Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 53315 del 18/10/2016

Penale Sent. Sez. 4 Num. 53315 Anno 2016
Presidente: BIANCHI LUISA
Relatore: PEZZELLA VINCENZO

Data Udienza: 18/10/2016

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
A.A.
B.B.
C.C.
avverso la sentenza n. 1265/2014 CORTE APPELLO di GENOVA, del
14/10/2015
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 18/10/2016 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. VINCENZO PEZZELLA
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Ai do “PoeAlt o

RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello di Genova, pronunciando nei confronti delle odierne
ricorrenti A.A., B.B. e C.C., con sentenza del
14/10/2015 confermava la sentenza emessa in data 14/6/2013 dal Tribunale di
Massa che le aveva condannate, concesse a tutte le circostanze attenuanti generiche, alla pena di mesi otto di reclusione ciascuna, con pena sospesa e non menzione, con condanna in solido a risarcire il danno alle parti civili da liquidarsi in
separata sede e con una provvisionale di 200.000 euro a favore di F.F.

sciute colpevoli:
• del delitto di cui agli artt. 113 e 589 Co. 2 CP perché, con il concorso di più
condotte colpose tra loro indipendenti, nelle rispettive qualità, A.A. quale
medico ginecologo .di turno in servizio presso il reparto di Ginecologia ed Ostetricia
del Dipartimento Materno Infantile dell’Ospedale OPA di Massa, B.B.
e C.C. in qualità di ostetriche in servizio presso lo stesso reparto, per
colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia, e precisamente A.A.
omettendo di verificare l’andamento e sorvegliare il travaglio di parto di
F.F., ricoverata per induzione del travaglio eseguita il giorno
28/4/2009 presso il suddetto Reparto, nonché omettendo di assistere alle ultime
fasi del parto stesso (avvenuto in data 29/4 /2009 alle ore 1,50), C.C. e B.B., ostetriche presenti al travaglio di F.F.,
omettendo di accertarsi delle condizioni del feto mediante lettura dei tracciati della
cardiotocografia, non avvedendosi della progressiva sofferenza tissutale da ipossiemia intervenuta nelle ultime ore del travaglio e non comprendendo la grave
entità delle effettive condizioni del feto onde praticare la soluzione alternativa del
parto con taglio cesareo, cagionavano il decesso di P.P, avvenuto a
seguito delle gravissime lesioni multiorgano irreversibili provocate dall’acidosi metabolica conseguita alla predetta asfissia tissutale occorsa al neonato.
In Massa il 23/5 /2009 data della morte di P.P.

2. Avverso tale provvedimento hanno proposto ricorso per Cassazione, a
mezzo dei rispettivi difensori di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei
limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173,
comma 1, disp. att., cod. proc. pen.:

• A.A. (Avv. Andrea Corradino)
a. Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione agli
artt. 589 e 43, comma 3 c.p., nonché insufficienza, mancanza o contraddittorietà
della motivazione.

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Carla e di 200.000 euro a favore di P.A., oltre spese, perché ricono-

Il difensore ricorrente, ricordati i profili di colpa ascritti alla sua assistita, lamenta che la sentenza impugnata non abbia riconosciuto la dovuta rilevanza a un
elemento che a suo avviso occorreva analizzare con maggiore precisione, tanto
ai fini della prognosi ex ante circa la verificabilità dell’evento, quanto ai fini della
valutazione della sussistenza di profili di colpa in capo all’imputata, e cioè il ruolo
delle linee guida e l’esatta individuazione di quelle da prendere come riferimento

in subiecta materia.
Viene ricordato in ricorso che nel caso di specie era stato predisposto un mo-

tracciato cardiotocografico, e valutato dalla dottoressa A.A. (alle ore 21,45, alle
22.20 e alle 00.10), la quale, mentre era l’unico medico di turno nel reparto, provvedeva continuamente al controllo dei risultati del monitoraggio in esame tramite
comunicazione telefonica a mezzo cordless con le ostetriche incaricate, le quali,
ovviamente, avrebbero dovuto interpellarla direttamente nel caso in cui fosse
comparsa qualche anomalia in fase di travaglio.
Viene evidenziato che la ricorrente ebbe a controllare il tracciato alle 00.10 e,
in quel frangente, ad evidenziare correttamente le decelerazioni variabili, in presenza di buona variabilità, trattandole con il cambiamento di posizione della paziente, con evidenza successiva di miglioramento del tracciato medesimo. E perciò
ebbe a disporre una stretta osservazione, affidando la paziente alle due ostetriche,
con precisa disposizione di essere richiamata in caso di nuova comparsa di decelerazioni o di qualsiasi altra variazione del tracciato.
Il difensore ricorrente ricorda che in sentenza si legge che “la A.A. ha affermato di avere verificato un miglioramento dopo il cambiamento di posizione della
gestante e si è allontanata per ritornare solo quando è stata chiamata per l’espulsione. Ora di questo miglioramento non vi è segno nel tracciato, che invece continua a peggiorare, nel disinteresse delle ostetriche che continuano a valutarlo come
normale”. In realtà, invece, si sostiene che detto miglioramento ben si rileverebbe
dal tracciato in esame, segnatamente nel lasso di tempo intercorso proprio tra le
ore 00:08 e le ore 00:15. E l’aver affidato alle ostetriche la predetta sorveglianza,
disposta dall’odierna imputata, costituiva adesione pedissequa a quanto stabilito
non solo dalle linee guida sancite nel 2008 dal National Institute in Child Health
and Human Development (NICHD), ma anche dalle più vetuste “linee guida in
materia di sorveglianza fetale e materna del travaglio” delineate nel 2004 dall’agenzia Age.Na.S., Agenzia Nazionale per i Servizi sanitari regionali, prese – erroneamente, come si sostiene in ricorso- come riferimento dai giudici genovesi.
Nel corso del suindicato controllo, avvenuto alle ore 00:10, pertanto, secondo
la tesi del ricorrente, la A.A. si avvedeva di tre decelerazioni variabili, che la inducevano a classificare il tracciato cardiotocografico come “indeterminato” (una

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nitoraggio continuo, affidando alle due ostetriche, B.B. e C.C., il controllo del

terza categoria residuale rispetto ai consueti tracciato “normale” e “patologico/anormale”). Le decelerazioni variabili in corso di travaglio – si prosegue- derivano dalla compressione del funicolo durante la contrazione e sono favorite dalla
presenza di oligoanidramniosi (nel caso di specie era avvenuta la rottura del sacco
amniotico). Come evidenziato dallo stesso medico, si tratta, dunque, di anomalie
frequenti nel 25-30% dei travagli, che, lungi dal rappresentare un’emergenza cardiotocografica, costituiscono soltanto un modesto segnale di ipossia transitoria,
tollerabile da un feto sano a termine per alcune ore.

zioni all’ostetrica C.C., nonché all’ostetrica B.B., insistendo sul fatto che l’osservazione attenta e costante dovesse proseguire senza soluzione di continuità.
Ma la vigilanza sull’andamento del tracciato spettava alle ostetriche, le quali, per
la professione che esercitano, hanno la preparazione e la competenza specifiche
per lo svolgimento di tale compito.
La tesi sostenuta, in altri termini, è e che alle 0:10 quando controllò personalmente il tracciato, la ginecologa fece quanto necessario, cioè dispose il cambiamento di posizione della paziente, verificò che c’era stato un miglioramento e
diede incarico alle ostetriche di continuare il monitoraggio e di avvisarla qualora vi
fossero ulteriori anomalie.
Viene rimarcato in ricorso che l’individuazione del discrimen tra la salute o
meno del feto, è la “variabilità” come evidenziato dalla consulente Di Tommaso. E
perciò, stante la presenza in quella circostanza di una buona variabilità e stante
anche l’immediata normalizzazione del tracciato in seguito al cambiamento di posizione della paziente, in presenza di una normale progressione del primo stadio
di travaglio, veniva affidata la stretta osservazione del tracciato alle due ostetriche
affinché si ponesse in essere una rivalutazione immediata dello stesso in caso di
necessità ovvero periodicamente (ogni uno o due ore) secondo la prassi comune.
Pertanto, contrariamente a quanto sancito in sentenza, ad avviso del difensore ricorrente non vi sarebbe stato alcun attendismo da parte della ricorrente.
All’ultimo controllo della ginecologa, in altri termini non vi sarebbero stati segnali
di emergenza, mentre dovevano essere le ostetriche che avrebbero dovuto chiamarla, almeno alle 00.40. Oltre a ciò – si sottolinea- nel lasso di tempo intercorso
tra le 00.20 e 1″1.30, l’ostetrica B.B. trascendeva apertamente i propri compiti
professionali e si sostituiva a quelli precipui del medico, in totale assenza di qualche autorizzazione, decidendo di propria esclusiva iniziativa di somministrata alla
paziente l’ossitocina. In proposito viene segnato in ricorso che già in passato la
B.B. era stata protagonista di un caso analogo. Dall’assunzione di ossitocina derivava la presenza di tachisistolia, la quale si verifica nel caso in cui il numero di
contrazioni uterine risulti maggiore di cinque per ogni unità di tempo di 10 minuti.
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La A.A. – si rileva ancora in ricorso- provvedeva ad impartire precise istru-

Conseguenza della tachisistolia era, quindi, l’ipossia tissutale, la quale, non essendo stati posti in essere i rimedi necessari, sfociava in acidosi metabolica, che a
sua volta determinava gravi ed irreparabili danni al sistema nervoso del nascituro.
Si contesta in proposito l’asserzione nella sentenza impugnata circa il fatto che la
presenza di tachisistolia non possa attribuirsi in via esclusiva all’ossitocina, potendo essere stata determinata da molte cause, ivi compresi i farmaci per l’assunzione al travaglio.
Viene ricordato in ricorso che soltanto all’1:40 la ginecologa A.A.venne con-

sione in cui le venne comunicato che la paziente stava partorendo. Pertanto il
medico veniva contattato solo in avanzata fase espulsiva, momento in cui immediatamente si recò presso la sala parto. E in quel frangente, rintracciata la causa
della tachisistolia e avuto conferma dell’avvenuta somministrazione di ossitocina,
impartiva l’ordine di interrompere tale somministrazione e proseguiva l’assistenza
al parto. A111:50 nasceva P.P in arresto cardiorespiratorio, con indice
di Apgar pari a zero.
In ricorso viene più volte ribadito il concetto che, proprio sulla scorta delle
linee guida indicate dai giudici del secondo grado, emergerebbe con chiarezza che
alle ostetriche spettava segnatamente non solo il compito di seguire, ma anche
quello di valutare il costante monitoraggio cardiaco, con il dovere professionale di
avvertire il medico specialista di turno qualora avessero notato elementi di alterazione. Si ribadisce che la situazione non era preoccupante alle ore 00.10 e in tal
senso che la locuzione “situazione sicuramente difficile” riferita allo stato del travaglio a quell’ora risulterebbe oltremodo fuorviante. Si sostiene che solo più tardi,
dalla lettura dei tracciati, le ostetriche si sarebbero dovute accorgere del peggiorare della situazione. Non si comprenderebbe quindi come possa rimproverarsi alla
ginecologa imperizia per non aver saputo leggere dei tracciati che si assume stavano divenendo allarmanti. Si contesta anche che la compilazione del partogramma potesse essere visionata dall’odierna ricorrente poiché successiva alle
00.10, orario in cui è avvenuta la lettura del tracciato che, viene più volte ripetuto
in ricorso, risultava in quel momento indeterminato e non patologico.
La tesi sostenuta nel ricorso nell’interesse della ginecologa A.A., richiamando
anche la giurisprudenza di questa Corte di legittimità, è che l’unica responsabilità
penale ravvisabile nel caso che ci occupa sia quella ascrivibile alle ostetriche, per
le medesime ragioni già sostenute dai giudici dell’appello.
Dopo avere operato un’ampia dissertazione sul ruolo delle linee guida e sulla
differenza rispetto ai protocolli, richiamando conferentemente i precedenti costituiti dalle sentenze 35922/2012, laddove si afferma che l’adeguamento o meno
del medico alle linee guida non esclude né determina automaticamente la colpa,

