Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 53321 del 04/07/2017


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 53321 Anno 2017
Presidente: BONITO FRANCESCO MARIA SILVIO
Relatore: ROCCHI GIACOMO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PORCELLI FRANCESCO nato il 02/03/1977 a MARINO

avverso la sentenza del 07/03/2016 della CORTE ASSISE APPELLO di ROMA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere GIACOMO ROCCHI
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore GIOVANNI DI
LEO
che ha concluso per l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per
essere il reato di omicidio colposo, così riqualificata la condotta, estinto per
prescrizione.
Uditi i difensori: avvocato dello Stato GRECO MAURIZIO in rappresentanza
dell’Avvocatura Generale dello Stato in difesa della parte civile MINISTERO
DELLA DIFESA che conclude come da conclusioni scritte che deposita insieme
alla nota spese; avvocato MAGGIORELLI GIOVAMBATTISTA del foro di VELLETRI
in difesa di PORCELLI FRANCESCO che conclude chiedendo l’accoglimento del
ricorso; avvocato VAVALA’ RAFFAELE MARIO del foro di ROMA in difesa di
PORCELLI FRANCESCO che conclude insistendo per l’accoglimento del ricorso o
in subordine associandosi alle richieste del P.G. di udienza.

Data Udienza: 04/07/2017

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di assise di appello di Roma,
in riforma di quella della Corte di assise di Frosinone, assolveva Rezza Mario da
tutti i reati ascritti per non averli commessi; assolveva Porcelli Francesco dal
delitto di tentato omicidio contestato al capo A dell’imputazione e confermava la
sua condanna per il delitto di omicidio ai danni di Androne Daniel, determinando
la pena in anni quattordici di reclusione.

esploso numerosi colpi di arma da fuoco all’interno dell’azienda vinicola Fermar,
in Monte Porzio Catone, nei confronti di varie persone (capo A), cagionando la
morte di Androne Daniel (capo B). La Corte di Assise di Frosinone aveva
dichiarato non doversi procedere nei confronti di entrambi gli imputati per il
delitto di occultamento di cadavere (capo C) perché estinto per prescrizione.
Le vittime del tentato omicidio e dell’omicidio erano cittadini rumeni che,
nella notte tra il 5 e il 6/7/2006, avevano tentato il furto ai danni dell’azienda
vitivinicola; mentre si trovavano in un’area recintata intenti a caricare casse di
vino e a divellere una inferriata, erano sopraggiunti due individui che avevano
gridato “Fermi, Polizia (o Carabiniere e avevano sparato numerosi colpi,
colpendo Daniel Androne e poi trascinandone il corpo per le braccia. Il corpo non
era mai stato ritrovato.
Le fonti di prova erano costituite dalle dichiarazioni sostanzialmente
concordanti dei vari cittadini rumeni presenti sul posto e intenti al tentato furto;
dal rinvenimento di un bossolo esploso e di un proiettile camiciato e deformato di
pistola risultati appartenere alle Forze dell’Ordine; dalla consulenza balistica, che
aveva concluso per la piena compatibilità tra la traccia di percussione rimasta sul
bossolo rinvenuto con quella rilasciata dalla pistola Beretta in dotazione a Porcelli
e per l’alta compatibilità con la medesima arma della traccia di percussione sul
proiettile (l’imputato aveva ammesso la proprietà del bossolo, sostenendo che si
trattava di un cimelio smarrito in sede di perlustrazione); dai rapporti della ditta
vitivinicola con il Brigadiere Rezza e l’Appuntato Porcelli, confermati
dall’amministratore, che aveva riferito di avere consegnato a Rezza il
telecomando di apertura del cancello principale perché controllasse l’area
durante il turno di notte; dai risultati dei tabulati telefonici, che avevano
confermato la presenza dei cittadini rumeni nell’area della Femar nella notte del
furto e i numerosi tentativi di contattare l’apparecchio di Daniel Androne e che
avevano registrato una chiamata dalla Femar al cellulare di Porcelli nel
pomeriggio precedente il fatto nonché la sua presenza nei pressi dell’azienda alle
ore 23’00.
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Secondo l’imputazione, i Carabinieri Rezza e Porcelli, il 5/7/2006, avrebbero

