 44765 del 22/10/2013, Buonfine e altri, Rv. 256837; Sez. 4, n. 4060
del 12/12/2013 – dep. 2014, Capuzzi, Rv. 258438). Situazione che non è
ravvisabile nel caso in oggetto.

3. Tanto premesso in linea generale quanto all’ambito del sindacato
espletabile dinanzi a questa Corte, va rilevato che – come si è già notato nel
ritenuto in fatto – il presente procedimento ha ad oggetto diverse condotte
appropriative poste in essere da Maruska Pirredda e Stefano Quaini in relazione
ai contributi consiliari previsti dalla legge regionale n. 38 del 1990, da essi
ricevuti quali consiglieri regionali componenti del gruppo “Di Pietro – Italia dei
valori” e, la sola Piredda, quale capogruppo della citata compagine consiliare.
3.1. I contributi per i componenti del Consiglio della Regione Liguria sono
disciplinati dalla legge 6 dicembre 1973, n. 853, e dalla legge regionale della
Liguria 19 dicembre 1990, n. 38 e successive modifiche. Giova precisare che tale
legge regionale è stata sensibilmente riformata nel tempo ed, in particolare,
dopo i fatti oggetto del presente procedimento con la legge regionale 20
dicembre 2012, n. 48, che ha profondamente rivoluzionato la procedura di
erogazione dei contributi consiliari. Ovviamente, ai fini della decisione del
presente ricorso, occorre fare rinvio alla disciplina coeva all’epoca dei fatti.
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47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).

3.2. Secondo la previsione dell’art. 4, comma 3, della citata legge n.
38/1990, nella formulazione vigente all’epoca dei fatti, i contributi (previsti
dall’art. 2 della stessa legge) venivano erogati ai gruppi consiliari al fine di
coprire:

“a) le spese per l’acquisto di libri e riviste; b) le spese per lo

svolgimento di attività funzionalmente collegate ai lavori di Consiglio e alle
iniziative dei Gruppi o comunque connesse all’attività dei Consiglieri regionali; c)
le spese per eventuali consulenze; d) le spese postali, telefoniche e di cancelleria
non coperte dalla dotazione di servizio disposta ai sensi del comma 1; e) le

ultimi, quanto previsto dalla legge regionale 16 febbraio 1987, n. 3 (Testo unico
concernente il trattamento economico e il fondo mutualistico interno dei
Consiglieri regionali), compreso ogni onere ulteriore di carattere fiscale,
previdenziale e assicurativo; f) le spese di rappresentanza e quelle collegate allo
svolgimento del mandato popolare; g) le spese, secondo le destinazioni di cui
alle lettere a), b), c), d), e) ed f), per il supporto delle attività delle Segreterie
politiche e particolari dei componenti del Gruppo eventualmente facenti parte
dell’Ufficio di Presidenza”.
In ossequio a quanto previsto dall’art. 3 della stessa legge n. 38/1990
(sempre nel testo vigente all’epoca dei fatti), i contributi venivano erogati in
anticipo a rate dall’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale al Presidente di
ciascun gruppo consiliare e quindi ripartiti fra i vari componenti del gruppo. Entro
il 31 gennaio di ogni anno, i Presidenti dei gruppi consiliari erano tenuti a
presentare all’Ufficio di Presidenza del Consiglio un rendiconto articolato circa
l’utilizzazione dei fondi erogati nell’anno precedente in relazione alle categorie di
spesa previste dal citato comma 3 dell’art. 4, rendiconto complessivo
preventivamente approvato dal Gruppo consiliare e di cui il Presidente si
assumeva la responsabilità. Il rendiconto delle spese veniva pertanto predisposto
ex post, successivamente rispetto all’erogazione ed all’impiego dei contributi
consiliari, sulla base delle pezze giustificative fornite dai singoli consiglieri in
relazione alle somme da loro percepite e non restituite a fine anno.
Prima della presentazione all’Ufficio di Presidenza del Consiglio, il rendiconto
doveva essere sottoposto alla Commissione prevista dal comma 4 dell’art. 4-bis
legge regionale n. 38/1990, che, secondo la previsione del comma 5, era tenuta
ad attestare l’esistenza di documentazione probatoria in merito all’ammontare
delle spese di funzionamento e delle spese per il personale, compiendo pertanto
un controllo, non nel merito delle spese rendicontate, bensì in punto di mera
regolarità contabile delle pezze giustificative allegate a supporto.
3.3. Ricostruita la griglia normativa di riferimento e passando alla disamina
del caso sub iudice, a tenore delle contestazioni elevate, i ricorrenti si sarebbero
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spese per il personale e per l’attività dei Consiglieri, fermo restando, per questi