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tattata telefonicamente dalla sala travaglio, dato corroborato in sentenza, occa-

giacché discostarsi o conformarsi alle linee guida integra una scelta del medico
che il giudice reputa di per sé sola insufficiente per pervenire a un verdetto di
esonero o di affermazione di responsabilità e la successiva 16237/2013 secondo
cui esse non costituiscono uno strumento di precostituita ed ontologica affidabilità.
Il difensore ricorrente afferma che anche volendo, per il momento, seguire
l’ipotesi erroneamente convalidata in sentenza, che individua le linee guida
dell’Age.Na.S. come quelle di riferimento nella materia de qua, trattandosi di mere
raccomandazioni di comportamento clinico, che non obbligano gli operatori sani-

guendole, ove necessario, con la giusta successione cronologica, nonché con la
corretta contestualizzazione.
Si sottolinea che, nel caso di specie, correttamente la dott.ssa A.A., in seguito
all’osservazione dalla stessa posta in essere, valutava l’effetto nel tempo della
prima manovra conservativa, coincidente con il cambio di posizione, omettendo di
procedere immediatamente ad un taglio cesareo o alla differente manovra, particolarmente invasiva, dell’amnioinfusione.
Se, come si può dedurre dalla citata pronuncia 16237/2013, la rilevanza giuridica delle linee guida – seppur esse continuino a costituire raccomandazioni di
comportamento clinico – risulta quantomeno rafforzato dopo l’intervento della
legge Balduzzi, è doveroso per il ricorrente mettere in luce che, qualora si volesse
far assumere loro un valore di “parametro di giudizio”, l’esatta individuazione delle
specifiche linee guida cui l’operatore sanitario deve attenersi rappresenterebbe
necessariamente un passaggio fondamentale. Si sottolinea, peraltro, come sia
noto che tale individuazione spesso costituisce un’operazione tutt’altro che agevole, anche perché la L. 189/12 si riferisce alle “linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica “, omettendo di offrire alcun criterio di determinazione delle stesse.
Secondo il difensore ricorrente si riscontrerebbero sul punto una serie di inesattezze nella sentenza oggetto del presente ricorso, posto che in essa non si registrerebbe il mutamento delle linee guida di riferimento di pari passo con l’evoluzione scientifica della materia. Trattasi – si aggiunge- di un profilo di notevole
rilevanza sotto molteplici sfaccettature, prima fra tutte un’evidente discrepanza in
relazione al giudizio di pericolosità del tracciato cardiotocografico, valutato in maniera differente a seconda delle linee guida che si intende seguire. Infatti, secondo
quelle sul monitoraggio fetale elettronico pubblicate sul numero 106 del luglio
2009 del Practice Bulletin dell’ACOG (American College of Obstetricians and Gynecologists), contenenti le definizioni del monitoraggio fetale e il sistema di interpretazione e classificazione del tracciato cardiotocografico elaborate nel 2008 dal
NICHD (National Institute of Child Health and Human Development), il tracciato

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tari a seguirle come protocolli, bensì ad adattarle al concreto contesto clinico, ese-

registrato nel corso del travaglio alle ore 00:10 risulterebbe classificabile come
“indeterminato” (categoria II) e non come “anormale” (categoria III). E tale assunto non risulterebbe privo di conseguenze, poiché, in presenza di un tracciato
indeterminato, l’unico suggerimento impartito dalle leges artis al medico è quello
di eseguire alcune manovre di cambiamento della posizione materna, come effettivamente e correttamente posto in essere dalla dott.ssa A.A.. Si tratterebbe prosegue il ricorso- delle più recenti – con riferimento all’epoca dei fatti – dottrine
medico-scientifiche accreditate dalla comunità scientifica internazionale, e ciò a

all”assistenza alla gravidanza e al parto fisiologico” redatte nel 2004 dall’Age.Na.S.
(Agenzia Nazionale per i Servizi sanitari regionali). Sulla scorta di queste maggiormente vetuste guidelines, il tracciato in questione sarebbe potuto essere classificabile come “patologico”.
Si segnala che le guidelines del NICHD, nell’alveo di quelle accreditate dalla
comunità scientifica, costituivano la maggior scienza ed esperienza praticabile
all’epoca dei fatti, introducendo, peraltro, il concetto di previsione dell’acidemia
fetale basandosi sulla presenza di variabilità, elemento che, insieme a molti altri,
hanno determinato un largo seguito delle medesime non solo negli Stati Uniti, ma
anche in Italia. Poco conterebbe, quindi, secondo il ricorrente, la circostanza in
base alla quale le linee guida dell’Age Na S non risultino formalmente ritirate o
revocate – nonostante, a far data dal 14.1.2016, risulti oscurata la pagina del sito
internet dell’Age Na S riportante le linee guida de quibus -, posto che evidentemente esse non costituiscono – e non costituivano già nel 2009 – il più recente
approdo della comunità scientifica internazionale, dato corroborato, poi, dalla pubblicazione di quelle più recenti, l’anno seguente alla loro redazione, sull’autorevole
Practice Bulletin dell’American College of Obstetncians and Gynecologists.
Peraltro, la Corte territoriale, allo scopo di verificare se nel 2009 veniva impiegata la citata classificazione del NICHD, provvedeva all’escussione testimoniale
dell’allora responsabile del servizio del nosocomio di Massa, Paolo Migliorini, il
quale confermava che I’OPA, in una riunione dipartimentale del 2008, aveva effettivamente recepito le linee guida in esame contenenti le definizioni del monitoraggio fetale e il sistema di interpretazione e classificazione del tracciato cardiotocografico
In ogni caso, è opportuno sottolineare secondo il difensore ricorrente che,
all’epoca dei fatti, non era in uso presso il nosocomio massese un protocollo di
comportamento in presenza di tracciati indeterminati e, in tali circostanze, si rinviava a quanto stabilito dalle raccomandazioni redatte dal NICHD. Inoltre, già nei
2006, tutti gli operatori erano stati sottoposti ad una formazione obbligatoria sulla

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differenza delle differenti linee guida impiegate dai giudici dell’appello, relative

L,

lettura del tracciato, con la quale gli era stato chiaramente indicato di seguire gli
aggiornamenti della materia, trattandosi di una branca in continua evoluzione.
Quanto fin qui detto assume, secondo la tesi sostenuta in ricorso, una rilevanza notevole nel caso di specie, poiché, sulla scorta del principio in base al quale
il medico non ha altra indicazione di quali linee guida utilizzare nello svolgimento
della propria attività se non quella di impiegare quelle avvalorate dalla comunità
scientifica e maggiormente aggiornate in materia – seguendo, così, con la doverosa
attenzione, l’evoluzione della scienza in un dato settore – correttamente la gine-

comandazioni redatte nel 2008 dal NICHD.
In conclusione di quanto fin qui detto, definito il rango delle linee guida in
esame e circoscritto il loro ruolo nell’ambito della responsabilità penale colposa, la
tesi sostenuta è quella che, contrariamente a quanto asserito nella pronuncia oggetto d’impugnazione, l’odierna imputata si sarebbe attenuta scrupolosamente alle

leges artis.
Con un secondo motivo si deduce poi, sotto il duplice profilo della violazione
di legge e del vizio motivazionale, che l’impugnata pronuncia non sarebbe corretta
laddove vi è stato il mancato riconoscimento dell’esimente di cui all’articolo 3,
comma 1, della legge 189 del 2012.
Da quanto illustrato nel precedente motivo, emergerebbe con tutta evidenza,
secondo il difensore ricorrente, come la dott.ssa A.A.risulterebbe essersi attenuta
scrupolosamente alle linee guida.
Viene ricordato l’arresto giurisprudenziale di questa Corte di legittimità costituito dalla pronuncia 19354/2007, precedente alla legge Balduzzi, secondo cui può
accadere che la terapia si concluda con esito infausto nonostante la perfetta adesione del curante alle linee guida di riferimento, ma laddove non emergano aspetti
peculiari del caso concreto che avrebbero richiesto una condotta alternativa a
quella suggerita dalle linee guida, il comportamento ad esse conforme tenuto dal
medico non può essere giudicato colposo. Questa, quindi, era la posizione della
giurisprudenza già prima dell’entrata in vigore dell’art. 3 L. 189/12, norma che
prevede testualmente che l’esercente la professione sanitaria che si è attenuto alle
linee guida e alle best practices accreditate dalla comunità scientifiche risponda
penalmente solo per colpa non lieve.
Richiamato nuovamente il dictum della sentenza Cantore, per il ricorrente è
evidente che, seppur l’odierna imputata si sia scrupolosamente attenuta alle linee
guida più volte citate nel corso del presente ricorso, volendo, comunque, seguire
l’ipotesi erroneamente convalidata nella sentenza impugnata, non possa essere
mosso alla dott.ssa A.A.alcun rimprovero per comportamenti caratterizzati da
colpa grave. Tutt’al più, sempre volendo seguire l’ipotesi avanzata nella pronuncia
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cologa A.A. si atteneva scrupolosamente a quanto suggerito all’interno delle rac-

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oggetto del presente ricorso, il comportamento posto in essere dall’imputata potrebbe essere individuato come rilevante esclusivamente nell’ambito di una colpa
lieve, allo stato depenalizzata dall’intervento del decreto Balduzzi.
Si ricorda, infatti, che, com’è certamente noto, avendo rilevanza penale, ai
sensi della L 189/12, esclusivamente la colpa grave, si deve intendere quel comportamento che si discosti macroscopicamente dalle linee guida, in maniera immediatamente riconoscibile da qualunque altro sanitario in luogo del soggetto imputato (nella sentenza Cantore si legge testualmente che «si potrà ragionevolmente parlare di colpa grave solo quando si sia in presenza di una deviazione

ragguardevole rispetto all’agire appropriato definito dalle standardizzate regole
d’azione»).
Si rileva, quindi, in conclusione, in ricorso che la dott.ssa A.A. seguiva pedissequamente le guidelines scientificamente accreditate in subiecta materia. Ciò in
quanto, alla luce di quanto disciplinato dai “criteri di sorveglianza fetale e materna
del travaglio, modalità di assistenza del travaglio e del parto”, non risulta essere
prescritto a carico del medico un obbligo di sorveglianza diretto. Le uniche indicazioni riguardanti i fattori di rischio sono quelle relative alla prescrizione del necessario monitoraggio cardiotocografico continuo, regolarmente posto in essere nel
caso de quo.
Anche su tali questioni, dunque, la motivazione della pronuncia oggetto d’impugnazione appare illogica, insufficiente, contraddittoria, nonché carente, ai limiti
della mancanza.
Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.