La Corte territoriale, dopo averne ripercorso le dichiarazioni rese in
dibattimento, riteneva i testimoni attendibili e le dichiarazioni concordanti,
giustificando le lievi discrepanze con la diversa posizione di ciascun soggetto al
momento dell’inizio della sparatoria, l’effetto sorpresa, la concitazione del
momento e la scarsa illuminazione dei luoghi. Le dichiarazioni erano state
riscontrate dal rinvenimento di un cacciavite, che uno dei testimoni aveva riferito
avere portato con sé, dalla localizzazione del bossolo all’interno dell’azienda in
prossimità del muro di cinta e dal rinvenimento del proiettile all’esterno della

testimoni di vedere i due soggetti (che avevano descritto); dai dati emergenti dai
tabulati telefonici.
A sparare non potevano essere stati dipendenti di ditte di vigilanza privata,
con le quali la Femar non aveva alcun rapporto; l’amministratore Dongarrà
aveva riferito di avere chiesto ai Carabinieri Rezza e Porcelli di intensificare i
controlli dopo i due furti subiti pochi giorni prima, consegnando a Rezza il
telecomando di apertura del cancello. Non vi era alcun elemento che indicasse
che Androne Daniel fosse rimasto vittima di uno scontro tra bande rivali.
Rezza aveva stretti contatti con la Femar e lavorava in pattuglia con Porcelli;
secondo la Corte territoriale, tuttavia, gli elementi dimostrativi della sua
presenza sul luogo quella sera non erano sufficienti (non si approfondisce la
motivazione, in mancanza di impugnazione del Procuratore Generale avverso
l’assoluzione di Rezza).
Porcelli aveva ricevuto una telefonata dalla Femar alle 16 del pomeriggio
precedente il fatto e alle 2330 si trovava nei pressi dell’azienda; anch’egli aveva
familiarità con i responsabili della Femar, che possedevano il suo numero di
cellulare (annotato in un’agenda); prestava servizio con Rezza, che aveva la
disponibilità del telecomando, non aveva un alibi per la notte del 5 luglio e la
descrizione fisica fornita da Stoian di uno dei due soggetti corrispondeva a quella
dell’imputato; il bossolo apparteneva alla sua pistola (la Corte non riteneva
credibile la giustificazione addotta di un cimelio smarrito) e doveva ritenersi
quanto restava di un proiettile esploso dall’arma in sua dotazione. Per di più, il
punto in cui era stato rinvenuto il bossolo era sulla stessa traiettoria del
cacciavite lasciato cadere da Mirea durante la fuga, a dimostrazione di un colpo
sparato verso un soggetto in fuga; la mancanza di incrostazioni di terra
dimostrava che il bossolo si trovava sul posto da poco tempo.
Anche il proiettile – pur non essendovi certezza, ma solo alta compatibilità,
del fatto che fosse stato sparato dalla pistola di Porcelli – era sicuramente
appartenente alle Forze dell’Ordine e dimostrava che, quella notte, erano stati
sparati più colpi così come avevano riferito i cittadini rumeni. D’altro canto,

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recinzione, che dimostrava l’esplosione di più colpi; dalla possibilità per i

Porcelli aveva la possibilità di procurarsi proiettili in numero superiore a quelli
contenuti nel caricatore della pistola.
In definitiva, secondo la Corte, tutti gli indizi convergevano univocamente
verso la persona di Porcelli Francesco.
La Corte riteneva sussistente il dolo eventuale di omicidio; dava atto che secondo quanto riferito dal più attendibile dei cittadini rumeni – i colpi erano
stati sparati verso terra; riteneva tuttavia che, in considerazione
dell’addestramento ricevuto e dell’esperienza maturata, l’imputato si fosse