indebitamente appropriati delle somme ricevute a titolo di contributi consiliari nell’ammontare ritenuto in sentenza – impiegando le somme per scopi estranei
all’attività istituzionale per la quale erano stati loro erogati.
A tale riguardo – riprendendo quanto si è sopra rilevato nel paragrafo 2 del
ritenuto in fatto -, il Giudice dell’udienza preliminare e la Corte ligure hanno
concordemente evidenziato come gli imputati avessero consegnato al tesoriere
De Lucchi scontrini e ricevute fiscali indecifrabili o comunque generici, tanto che
gli inquirenti si erano trovati costretti a compiere investigazioni per verificare la

istituzionali; come, sulla scorta delle risultanze di tali indagini, sia stato possibile
accertare l’appropriazione delle somme oggetto di contestazione – come
rettificate dalla Corte d’appello (v. pagine 20 e 21 della sentenza) – in quanto
destinate dai ricorrenti, giusta l’esito dell’analisi dei documenti prodotti a
sostegno, a coprire costi non inerenti ai fini istituzionali, o comunque non
restituite in assenza di giustificazione (v. pagina 42 e 43 della sentenza di primo
grado).
In risposta alle deduzioni difensive, i giudici della cognizione hanno indicato
specifici elementi a confutazione della tesi dell’errore nell’allegazione dei titoli
giustificativi e dunque della invocata buona fede, quali la mole degli scontrini e
delle ricevute inconferenti rispetto alle finalità istituzionali prodotte a sostegno
del rendiconto; la rilevanza dell’importo delle spese documentate; le univoche
risultanze della conversazione ambientale del 9 dicembre 2012 della Pirredda con
l’assessore Cascino ed il tenore della e-mail inviata il 14 novembre 2012 dalla
Piredda e Quaini al Paladini (v. pagine 15 e seguenti della sentenza in verifica).

4. Giova porre in rilievo come la circostanza che il Presidente del gruppo
consiliare avesse la responsabilità amministrativa e contabile in ordine alla
rendicontazione delle spese non esclude la responsabilità penale del singolo
consigliere con riguardo alla condotta di appropriazione delle somme erogategli,
realizzata mediante la destinazione dei contributi al soddisfacimento di esigenze
personali o comunque diverse da quelle istituzionali, connesse al funzionamento
del gruppo consiliare.
4.1. Per un verso, è pacifico che, ai fini del delitto di cui all’art. 314 cod.
pen., il concetto di “appropriazione” comprenda anche la condotta di
“distrazione”, in quanto imprimere alla cosa una destinazione diversa da quella
consentita dal titolo del possesso – precisamente distogliere le risorse di cui
l’agente abbia la disponibilità dalle finalità pubbliche istituzionalmente – significa
esercitare su di essa poteri tipicamente proprietari e, quindi, impadronirsene (ex

11

rispondenza di quanto acquistato e documentato con l’esercizio delle funzioni

plurimis Sez. 6, n. 25258 del 04/06/2014, Pg in proc. Cherchi e altro, Rv.
260070).
4.2. Per altro verso, il delitto di peculato si consuma nel momento in cui il
pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio si appropria del denaro o
delle cose di cui abbia già la disponibilità in ragione del proprio ufficio o servizio,
o dà ad essi una diversa destinazione, là dove la produzione di documentazione
giustificativa non incide sul perfezionamento della fattispecie che si è già
realizzata, ma costituisce comportamento fraudolento teso a coprire, ad