• B.B. (personalmente)
La ricorrente deduce manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione,
travisamento del fatto ed erronea applicazione della legge penale in ordine alla
rilevanza della condotta, nonché insussistenza del nesso causale.
Viene evidenziato che a pag. 8 della sentenza impugnata si legge che le molte
contraddizioni impediscono di capire quali fossero le prassi all’ospedale di Massa
in materia, ma il partogramma acquisito attesta che alle 24:00 e alle 1:00, le due
ostetriche imputate hanno sottoscritto una valutazione del tracciato cardiotocografico con il segno 0, corrispondente ad una valutazione di normalità secondo
Boylan e, nel linguaggio convenzionale affermato dal teste, alla valutazione altrettanto normale tranquillizzante di 1 secondo la nuova classificazione. Ebbene-ci si
duole-la responsabilità della B.B. verrebbe desunta solamente sulla base di una
valutazione data su di un modulo riportante addirittura una modalità di classificazione diversa da quella che era necessario utilizzare. Come emerso dalla ulteriore
istruttoria espletata, le modalità di protocollo adottate dalla struttura ospedaliera
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ì

massese non era in linea con i principi più moderni e le stesse valutazioni non
erano corrette, dovendosi intendere in modo diverso da quello indicato nei moduli
prestampati e correttamente riportato nella sentenza impugnata. Pertanto le risultante del cartaceo sul punto, tenuto anche conto che la C.C. era un’ostetrica
inesperta appena assunta, dovrebbero essere oggetto di valutazione anche alla
luce di quanto emerso in istruttoria laddove viene indicato più volte della chiamata
delle ostetriche del medico, della presenza di questo nel momento in cui i tracciati
si palesavano irregolari e delle rassicurazioni della ginecologa, la quale aveva

novre conservative di competenza medica.
Nel corso del dibattimento – si evidenzia ancora in ricorso- le varie testimonianze rese avrebbero dimostrato che la C.C. aveva richiamato l’attenzione del
medico negli orari in cui la perizia disposta ha accertato essersi manifestata una
difficoltà del feto a causa della ipossia in atto.
Ci si duole che i testi avessero riferito correttamente di tali chiamate e che su
tali circostanze i giudici di merito abbiano ritenuto, invece, di non dare loro credito
privilegiando il dato del documento cartaceo prestampato. Sarebbe risultato, invece, che quella sera le ostetriche, dopo avere ricevuto la visita del medico ed
essere state rassicurate sull’andamento del parto intorno alle 00:20 (allorquando
come assume la perizia il tracciato già assumeva caratteristiche di irregolarità e di
allarme), successivamente, preoccupate della situazione, in completa assenza del
medico, abbiano chiamato lo stesso ma questi si sia presentato soltanto intorno
all’1:00, quando la situazione era peggiorata, non disponendo alcuna misura di
salvezza del nascituro. Sul punto vengono richiamate le testimonianze delle testi
Giannetti e Guadagni rispetto alle quali si denuncia un travisamento del fatto di
importanza fondamentale perché, a differenza di quanto si sostiene in sentenza,
le ostetriche hanno letto il tracciato che presentava degli elementi di rischio e
hanno avvisato il medico.
La presenza del medico – continua il ricorso- ha certamente rassicurato le due
ostetriche che nulla potevano disporre in assenza di indicazioni. Il punto nodale è
dunque se tra la non contestata visita delle 00.10 e il momento del parto vi siano
state queste sollecitazione al medico e se lo stesso sia intervenuto.
Con un secondo motivo di doglianza si deduce manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione, oltre a travisamento del fatto ed omessa valutazione
del principio dell’affidamento.
La tesi sostenuta, detto del ruolo delle ostetriche, è che le stesse sarebbero
state tranquillizzate circa l’esame dei tracciati dalla presenza della ginecologa. Il
fatto che la stessa alle 00:20 fosse in sala parto e che il tracciato presentasse

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modo di leggere tracciati, valutare la paziente, non disponendo minimamente ma-

elementi di criticità sarebbe una chiara evidenza del comportamento delle ostetriche, le quali si sostiene abbiano ricevuto notizie confortanti dal medico, il quale si
sarebbe poi allontanato, con ciò dando l’affidamento che la situazione non appariva
compromessa e che non vi erano segnali di allarme. Vengono ricordati i principi in
materia di affidamento e come la posizione apicale gerarchicamente sovraordinata
di un sanitario rispetto agli altri determini un ragionevole affidamento del personale ostetrico.
Si ribadisce che le ostetriche, contrariamente a quanto affermato in sentenza,

rivestiva un ruolo primario, cioè dalla ginecologa.
La ricorrente B.B. chiede pertanto annullarsi la sentenza di condanna, ivi
comprese anche le statuizioni civili, con ogni consequenziale provvedimento.

• C.C.(Avv, Anita Liporace e Avv. Alberto Caselli Lapeschi)
Con un primo motivo di ricorso i difensori della ricorrente deducono vizio motivazionale in punto di reato omissivo e di nesso di causalità, nonché mancata
prospettazione motivazione del giudizio controfattuale e della sussistenza del
nesso causale tra la condotta della giovane ostetrica C.C. e l’evento morte.
Viene ricordato che la ricorrente all’epoca dei fatti, nell’aprile 2009, era in
servizio da poco più di 20 giorni presso il reparto di ostetricia e ginecologia dell’ospedale di Massa. Ebbene, si sostiene che pietra angolare di tutto il processo dovrebbe essere costituita dall’affermazione che si legge in sentenza secondo cui,
poco più tardi della mezzanotte, quando ci fu la visita della partoriente, il tracciato
registrato, secondo le linee guida allora vigenti e successive, a causa delle gravi
decelerazioni variabili atipiche molto profonde, imponeva il taglio cesareo, vista
l’impraticabilità nella struttura ospedaliera delle manovre risuscitatore (amnioinfusione) e di altri esami (prelievo dello scalpo fetale) e comunque non giustificava
la scelta attendista fatta dalla A.A.. In altri termini, la sentenza colloca a mezzanotte il momento clou in cui si sarebbe determinato il nesso causale tra la condotta
omissiva e l’evento morte, per cui sarebbe contraddittorio, poi, di ferirlo all’una,
in relazione alla specifica posizione delle ostetriche. Sul punto si sostiene in ricorso
che valutare il nesso causale in relazione alla condotta tenuta dalla giovane ostetrica C.C. prendendo come riferimento l’una di notte sarebbe erroneo, perché
è a mezzanotte che il medico avrebbe potuto e dovuto intervenire utilmente impedendo l’evento morte.
Viene ricordato che il perito d’ufficio aveva correttamente indicato quello che
era il momento clou questa tragica vicenda; momento individuato senza dubbio
nel momento in cui, nel corso del travaglio della signora F.F., tra le ore 23,56

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non avrebbero sottovalutate i tracciati, ma avrebbero avuto rassicurazione da chi

e le 0,29, vi erano state “almeno 8 decelerazioni molto incise, di cui quella delle
00,04 bifasica e/o con ricupero tardivo, quella delle 00,15 senza accelerazione
iniziale, quella delle 00,20 senza accelerazione iniziale e finale, quella delle ore
00,22 senza accelerazione iniziale, e quindi atipiche” (…) e che “Il feto avrebbe
dovuto essere estratto già prima, vale adire al presentarsi della serie di 8 decelerazioni gravi e quindi al più tardi alle 0,29” si presentava la scelta “obbligata di un
taglio cesareo urgente” (viene richiamato sul punto l’elaborato dei periti Prof. Bertorello e Dott.ssa Chen, pp. 24-25). Viene ancora ricordato che, durante l’esame,

relazione alla necessità di eseguire il parto cesareo in tale situazione, che: “a mezzanotte era una questione di buon senso clinico, a mezzanotte e un quarto, mezzanotte e venti era obbligatorio (…)”.
Per cui, ad avviso dei difensori ricorrenti, alla 1:00 è solo post factum.
Ci si duole che alla stessa conclusione (il richiamo è a pag. 6 della sentenza
impugnata) sembra giungere – in prima battuta – anche la Corte territoriale, laddove afferma che: “il tracciato registrato intorno alla mezzanotte ( ) secondo le
linee guida allora vigenti e successive, a causa delle gravi decelerazioni variabili
atipiche “molto profonde “imponeva il taglio cesareo”. Da tale affermazione, in sé
corretta, tuttavia, i giudici del gravame del merito non farebbero, però, discendere
corrette e coerenti conseguenze circa la valutazione del nesso causale e, soprattutto non si sarebbe tenuto conto correttamente della circostanza incontrovertibile
mente emersa, secondo cui il medico sarebbe intervenuto in sala parto intorno a
mezzanotte e un quarto-mezzanotte e venti e vi si sarebbe trattenuta per dieci
minuti-un quarto d’ora, dopo cui, visionato il tracciato, si sarebbe poi allontanata
con l’unica raccomandazione di continuare la sorveglianza. Orbene secondo i difensori ricorrenti, pur non volendo considerare che a fronte di un tracciato problematico il medico avrebbe avuto una condotta imprudente e negligente affidando
la sorveglianza dello stesso alle ostetriche, sarebbe innegabile che la sorte del feto
sia stata comunque segnata inesorabilmente proprio dal comportamento attendista del medico.
Ciò che è avvenuto dopo questo momento dovrebbe evidentemente considerarsi un semplice post factum, non rivestendo dunque la condotta delle ostetrichecome peraltro affermato anche dal perito d’ufficio-un ruolo causale rispetto all’evento prodottosi. Peraltro deporrebbe verso tale conclusione la circostanza che la
stessa ginecologa, sentita in dibattimento, avrebbe continuato ad affermare, in ciò
confermando la tesi sostenuta alle ostetriche che ancora alle 00:40 non vi era un
tracciato patologico, ma si era di fronte ad un tracciato “indeterminato” e che le
anomalie si presentarono ail’1:00- 1:10, a fronte invece di quello che affermano i