persone che fuggivano, a distanza ravvicinata, con un’arma di potenza micidiale,
in ora notturna e in luogo scarsamente illuminato, potesse ferire gravemente o
uccidere qualcuno ma non aveva desistito dalla propria condotta nonostante la
mancata reazione dei fuggitivi, al fine di scoraggiarli da ulteriori future incursioni
in azienda.
Il riconoscimento del dolo eventuale giustificava l’assoluzione per il delitto di
tentato omicidio nei confronti degli altri cittadini rumeni (capo A).
Secondo la Corte, non ricorrevano scriminanti: in particolare, non quella
dell’uso legittimo delle armi, atteso che gli imputati erano entrati, di loro
iniziativa e su richiesta dei proprietari di un’area privata, per tutelare gli interessi
privati, operando senza essere nell’adempimento del dovere d’ufficio e senza che
ricorressero le necessità indicate nell’art. 53 cod. pen..

2. Ricorre per cassazione il difensore di Francesco Porcelli, deducendo
distinti motivi.
Con un primo motivo si deduce erronea applicazione dell’art. 533 comma 1
cod. proc. pen. e vizio di motivazione.
Preliminarmente il ricorrente sottolinea che l’assoluzione di Rezza imponeva
di fare a meno degli elementi che contemplavano la sua partecipazione al fatto.
I vizi della motivazione vengono evidenziati su numerosi aspetti della
vicenda:
– sul mancato rinvenimento di tracce sia della tentata effrazione che della
sparatoria nonché sulla circostanza che nessun abitante nei pressi dell’azienda
aveva sentito gli spari: elementi che dimostravano l’inattendibilità dei testimoni
rumeni, soprattutto sotto il profilo delle contraddizioni interne a ciascuna
testimonianza;
– sul mancato rinvenimento di tracce di DNA di Androne Daniel, in nessun
modo giustificabile;
– sulla mancanza di riscontri provenienti dalla localizzazione delle chiamate
telefoniche e dalle intercettazioni svolte nel corso delle indagini: in particolare, la

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rappresentato la concreta possibilità che sparando verso un gruppo di cinque

cella agganciata dal cellulare di Porcelli alle ore 23’23 non era vicina al luogo del
fatto e si trovava in un comune diverso; soprattutto, tale cella “copriva” – anzi:
si trovava nella medesima strada – la casa in cui abita l’imputato, cosicché, in
realtà, la telefonata registrata nei tabulati confermava l’alibi dell’imputato, che
aveva sostenuto di essere stato a casa quella notte;
– sulla questione della consegna del telecomando del cancello della Femar a
Rezza e sui legami tra Rezza e Porcelli; la sentenza effettuava diversi salti logici,
non valutava l’attendibilità di Dongarrà (titolare dell’azienda), messa in dubbio

telecomando a Porcelli e perché questi avrebbe dovuto effettuare dei controlli
notturni alla Femar senza riferirlo ai superiori;
– sulla descrizione fisica dell’uomo visto dai cittadini rumeni e sulla sua
compatibilità con la persona dell’imputato: i testi avevano descritto l’uomo con la
barba (quello individuato in Porcelli) come grasso, tanto da avere difficoltà nel
correre e la barba descritta aveva un’estensione diversa da quella del ricorrente;
– sul rinvenimento del bossolo e dell’ogiva: la Corte aveva presentato
Porcelli come collezionista di bossoli esplosi, contrariamente a quanto da lui
affermato; d’altro canto, se fosse stato esploso in quella notte, Porcelli lo
avrebbe sicuramente cercato e fatto sparire; né la mancanza di terriccio era
significativa, perché l’imputato aveva partecipato ad un sopralluogo nella Femar
due giorni prima del fatto; inoltre era inverosimile la ricostruzione del modo con
il quale Porcelli (la cui pistola era stata rinvenuta con tutti i 15 proiettili in
dotazione) avrebbe potuto ricostruire la scorta di munizioni ingannando l’ufficiale
sul numero di colpi effettivamente esplosi durante le esercitazioni. Non solo: il
bossolo esploso era stato fabbricato nel 1997, mentre tutti i proiettili presenti
nell’arma al momento del sequestro erano risalenti al 1999; non era stato
spiegato come Porcelli, in quei dodici giorni, fosse riuscito a procurarsi un intero
caricatore.
Ancora: contrariamente a quanto affermato dalla sentenza di appello (e in
conformità a quanto esposto in quella di primo grado) la compatibilità del
proiettile esploso rinvenuto fuori dalla cinta muraria della Femar con la pistola di
Porcelli era molto bassa.
Secondo il ricorrente, su tutti questi aspetti, che giustificavano ragionevoli
dubbi, la sentenza impugnata non aveva fornito adeguata motivazione o non
l’aveva fornita affatto.