Campanile, Rv. 260154).
4.3. In applicazione di siffatti consolidati principi di diritto, si deve ritenere
che, nella specie, il delitto di peculato si sia perfezionato con la destinazione
delle somme percepite quali contributi consiliari ad un fine diverso da quello
istituzionale e che la presentazione di documenti tesi a giustificare l’impiego dei
medesimi contributi così come — ed a maggior ragione — la rendicontazione da
parte del tesoriere costituiscano segmenti dell’azione temporalmente successivi
ed ontologicamente distinti da quelli dell’appropriazione, ponendosi “a valle”
rispetto all’impiego illegittimo dei fondi pubblici, già consumata nella forma della
destinazione degli stessi a sostenere spese diverse da quelle finanziabili.
Quale logico e giuridico corollario, ne discende che – ai fini della integrazione
del reato in oggetto – non è rilevante la circostanza, oggetto del primo motivo
dedotto dalla Pirredda (sub punto 3.1), che i rendiconti fossero stati predisposti e
sottoscritti con firme false da parte del tesoriere De Lucchi o che, come eccepito
dal Quaini con il quarto e l’ottavo motivo (sub punti 4.4 e 4.8 del ritenuto in
fatto), la commissione di verifica avesse il potere di depennare le spese non
adeguatamente giustificate ovvero che i rendiconti fossero stati approvati con un
documento recante le firme false dei consiglieri. D’altronde, nessuno degli
imputati ha dedotto nel processo di merito di non avere effettuato “quelle” spese
rendicontate, né di non avere prodotto “quei” documenti giustificativi delle
medesime.
Sono pertanto infondate le doglianze mosse in punto di perfezionamento del
reato da Pirredda (nel motivo sub punto 3.1) e da Quaini (nel motivo sub punti
4.1, 4.4, 4.7 e 4.8).

5. E’ inammissibile il motivo col quale Maruska Pirredda assume di avere
concluso un “accordo” con il tesoriere del gruppo De Lucchi, delegando in via
esclusiva a quest’ultimo la cernita delle pezze giustificative da allegare al
rendiconto, al fine di giustificare l’impiego del contributo percepito in conformità
alle finalità istituzionali ad esso connesse (punto 3.2 del ritenuto in fatto).
12

occultare, l’illecito già commesso (da ultimo, Sez. 6, n. 15795 del 06/02/2014,

5.1. La ricorrente ripropone una doglianza già coltivata in appello e non si
confronta con le esaustive considerazioni svolte sul punto sia dal primo Giudice,
là dove ha evidenziato a chiare lettere come di tale accordo non vi sia alcun
riscontro in atti e come anzi De Lucchi ne abbia categoricamente escluso
l’esistenza (v. pagina 47 della sentenza di primo grado); sia dalla Corte
territoriale che – nel rispondere all’omologa doglianza mossa in appello – ha
osservato, con motivazione attenta e non manifestamente illogica, come la
Pirredda riversò nelle mani del tesoriere una moltitudine di scontrini e ricevute

come la prova della malafede dell’imputata emerga con chiarezza dalle
conversazioni intercettate nel settembre 2012 (v. pagina 16 della sentenza
impugnata).
5.2. E ciò a tacer del fatto che, se anche vi fosse prova di un accordo fra la
Pirredda ed il De Lucchi nel senso di demandare a quest’ultimo la selezione delle
pezze giustificative da allegare alla rendicontazione da presentare all’Ufficio di
Presidenza, non potrebbe comunque non ravvisarsi in capo all’imputata una
condotta colpevole nell’avere rimesso a questi ricevute e scontrini indecifrabili o
comunque del tutto generici quanto al bene o al servizio di riferimento, così da
rendere in concreto impossibile l’effettiva verifica circa il corretto impiego dei
contributi ricevuti ex lege.