12

all’udienza del 16 aprile 2013, il perito, prof. Bertorello, ha altresì precisato, in

periti che già all’1:05 la situazione era gravissima ed irreversibile dal punto di vista
del dato danno cerebrale.
Con un secondo motivo di ricorso vengono dedotti cumulativamente violazione di legge e vizio motivazionale ritenendo i difensori della ricorrente C.C.
che nel caso che ci occupa manchi la colpa sotto molteplici aspetti, e in particolare
laddove: 1. la sentenza configura una grave imperizia della giovane ostetrica C.C. nel non aver valutato il tracciato, considerazione che non sarebbe agganciata
alle risultanze istruttorie; 2. la Corte territoriale ritiene che la giovane ostetrica

ciata alle risultanze istruttorie; 3. si riconosce la posizione ancillare e subalterna
nel ruolo della giovane ostetrica C.C., senza dedurne l’esclusione della responsabilità penale per colpa; 4. in violazione del giudizio di rimproverabilità, la sentenza omette di considerare la non prevedibilità ed evitabilità dell’evento in capo
alla giovane ostetrica C.C..
In particolare, si sostiene che il provvedimento impugnato parlerebbe di una
omessa valutazione del tracciato da parte delle ostetriche mentre vi sarebbero agli
atti tutta una serie di dati che dimostrerebbero come l’imputata C.C. si sia effettivamente preoccupata del tracciato della partoriente, trovando però davanti a
sé un muro di gomma.
Si evidenzia che, già a partire dalla mezzanotte, le ostetriche, e segnatamente
la ricorrente, si erano accorte delle anomalie del tracciato, segnalate alla ginecologa, unitamente al fatto che il liquido era scarso. E che, a fronte di tale segnalazione, il medico era salito in sala parto e aveva confermato che erano presenti
decelerazioni, però con una buona variabilità, rassicurando le ostetriche. È stato
lo stesso medico – si sostiene- a riconoscere che le ostetriche avevano messo in
pratica già prima del suo arrivo manovre conservative, consistenti nel cambio della
posizione delle paziente, che si trovava in piedi, Ciò a conferma che le ostetriche,
già intorno a mezzanotte, nei limiti delle proprie conoscenze e competenze, avevano fatto quello che autonomamente potevano.
A fronte di ciò c’era stata però da parte della ginecologa la sola indicazione di
una sorveglianza continua, ma -si aggiunge- intorno all’1:00 la C.C. chiamava
nuovamente il medico, per la presenza di decelerazioni, e tale circostanza-si rilevaviene confermata anche dalla B.B., la quale, assentatasi per andare in bagno,
veniva informata dalla C.C. del passaggio della A.A. verso 1’1:00 e, anche in
questa circostanza, il medico, visionato il tracciato, diceva che andava bene e che
bastava tenere comunque sotto osservazione il tracciato di continuo. Del resto lo
stesso medico ha affermato che a suo parere soltanto all’1:10 le decelerazioni
erano diventavate preoccupanti

13

C.C. non abbia chiamato il medico, anche questa considerazione non aggan-

Viene contestata la motivazione del provvedimento impugnato laddove la
Corte territoriale dà conto di non avere creduto alla circostanza che la ginecologa
fosse stata avvisata all’una, affermando tale circostanza essere incompatibile con
la valutazione sottoscritta dalla ostetrica alla medesima ora, allorquando valutava
O il tracciato. Si legge, infatti, a pag. 12 della sentenza impugnata, che se la C.C.avesse veramente chiamato il medico, sospettando anomalie del tracciato,
non lo avrebbe giudicato contestualmente rassicurante. Ma -si deduce- la dinamica
della compilazione del partogramma sarebbe la stessa sia a mezzanotte che

loga. Si evidenzia sul punto che, del resto, è stato lo stesso perito d’ufficio a confermare che, trovandosi incontestabilmente il medico intorno a mezzanotte in sala
parto, in presenza di un tracciato già con determinate caratteristiche ed avendo il
medico dato una linea, era difficile che il personale sanitario subordinato potesse
scavalcarne l’orientamento. Non sarebbe stato quindi il medico -come scrive la
corte di appello – ad avere condiviso il giudizio tranquillizzante espresso da entrambe le ostetriche, che ancora all’una valutavano il tracciato con la sigla O, ma
esattamente il contrario, sarebbero state, cioè, le ostetriche ad essersi attenute
alle valutazioni del medico. Non sarebbe stata correttamente valutata in sentenza,
in altri termini, la posizione subalterna delle ostetriche rispetto alla ginecologa.
Parimenti non sarebbe stato correttamente valutato che la ricorrente era in
servizio presso quel reparto da poco più di venti giorni (ed aveva assistito a poco
più di dieci parti), che svolgeva l’attività di ostetrica da meno di cinque mesi e che
perciò non fosse in condizione di poter prevedere l’evento in concreto verificatosi,
specie dopo aver ricevuto rassicurazioni dalla ginecologa e dalla collega più
esperta. In tale prospettiva decisiva apparirebbe la circostanza che la B.B. (di
gran lunga più esperta della C.C., vantando un esercizio ultratrentennale della
professione di ostetrica), sentita in dibattimento, abbia ribadito che sebbene
avesse notato delle decelerazioni, non si era preoccupata più di tanto. E ancora
più rilevante sarebbe quanto dichiarato dalla ginecologa, secondo la quale addirittura dopo 1’1:20, avendo il tracciato riacquistato variabilità, al di là di manovre
conservative di osservazione la situazione non necessitava di altro.
Anche i difensori della C.C. chiedono, pertanto, in accoglimento dei proposti motivi di annullarsi la sentenza impugnata.
Successivamente i medesimi difensori della C.C. hanno presentato una
memoria ai sensi degli articoli 121 e 614 del codice di procedura penale tesa a
contrastare le affermazioni contenute nel ricorso della coimputata A.A. laddove si
attarda a ritenere responsabili del fatto le sole ostetriche che avrebbero dovuto
interpellarla direttamente – e non l’avrebbero fatto- nel caso in cui fosse comparsa
qualche anomalia.
14

all’una, cioè si indicava zero proprio sulla scorta delle rassicurazioni della gineco-

Si ribadisce che, per dirla con le parole del perito del tribunale, tra le 00:00 e
le 00:20 la ginecologa avrebbe dovuto effettuare il parto cesareo.
Quanto al fatto introdotto sempre la difesa della ginecologa della introduzione
di ossitocina da parte dell’ostetrica B.B., viene evidenziato che l’ossitocina non
ha mai fatto ingresso in questo processo e non è stata oggetto di contestazione in
quanto non sono emerse prove del suo utilizzo che peraltro non è stato mai contestato da parte della stessa A.A. al momento dei fatti.
Se fosse stata usata ossitocina – si sottolinea- il medico ne avrebbe certa-

rato, e comunque avrebbe certamente informato il primario anche allo scopo di
ottenere l’avvio di un procedimento disciplinare a carico della responsabile. Invece
niente di tutto questo sarebbe avvenuto. Tra l’altro, viene evidenziato che anche
se la tachisistolia fosse da ritenersi conseguenza diretta ed immediata della somministrazione di ossitocina da parte della B.B., sarebbe evidente che nessun profilo di responsabilità colposa potrebbe essere ascritto alla C.C.. Inoltre se la
tachisistolia conseguente all’infusione si sarebbe manifestata secondo la ginecologa dopo 1’1:20 perché la C.C. avrebbe dovuto chiamarla alle 00.40. La verità,
perciò, sarebbe un’altra e cioè che già a mezzanotte appariva necessario il taglio
cesareo, punto su cui viene ampiamente e nuovamente richiamata la perizia di
ufficio.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Tutti i motivi sopra illustrati appaiono infondati e, pertanto, i proposti ricorso vanno rigettati.

2. Preliminare appare la considerazione che tutti i ricorsi sono ripropositivi
delle contrapposte argomentazioni che hanno costituito il fulcro delle linee difensive dinanzi ai giudici di merito, ma concretamente non si confrontano con la motivazione della sentenza impugnata. Ma vi è di più. Ciascuno dei ricorrenti dà per
assunte circostanze o non provate oppure argomentatamente escluse dai giudici
di merito.
Così, quanto alla ginecologa A.A., viene introdotto il tema della somministrazione dell’ossitocina alla partoriente di cui la Corte territoriale dà atto non esserci
alcuna prova (cfr. pag. 2 del provvedimento impugnato, ove si fa proprio peraltro,
condividendolo, il giudizio di irrilevanza sul punto operato dal primo giudice). I
giudici del gravava del merito rilevano a pagina 12 della sentenza impugnata che
sicuramente diverse deposizioni raccolte fanno sospettare che la B.B. al momento dell’espulsione stesse maneggiando la pompa dell’ossitocina, ma non vi è