In un secondo motivo il ricorrente deduce erronea applicazione dell’art. 192,
comma 2, cod. proc. pen. in relazione alla univocità e concordanza indiziaria.
Secondo il ricorrente, in presenza di tutti gli elementi favorevoli al

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dalla difesa, non spiegava perché Rezza avrebbe dovuto consegnare il

ricorrente, il mero rinvenimento del bossolo all’interno della Femar, sicuramente
appartenente all’arma dell’imputato, non può avere da solo una forza persuasiva
determinante.

In un terzo motivo il ricorrente deduce erronea applicazione dell’art. 43 cod.
pen. e difetto di motivazione sulla mancata qualificazione del fatto come omicidio
colposo.
La motivazione della sentenza era contraddittoria: da una parte, la Corte

persone, dall’altra escludeva la colpa aggravata dalla previsione dell’evento.
Il riferimento all’addestramento militare e all’esperienza maturata negli anni
atteneva proprio alla misura della colpa.
Il ricorrente conclude per l’annullamento della sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio per
insussistenza del fatto contestato.
In effetti, risulta fondato il secondo motivo di ricorso concernente la
violazione dell’art. 192, comma 2 cod. proc. pen., sulla base delle ampie
considerazioni svolte in quello precedente.

La Corte territoriale, per giungere all’affermazione di colpevolezza dei due
imputati per il delitto di omicidio ai danni di Androne Daniel, doveva rispondere
affermativamente a due interrogativi: a) se i fatti narrati dai cittadini rumeni
erano effettivamente avvenuti con le modalità dagli stessi descritte; b) se i
soggetti estranei che avevano sorpreso i ladri e dato corso alla sparatoria erano
Rezza e Porcelli.
Il primo interrogativo portava, inoltre, con sé un ulteriore quesito di
carattere giuridico: se i soggetti che avevano sparato avevano agito con dolo
diretto ovvero con dolo eventuale o, ancora, con colpa; quesito (affrontato nel
terzo motivo di ricorso) la cui soluzione risulta, peraltro, superflua in mancanza
di risposta affermativa ad entrambi quelli principali.

In realtà, se la prova dell’identificazione di uno o entrambi gli imputati nelle
due persone che avevano sorpreso i ladri e avevano sparato non è raggiunta,
anche la trattazione del primo quesito può essere tralasciata, atteso che la
soluzione processuale è la stessa: l’assoluzione dell’imputato.

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territoriale ammetteva che Porcelli aveva sparato verso terra e non verso le

Il ricorrente – come è logico – critica la motivazione della sentenza
impugnata in relazione a tutti profili: in particolare, muove ampie censure in
ordine all’attendibilità attribuita ai testimoni rumeni, ponendo seri dubbi sullo
svolgimento effettivo dei fatti così come dagli stessi descritti.
Tuttavia, pare opportuno analizzare la sentenza impugnata partendo dal
secondo profilo, quello dell’identificazione dei due soggetti agenti, risolto dalla
Corte territoriale nel senso dell’insufficienza delle prove a carico di Rezza Mario e
della sussistenza di una prova certa dell’identificazione di Porcelli Francesco

In effetti, la violazione dell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., come si
vedrà, appare evidente, tanto da rendere possibile un annullamento senza rinvio
della sentenza impugnata, dovendosi escludere (anche alla luce dell’ampia
motivazione della sentenza di primo grado) ulteriori sviluppi ed approfondimenti
probatori.