6. Sono destituiti di fondamento anche i motivi con i quali i ricorrenti hanno
dedotto la riconducibilità delle spese sostenute a quelle legittimamente imputabili
al contributo consiliare ex lege n. 38/1990 (si tratta dei motivi dedotti dalla
Pirredda sub punti 3.3 e 3.4 del ritenuto in fatto e dei motivi dedotti dal Quaini

sub punti 4.1, 4.2, 4.3, 4.5 e 4.6 del ritenuto in fatto).
In particolare, i ricorrenti hanno evidenziato come le spese per alloggio,
pranzi, viaggi e regalie – da essi coperte con i contributi pubblici – siano
riconducibili alla previsione della lettera b) del citato dell’art. 4, comma 3, là
dove contempla “le spese per lo svolgimento di attività funzionalmente collegate

ai lavori di Consiglio e alle iniziative dei Gruppi o comunque connesse all’attività
dei Consiglieri regionali”, consentendo dunque di abbracciare tutti gli esborsi che
siano “comunque” correlati all’esercizio del mandato consiliare, secondo
un’accezione non restrittiva del nesso funzionale e con esclusione delle sole
spese per soddisfare interessi egoistici e personali. A sostegno di tale assunto, gli
impugnanti hanno invocato il principio di diritto affermato da questa Corte nel
caso Tretter (Presidente del gruppo consiliare del Partito Trentino Tirolese,
costituito nell’ambito della Provincia di Trento), secondo il quale non risponde del
delitto di peculato il Presidente del gruppo consiliare che si appropri dei
13

affinchè li recepisse passivamente, certa della sua compiacenza, aggiungendo

contributi ricevuti per l’esplicazione dei compiti del proprio gruppo, impiegandoli
per sostenere spese di propaganda politica o di rappresentanza (nella specie, per
l’acquisto di materiale propagandistico e di oggetto-regalo di modesto valore per
gli elettori, per pranzi e rinfreschi in occasione di incontri pre-elettorali),
trattandosi di attività, benché non istituzionali, comunque legate da nesso
funzionale con la vita e le esigenze del gruppo (Sez. 6, n. 33069 del 12/05/2003,
Rv. 226531).
6.1. Mette conto di rilevare preliminarmente come, diversamente dal caso

tratteggiare una nozione assai ampia di “compiti” e di “attività” dei gruppi
consiliari), nell’ipotesi sottoposta al vaglio del Collegio, la normativa di
riferimento – segnatamente la legge della Regione Liguria n. 38 del 1990 – non
faccia riferimento generico ai “compiti” propri del gruppo consiliare, ma – nel
comma 3 dell’art. 4 – indichi nel dettaglio le spese che possono essere
legittimamente coperte con tali contributi.
Proprio confrontandosi con il principio di diritto espresso nel caso Tretter, i
Giudici della cognizione hanno rilevato – con una motivazione puntuale e non
manifestamente illogica, pertanto non censurabile in questa Sede – come, nella
specie, i ricorrenti abbiano impiegato le somme ricevute a titolo di contributo
consiliare, fra l’altro per un rilevante ammontare, senza giustificarne
adeguatamente l’utilizzo o comunque producendo a supporto documenti
attestanti spese aliene rispetto alle finalità predeterminate previste nell’elenco di
cui al citato art. 4, comma 3.
6.2. In particolare, non presta il fianco a censure di ordine logico o giudico
l’argomentare del primo giudice della cognizione (v. pagine 32 e seguenti della
sentenza del 13 aprile 2015), fatto proprio dalla Corte d’appello (v. pagine 17 e
seguenti della decisione in verifica), là dove, al fine di sciogliere il nodo in ordine
alla corretta interpretazione della previsione del citato dell’art. 4, comma 3 lett.
b), ha fatto richiamo ai principi espressi dalla Sezione di controllo della Corte dei
Conti in materia di utilizzo dei contributi ai gruppi consiliari ai sensi della legge
regionale n. 38/1990. Sebbene si tratti di indicazioni ermeneutiche non vincolanti
del libero convincimento del giudice penale, nondimeno offrono un utile spunto di
riflessione al fine di stabilire quale sia il regime delle spese che possono essere
coperte con i contributi de quibus. Orbene, nella relazione della Sezione di
controllo sulla rendicontazione dei gruppi consiliari della regione Liguria per
l’esercizio 2012, si legge che “i contributi non possono essere destinati a spese
per attività dei consiglieri che già trovano copertura nel trattamento economico,
il quale, come evidenziato in premessa, comprende la cosiddetta diana mensile.
Dalla normativa regionale risulta che le spese possono essere effettuate a carico
14