15

mente fatto menzione in cartella clinica, anche al fine di difendere il proprio ope-

alcuna prova che la stessa usando, avendola forse preparata in vista della necessità di usarla per agevolare la parte finale del parto. Peraltro, viene evidenziato
come la presenza di tachisistolia non può attribuirsi in via esclusiva all’ossitocina,
potendo essere stata determinata da molte cause, ivi compresi i farmaci per l’induzione del travaglio, che hanno questo effetto collaterale, così come può prodursi
spontaneamente, in assenza di cause tipiche come hanno confermato i periti di
ufficio. La Corte territoriale rileva che il giudice di primo grado ha congruamente
argomentato sul punto, dimostrando non solo l’assenza di ogni prova della som-

accuse della A.A. con la sua stessa condotta, non avendo la ginecologa annotato
il fatto sulla cartella clinica. Il che fa pensare che abbia visto la B.B. preparare la
pompa, ma non somministrare il farmaco, perché, altrimenti, visto l’esito del
parto, anche per cautelarsi, avrebbe annotato sulla cartella clinica tale circostanza.
Già il giudice di primo grado, peraltro, aveva rilevato che, benché la A.A.
avesse sostenuto e continui a sostenere che, non appena entrata in sala travaglio
durante il periodo espulsivo del feto, aveva subito ordinato l’interruzione dell’ossitocina, le testi Bertelloni, Salvetti, Rapelli e Guadagni (tutte in servizio la notte del
fatto) hanno riferito di non ricordare di aver sentito parlare di questioni relative ad
una eventuale somministrazione di ossitocina. Peraltro non vi era nessuna ragione
perché venisse somministrata dell’ossitocina: il parto era già stato indotto farmacologicamente con una doppia somministrazione di prostaglandine e l’attività uterina aveva già raggiunto un’intensità sufficiente (sul punto sono state richiamate
nella sentenza impugnata la relazione e le dichiarazioni dei periti), per cui non vi
era motivo perché un’ostetrica esperta come la B.B. decidesse di intervenire ulteriormente con la somministrazione di ossitocina.
Analogamente, secondo quanto emerge dalla motivazione dei giudici del merito, nella loro doppia conforme affermazione di responsabilità delle odierne ricorrenti, non vi è nessuna prova che, in un momento immediatamente successivo al
cambio di posizione della partoriente disposto alle 00.10, vi sia stato un miglioramento del tracciato come sostiene il ricorso proposto nell’interesse della ginecologa A.A. (sul punto la Corte territoriale, a pag. 11 della sentenza impugnata,
evidenzia non solo che di tale miglioramento non vi è segno nel tracciato, ma
piuttosto che lo stesso continua invece a peggiorare).
Così, quanto al ricorso proposto nell’interesse dell’ostetrica C.C., nessuna
prova vi è che, intorno all’una, allertata, la ginecologa sia nuovamente intervenuta
al capezzale della partoriente a verificare il tracciato, rassicurando le ostetriche.
La B.B., peraltro, il cui allontanamento per andare in bagno appare inverosimile
in presenza di una partoriente in piena crisi, si limita a riferire che di tale visita le
ha riferito la giovane collega.
16

ministrazione di ossitocina da parte della B.B., ma anche l’incompatibilità della

Rileva sul punto, con motivazione assolutamente logica, la Corte territoriale
che l’argomento è stato oggetto di ampia istruttoria, che ha escluso il fatto, d’altra
parte incompatibile con la valutazione sottoscritta dalla stessa ostetrica alle ore 1,
allorquando valutava “O” il tracciato. Se la C.C. avesse veramente chiamato il
medico sospettando anomalie nel tracciato, in altri termini, appare davvero poco
comprensibile che lo abbia dichiarato contestualmente rassicurante nel partog ram ma.
Sui singoli punti di doglianza, in relazione alle singole ricorrenti, si tornerà di

frontino con la tematica dei fattori di rischio della donna (l’età, l’ipertensione gestatoria„ l’anamnesi di pregresso aborto spontaneo cfr. pag. 10 della sentenza
impugnata) che, in uno con le risultanze del tracciato cardiotocografico, indipendentemente che lo si volesse classificare patologico o indeterminato, imponevano
un determinato facere in capo, in primis, alla A.A..

3. Fatta questa debita premessa, va ricordato, quanto alla doglianza secondo
cui la Corte di Appello avrebbe recepito integralmente e acriticamente la motivazione dei giudici di prime cure, che per giurisprudenza pacifica di questa Corte, in
caso di doppia conforme affermazione di responsabilità, deve essere ritenuta
pienamente ammissibile la motivazione della sentenza d’appello
nem

per relatio-

a quella della sentenza di primo grado, sempre che le censure formulate

contro la decisione impugnata non contengano elementi ed argomenti diversi
da quelli già esaminati e disattesi.
Il giudice di secondo grado, nell’effettuare il controllo in ordine alla fondatezza
degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è chiamato ad un puntuale riesame di quelle questioni riportate nei motivi di gravame, sulle quali si sia
già soffermato il prima giudice, con argomentazioni che vengano ritenute esatte e
prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate. In una simile evenienza, infatti, le motivazioni della pronuncia di primo grado e di quella di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed
inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell’appello abbiano esaminato le
censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della
decisione, di guisa che le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (confronta l’univoca giurisprudenza di legittimità di
questa Corte: per tutte sez. 2 n. 34891 del 16/5/2013, Vecchia, rv. 256096; conf.
sez. 3, n. 13926 del 1/12/2011, dep. il 2012, Valerio, rv. 252615: sez. 2, n. 1309
del 22/11/1993, dep. il 1994, Albergarno ed altri, rv. 197250).
17

qui a poco ma già in premessa va rilevato come, al contrario, i ricorsi non si con-

Nella motivazione della sentenza il giudice del gravame di merito non è tenuto, inoltre, a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e
a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in
modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver
tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr.

La motivazione della sentenza di appello è del tutto congrua, in altri termini,
se il giudice d’appello abbia confutato gli argomenti che costituiscono l'”ossatura”
dello schema difensivo dell’imputato, e non una per una tutte le deduzioni difensive della parte, ben potendo, in tale opera, richiamare alcuni passaggi dell’iter
argomentativo della decisione di primo grado, quando appaia evidente che tali
motivazioni corrispondano anche alla propria soluzione alle questioni prospettate
dalla parte (così si era espressa sul punto sez. 6, n. 1307 del 26/9/2002, dep.
il 2003, Delvai, rv. 223061).

4.

E’ stato anche sottolineato di recente da questa Corte che in tema di ri-

corso in cassazione ai sensi dell’art. 606, comma primo lett. e), la denunzia di
minime incongruenze argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che
non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio
della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma è solo l’esame del complesso probatorio entro il quale ogni
elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza
logica dell’impianto argomentativo della motivazione (sez. 2, n. 9242
dell’8/2/2013, Reggio, rv. 254988).
Peraltro, nel caso in esame la Corte di Appello di Genova non si è limitata a
richiamare la sentenza di primo grado, ma ha evidenziato i singoli profili di responsabilità, provvedendo, come si dirà, anche a rettificare alcuni punti affermati
in primo grado, seppure ininfluenti ai fini della decisione.
Quanto alla prima ricorrente, la ginecologa A.A., la Corte genovese,
all’esito del giudizio di secondo grado, confermando la sentenza di condanna
emessa in primo grado dal Tribunale di Massa, l’ha ritenuta responsabile del reato
a lei ascritto, in qualità di medico ginecologo di turno in servizio presso il reparto
di ginecologia e ostetricia del dipartimento materno infantile dell’ospedale OPA di
18

sez. 6, n. 49970 del 19/10/2012, Muià ed altri, rv.254107).

Massa, riconoscendo sussistente a suo carico un profilo di per colpa consistita in
negligenza, imprudenza e imperizia, per aver omesso di verificare l’andamento e
sorvegliare il travaglio di parto di F.F., parte civile costituita nel
presente procedimento (deceduta poi nelle more del giudizio), ricoverata per
l’induzione del travaglio eseguita in data 28/4/2009 presso il suindicato reparto
ospedaliero, nonché per aver omesso di assistere alle ultime fasi del parto

medesimo, avvenuto alle ore 1.50 del 29/4/2009. In tal modo, secondo l’ipotesi

avrebbero giustificato una più costante presenza della ginecologa al capezzale
della partoriente.

5. Nella sentenza impugnata, a fronte della doglianza oggi riproposta secondo
cui il termine “parto a rischio” sarebbe stato utilizzato impropriamente da parte
del primo giudice e del perito di ufficio -e da ciò discenderebbe l’erronea conclusione che la ginecologa avrebbe dovuto sorvegliare direttamente il travaglio- si
evidenzia che tutte le linee guida in materia definiscono “gravidanza ad alto ri-

e/o il bambino con un’incidenza maggiore di quella esistente nella popolazione
generale delle gestanti” e che si tratta di una definizione generale, che ricomprende anche rischi non specificamente indicati nelle linee guida stesse. In questa
categoria residuale è stato perciò logicamente ritenuto che ben potesse rientrare
l’età avanzata della signora F.F., ultraquarantacinquenne al momento del
parto e con anamnesi di pregresso aborto spontaneo. Che l’età costituisca un fattore di rischio – si legge ancora nella sentenza impugnata- lo dicono non solo gli
argomenti di buon senso sviluppati dai periti d’ufficio e richiamati nell’impugnata
sentenza, ma anche il modulo dell’Ospedale di Massa per il calcolo del rischio ostetrico, prodotto dal teste Migliorini all’udienza del 17/6/2015, che indica chiaramente come primo fattore di rischio l’età inferiore a 16 anni o superiore a 42.
Dunque i giudici del gravame del merito pongono l’accento sul fatto che anche
la struttura ove è avvenuto il parto riconosce e riconosceva l’età della F.F.
come autonomo fattore di rischio. E che la donna presentava altri fattori di rischio:
l’ipertensione gestazionale, riconosciuta espressamente come tale a pag. 64 delle
linee guida del 2004; l’induzione del travaglio (nel caso di specie effettuata mediante somministrazione di due dosi successive di prostaglandine), fattore di rischio indicato espressamente a pag. 173 delle medesime linee guida, con indicazione espressa, come l’ipertensione, al nnonitoraggio continuo della FCF; l’anestesia peridurale (praticata nel caso di specie in travaglio poco dopo la rottura delle
membrane) individuata come fattore di rischio a pag. 172 delle linee guida citate,
con indicazione al monitoraggio continuo della FCF, e con espressa previsione
dell’obbligo del ginecologo di valutare “le condizioni ostetriche e il benessere fetale” (pag. 246 delle linee guida citate), con la conseguenza che quest’ultimo deve
ritenersi direttamente responsabile della gestione dell’intervento, assumendo invece l’ostetrico una posizione ancillare e subalterna.
Già il giudice di primo grado – come si anticipava- ha rilevato che la A.A.  (che
pure ha dichiarato di aver fatto interrompere la somministrazione dell’ossitocina
nel momento in cui era intervenuta in occasione del periodo espulsivo) non ha
provveduto ad annotare nella cartella clinica l’interruzione della somministrazione
20

schio” quella nella quale “esiste la possibilità di un esito patologico per la donna

dell’ossitocina (che avviene per via endovenosa mediante una pompa che assicura
un flusso continuo). Infatti, così come l’inizio della somministrazione, anche l’interruzione doveva essere annotata nella cartella clinica (sul punto sono state richiamate, oltre quelle già ricordate in precedenza, anche le dichiarazioni del teste
Fambrini). Invece, il fatto che l’interruzione non sia stata registrata tendenzialmente dimostra che non vi era stata alcuna precedente somministrazione.
Alla luce di queste considerazioni – assolutamente univoche – appare ad avviso di questa Corte scevra di vizi di legittimità la decisione impugnata che, con-

poco, ha ritenuto sussistente l’obbligo della ginecologa A.A. di sorvegliare direttamente il parto e il lavoro delle ostetriche, obbligo derivante proprio dai molteplici
rischi .