2. Analizzando, quindi, la posizione di Porcelli Francesco, in primo luogo
occorre dare atto che a carico dell’imputato non sussisteva alcuna prova
rappresentativa della sua presenza sul luogo del fatto nella notte del 5/7/2006:
in particolare, nessuno dei testimoni rumeni presenti sul posto lo ha riconosciuto
come uno dei due aggressori, non essendo stata svolta alcuna individuazione
fotografica nel corso delle indagini preliminari (benché i sospetti su Rezza e
Porcelli fossero sorti già pochi giorni dopo la denuncia di scomparsa da parte del
legale del fratello di Androne Daniel), né alcuna ricognizione di persona.
Il motivo per cui tali atti non sono stati compiuti – nonostante almeno due
dei quattro cittadini rumeni avessero osservato le due persone e ne avessero
descritte le fattezze – non è noto: di tale mancanza, tuttavia, non può che
prendersi atto; da essa consegue che le dichiarazioni testimoniali, nella parte in
cui sono state utilizzate dai giudici di merito per l’identificazione di Porcelli, non
hanno fornito una prova piena a carico dell’imputato ma, piuttosto, delle
indicazioni di compatibilità (maggiore o minore) della descrizione fornita con la
persona dell’imputato.
Entrambi i giudici di merito sono apparsi ben consapevoli della portata
limitata delle testimonianze: forse il giudice di primo grado in misura maggiore
tanto da giungere, dopo un’ampia dissertazione (pagg. 26 ss. sentenza Corte
Assise Frosinone) a concludere che “il riferimento dei testi si rivela non decisivo
al fine della sua (riferito a Porcelli) positiva identificazione, ma non può essere
certamente assunto come un indizio confliggente con gli altri già raccolti”. In
sostanza, la Corte di Assise di Frosinone rinunciava a considerare la descrizione
del soggetto fornita da Stoian (il teste ritenuto più attendibile) come un

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come uno dei due soggetti.

elemento a carico dell’imputato, limitandosi ad affermare che la descrizione non
era incompatibile con le fattezze di Porcelli e quindi non costituiva – come
sostiene la difesa del ricorrente – un elemento di prova a favore dell’imputato.

La motivazione della sentenza di appello sul punto appare – nella sua
sbrigatività – frutto di un complessivo travisamento della prova: si afferma,
infatti, con decisione che “la descrizione fisica – fornita da Stoian – di uno dei
due sconosciuti corrisponde, nella corporatura e nel modo di tenere la barba, a

al tempo, superiore di grado del prevenuto …”.
Sorprende, in primo luogo, il riferimento ad un accertamento del giudice di
appello, che avrebbe verificato in udienza la corrispondenza tra la descrizione
dello sconosciuto sparatore fatta dal teste Stoian e le fattezze dell’imputato: in
effetti, il processo di appello era stato celebrato dieci anni dopo i fatti, cosicché
appare illogico e fuorviante confrontare una persona di 39 anni osservata
direttamente dal giudice con la (asseritamente) sua descrizione all’età di 29
anni.
Se, invece, il passaggio intendeva riferirsi all’osservazione diretta
dell’imputato fatta dalla Corte di primo grado alcuni anni prima, è evidente che il
giudice di appello ha travisato la valutazione: la sentenza appellata, infatti,
annotava: “la Corte deve dare atto che lo stesso

(Porcelli),

per come

attualmente si è presentato, è certamente robusto e tonico, ma non grasso”,
vale a dire non corrispondente alle descrizioni fornite, tanto da indurre la Corte
di Frosinone ad argomentare in ordine alla esatta interpretazione delle
descrizioni dei testi rumeni.
Anche il riferimento alle dichiarazioni del teste Meola presente nella
sentenza di appello a sostegno dell’identificazione di Porcelli come uno dei due
soggetti sconosciuti appare frutto di un travisamento: ciò è ampiamente
dimostrato nel ricorso, che richiama tutti i passaggi essenziali (provvedendo ad
allegarli, ai fini dell’autosufficienza del ricorso), ma già la sentenza di primo
grado dava atto che il capitano Meola aveva definito Porcelli “robusto”, ma non
grasso, e che nessuna certezza sussisteva in ordine alla compatibilità della barba
descritta dai testimoni rumeni con quella che, all’epoca dei fatti, Porcelli aveva.