preso in considerazione in tale pronuncia (nella quale questa Corte è pervenuta a

dei fondi consiliari destinati ai gruppi solo se collegato allo svolgimento di attività
istituzionale del mandato popolare”, “in linea generale, pertanto, si ritiene
necessario che la documentazione inviata a supporto delle spese sostenute
rimborsate sia idonee a consentire la verifica dell’inerenza al fine istituzionale,
indicando l’occasione, le circostanze e la finalità specifica della spesa. In difetto,
la documentazione di spesa potrebbe essere riferita a qualunque utilizzo, anche
difforme da quello normativamente previsto. La sola documentazione
commerciale (scontrini, fatture, ricevute), ove non fornisca sufficienti elementi

effettuazione della spesa, senza alcun riferimento alla sua giustificazione” (v.
pagine 32 e 33 della sentenza di primo grado).
6.3. Giudica il Collegio che l’approdo ermeneutico dei Giudici della
cognizione debba essere certamente condiviso là dove esclude che possa
ritenersi legittimo l’impiego di somme in relazione a spese in nessun modo
giustificate, ovvero rispetto alle quali siano stati prodotti scontrini o fatture prive
di una qualunque giustificazione o comunque recanti indicazioni generiche e tali
da impedire di verificare la riconducibilità della spesa alla specifica attività del
consiglio regionale.
Nel caso sub iudice, non si discute infatti se una certa tipologia di spesa
rendicontata (ad esempio per ristorazione, per viaggi piuttosto che per acquisti
di beni) possa o meno ricondursi alla finalità istituzionale – id est se possa
rientrare fra quelle “comunque connesse all’attività di consiglieri regionali”, come
nel caso Tretter -, ma manca piuttosto la prova che quegli specifici esborsi siano
effettivamente giustificati da tale causa. Sviluppando il condivisibile
ragionamento svolto dai Giudici della cognizione, si deve invero affermare che la
produzione di scontrini di acquisto di beni (libri o articoli di telefonia) ovvero di
titoli di viaggio di per sé privi di un’evidente correlazione con l’attività di
consigliere regionale, così come di ricevute di consumazioni presso bar e
ristoranti senza alcuna menzione circa l’identità degli ospiti o comunque
dell’occasione che si affermi essere legata all’attività politica, dunque di
giustificativi di spesa sguarniti di una qualunque idonea indicazione circa la
connessione dell’esborso all’attività istituzionale, impedisce di ritenere legittimo
l’impiego dei fondi pubblici. La documentazione prodotta a corredo – giusta
l’indeterminatezza e la plurivocità del relativo contenuto -, in quanto priva di
elementi suscettibili di rendere possibile la verifica circa l’inerenza al fine
istituzionale, potrebbe difatti, e del tutto plausibilmente, riferirsi all’acquisto di
beni per uso personale ovvero ad esborsi in occasioni conviviali private,
sconnesse da qualunque finalità politica o elettorale.

15

tali da ricostruire l’inerenza della spesa, si traduce in una mera attestazione di

6.4. Coglie pertanto fuori segno il rilievo mosso dal Quaini col terzo motivo
(sub punto 4.3 del ritenuto in fatto), là dove si duole del fatto che i giudici di
merito non abbiano verificato se le spese per i trasferimenti sui territori di
Genova, Savona e Milano si giustificassero in ragione di esigenze politiche.
Come si è sopra visto, la disciplina della erogazione dei contributi per i
gruppi consiliari vigente nella Regione Liguria all’epoca del fatti e, segnatamente,
il meccanismo dell’elargizione in anticipo dei fondi e della successiva
presentazione dei titoli giustificativi degli importi effettivamente impiegati

l’obbligo di fornire un’idonea giustificazione all’incameramento delle risorse
percepite ex lege n. 38/1990 e non restituite a fine anno, con conseguente
inversione dell’onere della prova sul punto.