6. La Corte territoriale non ha detto, tuttavia – e in ciò ha ritenuto di modificare il dictum del primo giudice – che occorreva la costante presenza del ginecologo al capezzale della gestante, potendo il medico affidare il monitoraggio costante del travaglio all’ostetrico, come consentono le linee guida citate (pagg. 246
e 247), ma essendo tuttavia necessaria una sorveglianza del decorso del parto con
una periodico presenza in sala parto, anche per controllare l’avvenuta esecuzione
delle disposizioni impartite.
I giudici genovesi, perciò, nel caso che ci occupa, pur dando credito alla tesi
difensiva secondo cui la A.A. era comunque reperibile, visto che stava lavorando
sulle altre emergenze ospedaliere, essendo addetta al turno, ne hanno fatto discendere la penale responsabilità innanzitutto dalla evidente imperizia dimostrata
nel non aver saputo leggere i tracciati cardiotocografici, che da patologici si stavano trasformando in allarmanti. Il punto nodale, quanto a tali tracciati, è che la
A.A. sembra avere condiviso il giudizio tranquillizzante espresso da entrambe le
ostetriche, che, a mezzanotte (ma, come si vedrà ancora alle ore 1:00), valutavano il tracciato con la sigla “0”.
In altri termini, ha letto la A.A. il partogramma compilato dalle ostetriche,
almeno quello di mezzanotte -visto che è incontestata la visita intorno a quell’orae, se lo ha letto, come ha potuto condividere un giudizio così tranquillizzante?
Se anche a mezzanotte il tracciato, come riferisce, era indeterminato e non
patologico, certo non era da classificare “0”, anche volendo interpretare tale indicazione, secondo quanto riferito dai testi, come “1°.
Il dato che si evince dalla compiuta istruttoria -secondo entrambi i giudici di
merito- è che la ginecologa non abbia compreso la portata anche qualitativa delle
continue e crescenti decelerazioni del battito, che, comunque classificate in qualsivoglia sistema, dimostravano la pericolosità della prosecuzione del travaglio. Se

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fermando la decisione di primo grado, pur con le precisazioni di cui si dirà di qui a

lo avesse compreso, sarebbe rientrata più spesso in sala parto, e non si sarebbe
limitata alla visita delle 00.10 e ad affidarsi poi alla segnalazione di eventuali emergente desumibili dal tracciato da parte delle ostetriche.
Si rileva nella sentenza impugnata, peraltro, che, anche classificando il tracciato secondo le linee guida della NIHCD, come sostiene la A.A., alla luce dei segni
registrati intorno alla mezzanotte il personale di assistenza al parto non doveva
limitarsi a cambiare la posizione materna, ma doveva sorvegliare continuamente
la gestante, valutando “tutte le circostanze cliniche associate” (e non solo l’evolu-

fessionalità del medico), disporre eventuali manovre resuscitative, ricorrendo al
parto cesareo in caso di persistente ipossia.

7. La ginecologa A.A. ha affermato di avere verificato un miglioramento dopo
il cambiamento di posizione della gestante e di essersi perciò allontanata per ritornare solo quando è stata chiamata per l’espulsione. Tuttavia, come detto in
precedenza, all’esito della compiuta istruttoria è emerso che di tale miglioramento,
secondo la disposta perizia, non vi è segno nel tracciato, che invece continua a
peggiorare, nel disinteresse delle ostetriche che continuano a valuto come normale.
Il successivo rimprovero colposo mosso alla A.A. e logicamente convalidato
dalle sentenze di merito è che, proprio per la complessità della situazione intorno
alla mezzanotte, la ginecologa avrebbe dovuto verificare personalmente se la situazione non peggiorava, visto che non aveva fatto nulla per rimediare alla crescente ipossia manifestatasi. Questa sottovalutazione lascia trasparire l’evidente
negligenza, in quanto la ginecologa non è più rientrata in sala parto per controllare
se una situazione sicuramente difficile non fosse peggiorata, vista l’inefficacia
dell’unica manovra tentata (il mutamento di posizione). La stessa avrebbe dovuto
prendere in considerazione tutte quegli interventi che proprio le linee guida della
NIHCD che invoca prevedono in casi come quello in esame.
Quanto alla sussistenza del nesso causale tra l’omissione della A.A. e l’evento, i giudici del gravame del merito hanno confermato con argomentazione
logica la valutazione del primo giudice, rilevando come il feto fosse ancora vivo
fino alle ore 1:00, per cui, se la A.A. avesse predisposto il taglio cesareo all’atto
della visita effettuata alle ore 00:10, i danni al bambino non si sarebbero prodotti.
Come correttamente ricordato dal giudice di primo grado, a conclusioni analoghe a quelle che ci occupano è pervenuta questa Corte di legittimità in un caso
simile a quello qui in esame (così questa sez. 4, n. 11493 del 24/1/2013, Pagano,
rv. 254756, in relazione ad una fattispecie nella quale, in relazione al decesso del
feto provocato dal ginecologo per la mancata esecuzione di un intervento di parto

22

zione del tracciato, il che esula dalla competenza delle ostetriche e investe la pro-

cesareo, la S.C. ha ritenuto irrilevanti le linee guida amministrative contenenti i
criteri di scelta tra parto naturale e taglio cesareo ma riguardanti il solo profilo
della perizia). Infatti, in quel caso, al ginecologo era stato proprio addebitato che,
pur in presenza di tracciati cardiotocografici significativi di concreto rischio per il
benessere del feto, non aveva operato un costante monitoraggio della accertata
situazione di preallarme, né aveva predisposto ed eseguito un intervento di parto
cesareo che avrebbe evitato l’asfissia intra partum ed il conseguente decesso del
neonato. E in quel caso, questa Corte Suprema ha ritenuto che non era illogica la

paziente, già trentottenne alla prima gravidanza e con indotta stimolazione farmacologica del travaglio, avrebbe dovuto indurre il sanitario ad un monitoraggio
continuo delle condizioni del feto onde valutare l’opportunità di un taglio cesareo,
ancora possibile in quanto la donna presentava una dilatazione del collo uterino di
appena cinque centimetri, così evitando al feto l’ulteriore stress correlato al parto
naturale, avvenuto circa un’ora dopo”. Ne era conseguita -come ricorda ancora il
giudice di primo grado- l’affermazione di responsabilità per colpa del ginecologo
che aveva omesso “di sottoporre la paziente ad un costante monitoraggio e di
predisporre ed eseguire l’intervento di parto cesareo che, se eseguito, con elevato
grado di credibilità razionale avrebbe evitato l’asfissia ed il conseguente decesso
della bambina”.
Allo stesso modo, nel caso in esame, la A.A. non ha tenuto conto dell’età
avanzata della partoriente (45 anni anziché 38, come nel caso di cui si è detto),
del fatto che era stata indotta con prostaglandine (per due volte, anziché una come
nel caso di cui alla sentenza 11493/2013), del fatto che non aveva mai avuto figli
prima di allora (come nel caso di cui si è detto) e delle altre condizioni che rendevano la gravidanza una gravidanza a rischio (tra cui l’ipertensione ed il liquido
amniotico scarso).
La ginecologa odierna ricorrente non ha attuato, così come avrebbe dovuto
fare trattandosi di gravidanza a rischio, un monitoraggio continuo delle condizioni
del feto onde valutare tempestivamente l’opportunità di un parto cesareo lasciando troppo a lungo la gestione del parto alle ostetriche (stesso addebito contestato e stessa situazione del caso ricordato): Ha, in tal modo, omesso di valutare
i segnali di alterazione che emergevano dal tracciato cardiotocografico e ha, di
conseguenza, omesso di disporre il parto cesareo, così come avrebbe dovuto disporre al più tardi alle ore 0:29; ed, in tal modo, non ha impedito né interrotto
quella prolungata ipossia fetale che ha causato il danno cerebrale (il caso di cui al
citato precedente, le cui conclusioni il Collegio condivide, è su tali punti assolutamente sovrapponibile).

23

motivazione dei giudici di merito che avevano affermato “che la condizione della

Il giudice di primo grado evidenzia che, stando alle dichiarazioni del consulente tecnico della difesa, il tracciato era divenuto di tipo patologico solo a partire
dalle ore 1:05, mentre prima non era tale in quanto era stata sempre mantenuta
la variabilità, per cui in precedenza non vi era necessità di intervenire.
Anche accogliendo questa tesi, tuttavia, i giudici di merito ritengono condivisibilmente che resterebbe confermata la responsabilità della A.A., andando ribadito che la gravidanza della F.F. era a rischio e che, per tale motivo, la sorveglianza sul travaglio ricadeva sotto la diretta e personale responsabilità del gi-

ricordata nella sentenza di primo grado- che, nel periodo dalle ore 22:47 alle 1:05,
non vi erano nell’ospedale altre donne ricoverate il cui travaglio fosse in fase attiva
e quindi non vi erano altre urgenze od altri motivi per non essere presenti a sorvegliare il travaglio della F.F..

8. La conclusione in ordine alla penale responsabilità della A.A.  resta confermata anche alla luce della giurisprudenza di questa Corte di legittimità in tema di
colpa medica d’equipe.
I principi enucleabili da tale giurisprudenza valgono ad escludere che la A.A.
possa giustificare la sua assenza, nel lasso temporale tra le ore 0:10 e le 1:40,
sostenendo di aver fatto affidamento sul controllo che veniva operato dalle ostetriche. Ciò in quanto, come ricordano anche i giudici del merito, il c.d. principio
dell’affidamento (principio secondo cui ciascuno può contare sull’adempimento, da
parte degli altri, dei doveri su di essi incombenti ed ogni consociato può confidare
che ciascuno si comporti adottando, le regole precauzionali normalmente riferibili
al modello di agente proprio dell’attività che di vola in volta è in esame, ed ognuno
deve evitare unicamente i pericoli scaturenti dalla propria condotta) non opera
quando colui che si affida ad altri sia in colpa per aver violato norme precauzionali
o per aver omesso determinate condotte confidando che altri, succedendo nella
posizione di garanzia, elimini la violazione o ponga rimedio all’omissione: ne consegue che l’eventuale evento dannoso, che derivi anche dall’omissione del successore, verrà ad avere due antecedenti causali, non potendo la seconda condotta
configurarsi come fatto eccezionale e sopravvenuto, di per sé sufficiente a produrre l’evento, e non essendo quindi idonea ad escludere la responsabilità di chi
si è affidato al successore (il conferente richiamo è alle sentenza n. 18568/2005
e, prima ancora 8006/99 di questa Corte).
La responsabilità della ginecologa A.A., pertanto, non può essere esclusa sostenendo che il controllo del tracciato CTG era stato affidato alle ostetriche che lo
avevano mal esercitato. Infatti, la A.A. versava già in colpa per aver violato norme

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necologo. E sul punto non può essere nemmeno va trascurata la circostanza –

precauzionali e per aver omesso determinate condotte, non avendo valutato correttamente i tracciati CTG fino alle ore 0:10, non avendo tenuto conto che si trattava di gravidanza a rischio ed avendo omesso di essere presente e di continuare
a valutare i tracciati personalmente nel periodo successivo alle ore 0:10.