3. Quindi, a carico dell’imputato sussistevano soltanto indizi, la cui
consistenza – sotto il profilo della gravità, precisione e concordanza – il giudice
di merito era chiamato a valutare.

Non vi è dubbio che il rinvenimento di un bossolo esploso dalla pistola di

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quella di Porcelli, come apprezzata in aula e confermata anche dal teste Meola –

ordinanza dell’imputato all’interno della recinzione della FEMAR integrava un
indizio dell’avere Porcelli sparato in quel luogo nell’occasione in cui era morto
Androne Daniel.
Tuttavia, al fine di valutare la gravità dell’indizio, occorreva tenere conto
della versione alternativa: quella dello smarrimento del bossolo esploso nel corso
della ispezione compiuta negli stessi luoghi due giorni prima del fatto (si tratta di
evento certo, di cui dava atto la sentenza di primo grado); entrambi i giudici di
merito hanno valutato la spiegazione alternativa come improbabile, sulla base di

appunto – l’ispezione era stata effettivamente compiuta e la possibilità per un
carabiniere di tenere i bossoli esplosi nel corso delle esercitazioni senza restituirli
all’ufficiale di tiro era stata dimostrata (la sentenza di primo grado dava atto
dell’escussione dei teste Rocchetti).

La presenza di un proiettile esploso fuori dell’area recintata della Femar,
invece, non poteva essere considerato un indizio della presenza di Porcelli nella
notte del 5/7/2006, in quanto la perizia balistica aveva dimostrato soltanto la
compatibilità (più o meno alta) dello stesso con la medesima pistola e non
aveva, quindi, fornito un dato certo.

La sentenza impugnata individua un ulteriore indizio a carico di Porcelli anzi: lo menziona come il più importante – nella presenza dell’imputato alle
23’30 di quella notte nei pressi dell’azienda, dimostrata dai tabulati telefonici.
Si tratta con ogni evidenza di un travisamento delle prove cui non era
incorso il giudice di primo grado che, infatti, non aveva fatto alcuna menzione di
questo dato (la cui rilevanza – se dimostrata – era assai notevole): come
analiticamente dimostrato in ricorso, infatti, il telefono cellulare dell’imputato
aveva ricevuto una telefonata quella sera alle ore 23’23 mentre agganciava una
“cella” posizionata nella strada dove si trovava la sua abitazione; non, quindi,
una cella che “copriva” la zona in cui si trova l’azienda Femar.

Anche gli ulteriori indizi menzionati dalla sentenza di appello appaiono
inesistenti o, comunque, assai poco precisi.
La telefonata ricevuta da Porcelli alle ore 16’00 del 5/7/2006 dal telefono
fisso dell’azienda (dimostrata dai tabulati telefonici) costituisce un dato certo ma
privo di qualunque valore indiziante rispetto alla presenza dell’imputato alla
Femar otto ore dopo, mancando ogni notizia sul contenuto della conversazione.

L’annotazione del numero di Porcelli in un’agenda rinvenuta all’interno

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alcune considerazioni, senza però poterla escludere come impossibile, perché –

dell’azienda è circostanza priva di significato indiziante rispetto alla presenza di
Porcelli nella notte del 5/7/2006: per di più, in tale agenda (come emerge dalla
sentenza di primo grado) erano annotati nomi e numeri di telefono anche di altri
appartenenti alle Forze dell’Ordine.

Il fatto che Porcelli prestasse servizio di pattuglia con Rezza (quel
pomeriggio i due militari avevano terminato il servizio alle ore 18’00), a sua
volta, è privo di valore indiziante della presenza di uno o entrambi i carabinieri

altre persone, oltre che con altri colleghi, cosicché – trattandosi di attività dì
controllo svolta al di fuori dell’orario di servizio – l’essere componenti di una
pattuglia costituiva dato ininfluente rispetto alle condotte tenute come privati
cittadini.