7. Ineccepibile è il compendio motivazionale svolto in relazione alle spese
sostenute dalla Pirredda per le spese di viaggio per raggiungere la sede del
Consiglio regionale dal luogo di residenza e per l’alloggio (segnatamente la
locazione di un appartamento).
7.1. Nel solco delle indicazioni della Corte dei Conti espresse nella relazione
già sopra citata, il Gup e la Corte d’appello hanno condivisibilmente posto in
rilievo come i consiglieri della Regione Liguria percepissero un rimborso
forfettario mensile per le spese di viaggio sostenute per raggiungere la sede
della Regione nonché per l’alloggio, sicchè dette spese non potevano essere
ulteriormente addebitate a carico del fondo dei Gruppi consiliari

ex lege n.

30/1990.
7.2. Il discorso argomentativo svolto dai Giudici della cognizione in relazione
a dette voci è coerente alla complessiva disciplina delle indennità riconosciute ai
consiglieri regionali e dei contribuiti ai gruppi consiliari, nonché conforme a
ragionevolezza.
Come evidenziato nella sentenza in verifica, all’epoca dei fatti, i singoli
consiglieri percepivano diversi compensi, segnatamente un’indennità mensile di
carica e di funzione (pari a 8.800,00 euro), un rimborso forfettario mensile
compreso in una forbice da 2.925,00 euro a 4.681,00 euro a seconda della
distanza tra il luogo del domicilio ed il capoluogo della Regione Liguria, un
assegno di fine mandato, un assegno vitalizio, nonché il rimborso delle spese di
viaggio, di vitto e di alloggio in caso di missione autorizzata dalla Presidenza; in
più, la Regione forniva direttamente ciascun consigliere un computer fisso
portatile, una stampante, arredi per ufficio, tessera viacard e telepass.
A tali compensi, si aggiungevano, appunto, i contributi previsti dalla legge
regionale n. 38/1990, destinati – si ribadisce – a coprire, giusta previsione della
,
16

poneva espressamente a carico di ciascun componente del gruppo consiliare

lett. b) del comma 3 del citato art. 4, le spese funzionali ai lavori del consiglio,
alle iniziative dei gruppi o

“comunque connesse all’attività dei consiglieri

regionali”.
Tale disposizione deve essere letta alla luce dell’art. 28, comma 1, dello
Statuto della Regione Liguria, là dove statuisce che ai gruppi consiliari “sono
assicurate le risorse necessarie per lo svolgimento delle loro funzioni”,

con ciò

definendo la ratio dei contributi previsti dalla legge regionale n. 38/1990, nel
senso di sostenere specificamente le spese correlate alle funzioni dei gruppi

L’interpretazione sistematica del complessivo quadro normativo impone
allora di ritenere che le erogazioni previste dall’art. 2 della legge n. 38/1990 nell’essere attribuite a ciascun gruppo per fare fronte alle relative esigenze e,
solo in via indiretta mediante il meccanismo del rimborso spese, ai singoli
componenti dello stesso – non possano essere destinate a coprire quelle spese
che siano strumentali alle esigenze del singolo consigliere già coperte da altri
compensi o indennità percepiti, quali appunto quelle per il trasporto da e verso la
sede del Consiglio, per il vitto e l’alloggio.
7.3. Con specifico alle spese di viaggio, si aggiunga che, come
perspicuamente notato dal Collegio di merito, se si fosse veramente trattato di
spostamenti concernenti l’attività politica, la Pirredda e il Quaini avrebbero ben
potuto richiedere formalmente alla Presidenza l’autorizzazione alla missione (v.
pagine 17 e 18 della sentenza impugnata).