9. Passando ad analizzare la posizione delle ostetriche, sgombrato il campo,
come detto, dai due fatti non provati costituiti dalla somministrazione dell’ossitocina da parte della B.B. e della visita da parte della A.A. dell’1:00, va subito

una più assidua presenza della ginecologa, ciò non toglie che anche le ostetriche,
nei drammatici minuti che hanno fatto seguito alla visita della ginecologa avrebbero potuto e dovuto attivarsi, se avessero compreso l’andamento del tracciato, il
che rientrava certamente nelle loro competenze.
C’è stato, dunque, per entrambe le ostetriche, un duplice profilo di imperizia
dimostrata nella lettura dei tracciati cardiotocografici. E, condivisibilmente, la
Corte territoriale ha ritenuto trattarsi di un’imperizia macroscopica, perché va oltre
ogni comprensibile errore, in quanto le due donne non hanno sbagliato una classificazione di un fenomeno di difficile lettura e di controversa interpretazione, ma
hanno considerato normale e tranquillizzante ciò che non era né normale, né tranquillizzante, onde non possono trincerarsi dietro la complessità del compito loro
richiesto e dietro l’affidamento fatto nel giudizio, rivelatosi errato, della A.A., a
loro sovraord i nata .
La lettura e valutazione dei tracciati cardiotocografici e la redazione del partogramma – va ricordato- sono compiti pacificamente rientranti nelle competenze
delle ostetriche (i giudici del gravame del merito richiamano sul punto, peraltro
incontestato, pag. 246 e 247 delle linee guida Age.Na.S. 2004, vedasi anche il
precedente di questa Corte costituito da sez. 5, n. 20063 del 12/12/2014 dep. il
2015, T. , rv. 264072).
E’ stato anche precisato da questa Corte che, in tema di responsabilità per
colpa medica, l’ostetrica, qualora abbia sotto la propria assistenza e controllo una
partoriente, è tenuta a sollecitare tempestivamente l’intervento del medico appena
emergano fattori di rischio per la madre e comunque in ogni caso di sofferenza
fetale (cfr. sez. 4 n. 35027 del 16/7/2009, Trossi, rv. 245524; sez. 4, n. 21709
del 29/1/2004, Galati, rv. 228951 in un caso in cui questa Corte ha affermato la
responsabilità dell’ostetrica la quale, quantunque il monitoraggio cardiotocografico
della paziente indicasse una progressiva sofferenza fetale, aveva ritardato di
avvertire i sanitari con la conseguenza del decesso del feto).
Costituisce dictum consolidato, con sentenze che datano ad oltre trent’anni or
sono quello che impone all’ostetrica di richiedere l’intervento del medico tutte le

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evidenziato come, se alle 00,10 c’erano già i primi presupposti che giustificavano

volte in cui, nello andamento della gestazione o del parto di persona alla quale
presti assistenza, riscontri qualsiasi fatto irregolare relativo al parto (vedasi, ex
mults, questa sez. 4, n. 2893 dell’11/3/1981, rv. 148251).
Come ricorda la difesa della ricorrente A.A., questa Corte di legittimità ha
avuto di recente modo di chiarire -e va qui ribadito- che in capo all’ostetrica sussiste una specifica posizione di garanzia, poiché, anche nell’ambito di un travaglio
di parto definibile “a rischio”, sono da ritenere persistenti i profili di responsabilità
connessi agli obblighi gravanti sull’ostetrica, siccome in ogni caso legati alla pre-

vaglio pur coordinato dalla figura del medico di guardia, prestazione implicante la
pronta rilevazione di ogni situazione di potenziale sofferenza per la madre e per il
nascituro, con l’obbligo della relativa segnalazione al medico competente (sez. 4,
n. 31244 del 2/7/2015, Meschiari, Rv. 264358)..
Tale considerazione naturalmente deriva dall’esistenza in capo all’ostetrica di
una professionalità specifica che ben consente alla stessa di comprendere i segnali
di sofferenza patologica del tracciato cardiotocografico.
Il caso di cui alla sentenza 31244/2015, tuttavia, non è -come sostiene il
difensore della A.A.- totalmente sovrapponibile a quello che ci occupa, così da
escludere la responsabilità della ginecologa, che, come visto, è ancorata alla sua
imperizia nel leggere il tracciato già alle 00.10 e nel non avere considerato, alla
luce dei vari fattori di rischio di quel parto, di dovere sua sponte tornare al capezzale della partoriente con maggiore assiduità, anche al fine di controllare l’operato
delle ostetriche.

10. Il principio di cui a quel precedente arresto giurisprudenziale di questa
Corte di legittimità vale, invece, a convalidare l’affermazione di responsabilità delle
ostetriche. Tale principio -che va qui ribadito- è che, in tema di causalità della
colpa, quando la ricostruzione del comportamento alternativo lecito idoneo ad impedire l’evento deve essere compiuta nella prospettiva dell’interazione tra più soggetti, sui quali incombe l’obbligo di adempiere allo stesso “dovere” o a “doveri” tra
loro collegati, la valutazione della condotta di colui che è tenuto ad attivare altri
va effettuata assumendo che il soggetto che da esso sarebbe stato attivato
avrebbe agito correttamente, in conformità al parametro dell’agente “modello”
(perciò nella richiamata sentenza 31244/2015 la Corte ha ritenuto che correttamente la sentenza impugnata avesse ravvisato la responsabilità dell’ostetrica in
relazione alla morte di un bambino nato affetto da gravi patologie conseguenti ad
un parto tardivo, per avere la stessa omesso di allertare tempestivamente i medici
di guardia dei segnali di sofferenza fetale del nascituro registrati dal “tracciato”).

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stazione di un’assistenza continuativa e adeguata alla paziente nella fase del tra-

mr”

Il fatto che la A.A. avesse trascurato i segnali di sofferenza fetale già manifestatisi alle 00.10, alla luce di tale principio, non esclude affatto, dunque, che la
stessa, allertata dalle ostetriche che avrebbero potuto e dovuto accorgersi del
peggiorare del tracciato, non avesse subito disposto il parto cesareo. Avrebbe cioè
potuto porre in essere un immediato, nonché fausto, intervento impeditivo dell’evento, come affermato anche dalla Corte territoriale, effettuando un parto cesareo
del quale, con un elevato grado di probabilità logica prossima alla certezza, P.P sarebbe nato vivo e sano.

di crescente pericolo erano già presenti a partire dalle ore 22:47 e comunque
erano sicuramente presenti prima delle ore 0:10 (orario in cui la A.A. aveva personalmente controllato la situazione). E ciò vale ad evidenziare, come già detto,
che già alle ore 0:10 vi erano segnali che imponevano l’esecuzione di un parto
cesareo o quanto meno di altro intervento. Ed è vero che, in quel momento (alle
ore 0:10), i predetti segnali sono stati esaminati e valutati non allarmanti dalla
A.A., che perciò ne risponde.
Tuttavia, i giudici del merito danno atto che vi è stato, sostanzialmente, un
continuum ininterrotto e crescente di segnali di alterazione del tracciato. Dopo
questa (errata) valutazione, la A.A. si è allontanata, mentre !a B.B. e la C.C.
sono rimaste in sala parto (dove era visibile il tracciato) ed i segnali di alterazione
hanno continuato a ripetersi, sempre più numerosi e frequenti, anche dopo le ore
0:10. In particolare, l’esito dell’istruttoria, secondo quanto ricorda il giudice di
primo grado, ha consentito di appurare che fra le ore 23:56 e le 0:29, vi sono
state almeno 8 decelerazioni, molto incise, di cui quella delle ore 0:04 bifasica e/o
con ricupero tardivo, quella delle 0:15 senza accelerazione iniziale, quella delle ore
0:20 senza accelerazioni iniziale e finale, quella delle ore 0:22 senza accelerazione
iniziale, e quindi atipiche. Fra le ore 0:29 e le 0:38 è comparsa una bradicardia.
Dopo le ore 0:38 sino alle 0:48 è comparsa una tachicardia con 3 decelerazioni.
Dalle ore 0:50 sino alle 1:05 si sono verificate 5 decelerazioni particolarmente
gravi.
Nonostante questa situazione, degna, quanto meno, di una spiccata attenzione, la B.B. e la C.C. hanno omesso di allertare la A.A. affinché questa
prendesse nuovamente visione, personalmente, del tracciato cardiotocografico.
La B.B. e la C.C., infatti, avrebbero dovuto, anche loro, nella loro autonomia professionale, valutare il tracciato cardiotocografico, rendersi conto della
presenza di segnali di alterazione sempre più frequenti e quindi telefonare alla
A.A. per avvisarla di quella situazione.
La loro condotta omissiva integra la colpa su cui si fonda l’affermazione della
loro responsabilità penale.

27

Già il giudice di primo grado aveva ricordato come segnali di una situazione

In particolare, la B.B. ha ammesso di non aver chiamato la A.A., addirittura
insistendo nel continuare a dire che i segnali non erano allarmanti e sostenendo
che il fatto che la C.C. avesse chiamato la A.A. (che, come visto, secondo la
C.C., era stata da lei chiamata nuovamente intorno alle ore 1:00) era sostanzialmente dovuto alla giovane età ed all’inesperienza della collega che si era impressionata nonostante non ve ne fosse motivo (mentre la B.B., più esperta, ha
dichiarato di non essere tipo da farsi impressionare, il che correttamente è stato
ritenuto confermare non solo la prova della condotta omissiva tenuta dall’imputata

cografico, ancora più grave in ragione della sua esperienza)..
La C.C. , dal canto suo, ha sostenuto di avere chiamato nuovamente la A.A.
intorno alle ore 1:00 e che in quel momento la A.A.  aveva preso visione del tracciato ritenendolo non patologico. Ma, come detto, tale dichiarazione ha trovato
solo un limitato riscontro nelle dichiarazioni della B.B. (la quale ha sostenuto
inverosimilmente che si era assentata per recarsi al bagno e, una volta tornata, la
C.C. le aveva riferito che, durante la sua assenza, era intervenuta la A.A.  ad
esaminare il tracciato) ed in quelle della teste Giannetti (che ha riferito che, nel
corso della nottata, aveva visto la A.A.recarsi complessivamente 4 volte nella
sala travaglio dove era la F.F.).
Tuttavia, i giudici del merito hanno logicamente ritenuto che il carattere parziale di questi riscontri ed alcune incertezze evidenziate dalla Giannetti nel suo
esame, oltre al fatto che la stessa C.C.aveva contraddittoriamente annotato
sulla cartella clinica la dicitura “valutazione clinica 0” (indicativa di un giudizio di
assenza di qualsiasi problema e quindi incompatibile con una preoccupazione che
potesse averla spinta a chiamare la A.A.), inducesse a ritenere non attendibili le
dichiarazioni della C.C.. E’ stato peraltro anche rilevato che, anche a voler opinare diversamente, e cioè ritenere attendibili tali dichiarazioni, comunque si dovrebbe affermare la penale responsabilità della C.C., in ragione del fatto che„
anche se la ginecologa avesse preso visione del tracciato intorno alle ore 1:00,
comunque la. C.C. avrebbe avuto il dovere di richiamarla nuovamente dopo
pochi minuti dal suo allontanamento e non avrebbe dovuto attendere il periodo
espulsivo (alle ore 1:40). Viene dato infatti conto in sentenza di come sia emerso
in maniera pacifica dall’istruttoria dibattimentale che i segnali più gravi di sofferenza fetale si siano verificati nei minuti successivi alle ore 1:05 e che in quel
momento era indifferibile l’intervento del ginecologo. Di conseguenza, anche a voler crederle, la C.C. avrebbe comunque dovuto richiamare immediatamente la
A.A..