La circostanza che il titolare della Femar avesse consegnato il telecomando
del cancello dell’azienda a Rezza non costituisce un indizio a carico di Porcelli:
non solo perché – ovviamente – Rezza avrebbe potuto agire durante la notte
insieme a persona diversa dal compagno di pattuglia, ma soprattutto perché
Rezza è stato assolto dalla Corte territoriale; cosicché, per ritenere la consegna a
Rezza iniziante rispetto alla posizione di Porcelli, era necessario ricorrere alla
congettura di una ulteriore consegna del telecomando da parte di Rezza a
Porcelli, di cui manca qualsiasi prova.

Infine, la mancanza di un alibi non costituisce un indizio: del resto,
l’imputato non l’ha proposto, limitandosi a sostenere di essere rimasto a casa a
vedere una partita di calcio, cosicché non può nemmeno parlarsi di alibi fallito e,
tanto meno, di un alibi falso.

4. In definitiva, anche prescindendo dagli elementi di prova favorevoli
all’imputato, logicamente evidenziati dalla difesa del ricorrente (ciò vale, in
particolare, per il tema della integrale sostituzione del caricatore dell’arma nei
giorni successivi al fatto), un’analisi oggettiva degli elementi di prova posti a
base della condanna dimostra che non sussistono plurimi indizi della presenza di
Porcelli nella notte tra il 5 e il 6 luglio 2006 presso la Femar e della sua
individuazione come uno degli sconosciuti che sparò, uccidendo Androne (si
ricordi: l’analisi prescinde dalla verifica dell’effettivo accadimento dei fatti narrati
dai testimoni rumeni), e che l’unico indizio (la presenza di un bossolo sparato
grave,

dalla sua pistola) non può considerarsi
alternativa plausibile (anche se improbabile).

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avendo una spiegazione

alla Femar sei ore dopo: i due imputati, ovviamente, avevano rapporti anche con

5. Per completezza, si deve osservare che la motivazione della sentenza
impugnata appare nettamente carente anche rispetto alle censure svolte
dall’appellante – oggi ricorrente – in ordine alla attendibilità dei testi rumeni e,
quindi, alla ricostruzione dell’evento dagli stessi narrato: in effetti, appaiono
tralasciate numerose circostanze, quali le testimonianze degli abitanti diversi da
quella espressamente menzionata che non avevano sentito gli spari, la
mancanza di ogni traccia del tentativo di furto, nonostante – a dire degli stessi fossero stati prodotti danneggiamenti che i responsabili dell’azienda non avevano

(sbrigativamente risolta dalla sentenza di appello, con motivazione assai poco
convincente alla luce di quanto il teste Stoian era in gado di osservare).

6. Gli artt. 192, comma 2 e 533 cod. proc. pen. imponevano, in questo
quadro probatorio, di assolvere l’imputato per insussistenza del fatto in
mancanza di prova della colpevolezza.
Si deve ricordare che, ai fini dell’applicazione della esatta formula di
assoluzione, il giudice deve innanzitutto stabilire se il “fatto” sussiste nei suoi
elementi obiettivi (condotta, evento, rapporto di causalità) e, solo in caso di
accertamento affermativo, può scendere all’esame degli altri elementi
(imputabilità, dolo, colpa, condizioni obiettive di punibilità, etc.) da cui è
condizionata la sussistenza del reato (Sez. 3, n. 28351 del 21/05/2013 – dep.
01/07/2013, F, Rv. 256674): cosicché, in mancanza di prova certa degli eventi e
della partecipazione ad essi dell’imputato, la formula che avrebbe dovuto essere
adottata – e che viene adottata in questa sede con la pronuncia di annullamento
senza rinvio – è che “il fatto non sussiste”.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

Così deciso il 4 luglio 2017

Il Consigliere estensore

)Giacomo Rocchi

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Il Presidente
Francesco Bonito

riscontrato, la questione del sanguinamento derivante dalle ferite della vittima

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