8. Tutto sviluppato sul piano del fatto – e pertanto inammissibile – è il rilievo
dedotto dal Quaini con il settimo motivo (sub punto 4.7 del ritenuto in fatto), con
il quale egli si duole della omessa consideraione ai fini della rendicontazione delle
spese sostenute per il pagamento dello stipendio di un collaboratore.

9. Immune dai vizi denunciati è l’inquadramento giuridico della fattispecie
sotto l’ipotesi del peculato.
Per quanto si è posto in rilievo, i fondi erogati ai consigli regionali sono
regolati da una disciplina di diritto pubblico – segnatamente dalla legge n. 38 del
1990 – e sono destinati allo svolgimento dell’attività dei medesimi gruppi,
segnatamente all’esercizio della funzione legislativa ad essi assegnata ed
all’esplicazione del mandato in collegamento con l’elettorato.
9.1. A prescindere dalla natura giuridica dei gruppi consiliari, ai fini della
qualificazione giuridica dei fatti, è sufficiente notare che, per legge, i contributi
sono erogati al gruppo consiliare e solo indirettamente al singolo componente (il

17

726?

medesimi.

quale deve poi giustificarne l’impiego in termini conformi alla legge) e sono
connotati da uno specifico vincolo di destinazione pubblica.
Ne discende che il membro del Consiglio regionale che abbia destinato i
contributi di cui abbia la disponibilità in ragione del proprio ufficio o servizio —
contributi da ritenere “altrui” in quanto ricevuti in stretta connessione con
l’attività del gruppo di appartenenza -, al soddisfacimento di finalità diverse da
quelle istituzionali, regolate dalla normativa di rilievo pubblicistico, commette
peculato, atteso che, ai fini del delitto di cui all’art. 314 cod. pen., il concetto di

imprimere alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del
possesso significa esercitare su di essa poteri tipicamente proprietari e, quindi,
impadronirsene (in questo senso, ex plurimis Sez. 6, n. 25258 del 04/06/2014,
Pg in proc. Cherchi e altro, Rv. 260070).
Nel destinare le risorse economiche erogate per il funzionamento del gruppo
consiliare — dunque assoggettate ad uno specifico vincolo di destinazione
pubblica – ad una finalità diversa, estranea rispetto a quella istituzionale, gli
imputati si sono comportati uti dominus, realizzando l’interversione del possesso.
D’altra parte, l’errore sulla illiceità della destinazione delle somme ricevute
quali contributi per sostenere spese non ammissibili si risolve in un errore su
legge extrapenale integratrice del precetto, che pertanto non scusa.

10. Né v’è spazio per ritenere che i fatti avrebbero dovuto essere sussunti
sotto l’ipotesi della truffa aggravata, come sostenuto dal Quaini (con il motivo
sub punto 4.9 del ritenuto in fatto).
10.1. Con riguardo al discrimen fra il peculato e la truffa aggravata ai sensi
dell’art. 61 n. 9, cod. pen., occorre rammentare che – secondo il consolidato
insegnamento di questa Corte di legittimità – si ha il peculato allorquando il
pubblico ufficiale si appropria del denaro di cui abbia già il possesso anche solo
mediato e gli artifici e raggiri sono realizzati soltanto per effettuare l’illegittima
appropriazione oppure per occultarla; sia ha invece la truffa allorquando gli
artifici e raggiri costituiscono lo strumento per ottenere il possesso o la
disponibilità del danaro che il pubblico ufficiale non ha. In particolare, si è
affermato che l’elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di truffa
aggravata, ai sensi dell’art. 61 n. 9, cod. pen., va individuato con riferimento alle
modalità del possesso del denaro o d’altra cosa mobile altrui oggetto di
appropriazione, ricorrendo la prima figura quando il pubblico ufficiale o
l’incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o
comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, e ravvisandosi
invece la seconda ipotesi quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se
18

/

“appropriazione” comprende anche la condotta di “distrazione”, in quanto

lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi
del bene (Sez. 6, n. 35852 del 06/05/2008, Savorgnano, Rv. 241186). Pertanto,
ai fini della distinzione tra peculato e truffa non rileva il rapporto cronologico tra
l’appropriazione e la condotta ingannatoria, ma il modo in cui il funzionario
infedele viene in possesso del danaro o del bene del quale si appropria: sussiste
il delitto di peculato quando l’agente fa proprio il bene altrui del quale abbia già il
possesso per ragione del suo ufficio o servizio e ricorre all’artificio o al raggiro
(eventualmente consistente nella produzione di falsi documentali) per occultare

avendo tale possesso, se lo procura mediante la condotta decettiva (Sez. 6, n.
10309 del 22/01/2014, P.M. in proc. Lo Presti e altro, Rv. 259507; Sez. 6, n.
15795 del 06/02/2014, Campanile, Rv. 260154; Sez. 6, n. 31243 del
04/04/2014, P.M. in proc. Currao, Rv. 260505).
Tirando le fila degli arresti giurisprudenziali sopra rammentati, si può
dunque affermare che la linea di discrimine fra i reati di peculato e di truffa
aggravata va tracciata avendo riguardo al fatto se in capo al pubblico ufficiale o
all’incaricato di un pubblico servizio sia o meno ravvisabile una disponibilità
originaria, materiale e/o giuridica, della risorsa economica oggetto di
appropriazione, di tal che, nel caso sanzionato dall’art. 314 cod. pen., l’attività
decettiva non è strumentale al conseguimento della somma, ma è volta soltanto
ad occultare l’appropriazione medesima, mentre nel caso sanzionato dal
combinato disposto degli artt. 640 e 61 n. 9 cod. pen., l’azione fraudolenta
costituisce un antecedente logico – e non necessariamente cronologico all’appropriazione, essendo appunto finalizzata ad ottenere la disponibilità delle
risorse economiche oggetto di appropriazione.
10.2. In applicazione di tali principi di diritto, giudica il Collegio che non
sia revocabile in dubbio la correttezza dell’inquadramento giuridico della
fattispecie concreta nell’ipotesi di cui all’art. 314 cod. pen.
Per quanto si è già sopra chiarito, il ricorrente si appropriava di somme di
denaro di cui aveva già la disponibilità – segnatamente dei contributi consiliari a
lui versati dalla Presidenza del gruppo consiliare, secondo la normativa vigente
all’epoca – e produceva la documentazione in un momento cronologicamente e
logicamente successivo all’indebito utilizzo di detti fondi, così da giustificarne
l’impiego per scopi non istituzionali e da dissimulare l’appropriazione stessa. La
produzione documentale ha dunque costituito, nella specie, non lo strumento
fraudolento per conseguire le risorse oggetto di appropriazione (che appunto
integra la truffa), ma per celare ex post la destinazione indebita delle somme già
nella propria disponibilità a finalità estranee a quelli istituzionali. Il che appunto
integra il peculato.
19

la commissione dell’illecito; mentre vi è truffa, quando il pubblico agente, non

11. Inammissibili sono, infine, i rilievi mossi dal Quaini nei motivi aggiunti,
in quanto tesi a sollecitare una diversa ricostruzione in fatto e, dunque, una
valutazione squisitamente di merito non consentita nel giudizio di legittimità.

12. Pirredda Maruska deve essere altresì condannata a rifondere alla parte
civile “Italia dei valori” le spese processuali sostenute nel grado che il Collegio,
tenuto conto delle tariffe forensi e dell’ipegno defensionale profuso, ritiene equo

e CPA.

P.Q.M.

rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Condanna altresì PirXedda Maruska a rifondere alla parte civile “Italia dei valori”
le spese processuali sostenute nel grado che liquida in complessivi 3.500 euro,
oltre a spese generali in misura del 15%, IVA e CPA.

Così deciso in Roma il 19 settembre 2017

liquida in complessivi 3.500 euro, oltre a spese generali in misura del 15%, IVA

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