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B.B., ma anche la sua imperizia nel valutare le risultanze del tracciato cardioto-

Da quanto sin qui detto emerge, evidentemente, la sussistenza del nesso di
causalità rispetto all’evento dell’omissione delle ostetriche, cui hanno evidentemente concorso per la B.B. un misto di imperizia e di negligenza sotto il profilo
dell’eccesso di sicurezza (evidente nella sua affermazione di non essere certo un
tipo che si spaventa per averne viste tante) e nella C.C. un’assoluta imperizia
rispetto al lavoro che era chiamata a svolgere, non potendo essere certo addotta
a scusante la circostanza che era in servizio solo da pochi giorni.
Ricorda la Corte territoriale che alla 1:00 il feto era ancora vivo, per cui ba-

che diveniva sempre più allarmante, per interrompere il nesso tra la propria inerzia
e il successivo tragico evento. E già il giudice di primo grado aveva ricordato che,
pur disponendo il parto cesareo alle ore 0:29, questo avrebbe potuto essere eseguito nell’arco di pochi minuti, così evitando la prosecuzione degli episodi ipossici.
Sul punto, va ricordato quanto riferito dalla teste Bruschi (ostetrica dell’ospedale di Massa), secondo cui, nell’ospedale di Massa, si riusciva ad organizzare un
parto cesareo anche in 9 minuti (“ne abbiamo fatti anche in nove minuti, anche
meno”), che trova conferma anche in quanto dichiarato dall’imputata C.C., secondo cui un parto cesareo poteva essere organizzato nello spazio di 10-15 minuti.
Di conseguenza, decidendo il parto cesareo anche solo alle ore 0:29 ed eseguendolo nell’arco dei successivi 10-15 minuti, la A.A. avrebbe impedito la prosecuzione dell’ipossia e quindi non si sarebbero verificati i conseguenti danni cerebrali al feto. Infatti, secondo i periti, a quell’ora, si poteva, ancora intervenire
efficacemente, atteso che i danni cerebrali si erano verosimilmente verificati dopo
le ore 1:05, quando era scomparsa la variabilità. E, nello stesso senso, anche il
CT della difesa ha sostenuto che lo stato di acidosi fetale, indicativo del fatto che
un danno neurologico era in atto o si stava per verificare, era sopravvenuto soltanto dopo le ore 1:05. Pertanto, l’intervento della A.A. che le due ostetriche
avrebbero dovuto sollecitare avrebbe potuto evitare l’evento e con tutta evidenza,
dunque, tale omessa sollecitazione non costituisce affatto di un post factum, in
quanto tale non punibile.

11. Infondato è anche il motivo che viene speso invocando, stavolta sul versante delle ostetriche, il principio dell’affidamento, secondo cui la B.B. e la C.C. sarebbero state rassicurate, esplicitamente o comunque in fatto, dalla circostanza che la A.A. aveva guardato il tracciato e visitato la partoriente (evidentemente potendosi fare riferimento solo alla visita delle 00.1.0 non essendovi prova,
come più volte detto, del successivo intervento della ginecologa intorno alla 1:00)
disponendone solo il cambio di posizione ed il controllo del tracciato.

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stava sollecitare il medico, come si sarebbe dovuto fare in presenza di un tracciato

Anche in tal caso, evidentemente, il principio viene invocato in maniera non
conferente con il caso che ci occupa.
Sul punto, ad ulteriore specificazione di quanto già detto per la A.A., va ricordato che costituisce ormai ius receptum di questa Corte di legittimità il principio
che, in tema di colpa professionale medica, qualora ricorra l’ipotesi di cooperazione
multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario – compreso
il personale paramedico – è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e
prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi de-

che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell’agente che non abbia
osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause,
salva l’affermazione dell’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti
il carattere di eccezionalità ed imprevedibilità. (così questa sez. 4, n. 30991 del
6/2/2015, Pioppo ed altro, rv. 264315, che, in applicazione del principio, ha confermato la sentenza di condanna nei confronti degli infermieri e dell’anestesista
per le lesioni occorse alla vittima, la quale, in attesa di essere sottoposta ad intervento chirurgico, era stata posizionata sul lettino operatorio ed era stata girata sul
lato, senza tuttavia essere legata, ed in tale posizione le era stata somministrata
l’anestesia, a causa della quale, sopravvenuto lo stato di incoscienza, era caduta
dal letto).
Ne consegue – principio che il Collegio ritiene qui di ribadire- che ogni sanitario
non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta
da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del
professionista medio. L’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che come
detto deve avere carattere di eccezionalità ed imprevedibilità, si ha solo allorquando la condotta sopravvenuta abbia fatto venire meno la situazione di pericolo
originariamente provocata o l’abbia in tal modo modificata da escludere la riconducibilità al precedente garante della scelta operata (sez. 4, n. 46824 del
26/10/2011; Castellano ed altro, Rv. 252140).
Correttamente il giudice di primo grado aveva ritenuto di ricondurre anche la
responsabilità delle ostetriche al principi più volte affermati dalla Cassazione in
tema di responsabilità medica d’equipe, ai quali si è già sopra accennato a proposito della posizione della A.A.. Infatti, questa Corte di legittimità ha affermato
che, laddove medici e sanitari svolgano l’attività in modo non contestuale, ogni
sanitario, oltre che dal rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle
specifiche mansioni svolte, sarà anche astretto dagli obblighi ad ognuno derivanti

30

rivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza

dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune, conseguendone che
tutte le attività sono interdipendenti e debbono essere tra loro coordinate verso
l’esito finale della guarigione del malato, senza che possa immaginarsi né una
assoluta autonomia tra le varie fasi né una sorta di compartimentazione o segmentazione degli specifici interventi delle singole competenze (così questa ez. 4
nella sentenza 18548/2005).
In sostanza fra i componenti dell’equipe può dirsi esistente una sorta di responsabilità solidale in cui il dovere di diligenza del singolo viene ampliato andando

dell’altrui operato e sugli errori altrui, purché questi si presentino non settoriali ed
evidenti e siano rilevabili con l’ausilio delle conoscenze del professionista medie.
In altre parole, il principio dell’affidamento trova un limite nel carattere evidente dell’errore, cioè dell’errore che, benché commesso da un solo sanitario, sia
però riconoscibile anche dagli altri componenti dell’equipe, essendo tale possibilità.
di riconoscimento rientrante nel loro bagaglio tecnico-culturale. E, se l’errore non
è settoriale, ma è comune a tutta l’equipe, come avvenuto nel caso che ci occupa
per la valutazione del tracciato CTG, in quanto tutta l’equipe aveva le conoscenze
tecniche per poterlo riconoscere e per poterlo prevenire o correggere, allora tutta
l’equipe ne dovrà rispondere.

12. Venendo, in ultimo a valutare ei profili di doglianza, anch’essi infondati,
che chiedono far ricadere il caso che ci occupa nell’ambito di non punibilità della
colpa lieve di cui all’art. 3 c. 1 della I. 189/2012, richiamando, in via di estrema
sintesi, l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità
nel procedere alla ermeneusi della norma ora citata, si osserva che la Corte regolatrice ha chiarito che la novella esclude la rilevanza penale della colpa lieve, rispetto a quelle condotte lesive che abbiano osservato linee guida o pratiche terapeutiche mediche virtuose, purché esse siano accreditate dalla comunità scientifica. In particolare, si è evidenziato che la norma ha dato luogo ad una aboliti°
criminis parziale degli artt. 589 e 590 cod. pen., avendo ristretto l’area penalmente
rilevante individuata da tali norme incriminatrici, giacché oggi vengono in rilievo
unicamente le condotte qualificate da colpa grave (così, ex multis, questa sez. 4,
n. 11493 del 24/01/2013, Rv. 254756; sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Rv.
255105).
La parziale abrogazione, determinata dall’art. 3 della legge 8 novembre 2012,
n. 189, delle fattispecie di cui agli artt. 589 e 590, cod. pen., qualora il soggetto
agente sia un esercente la professione sanitaria, nell’ambito delle richiamate fattispecie incriminatrici, comporta, conseguentemente, pacificamente, l’applicazione

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anche oltre le specifiche mansioni a lui affidate, estendendosi sino al controllo

della disciplina dettata dall’art. 2, comma 2, cod. pen., e quindi l’efficacia retroattiva del combinato disposto di cui agli artt. 3, legge n. 189/2012 e 589 e 590 cod.
pen. Del resto, la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte hachiarito che il fenomeno dell’abrogazione parziale ricorre allorché tra due norme
incriminatrici che si avvicendano nel tempo esiste una relazione di genere a specie
(Sez. Un., 27/9/2007, Magera, rv. 238197; Sez. Un. 26/3/2003, Giordano, rv.
224607).
Detto dell’applicabilità, dunque, della legge Balduzzi anche a casi come quello

che la Corte territoriale, con motivazione logica e congrua, dà atto che l’imperizia
delle imputate è stata macroscopica e che la loro colpa può dunque definirsi grave.
Inoltre viene evidenziato come debba escludersi che esse abbiano seguito le linee
guida in materia, anzi le abbiano violate tutte. In particolare, viene evidenziato
che la A.A. non ha seguito nemmeno le indicazione delle linee guida della NIHDC,
che pure invoca e sostiene di avere recepito, in quanto non ha eseguito tutte quelle
operazioni che tali indirizzi prescrivono in presenza di un tracciato cardiotocografico come quello registrato nel presente giudizio.
Già il giudice di primo grado aveva conferentemente richiamato il precedente
di questa Corte di cui alla sentenza 11493/13, ove si spiegava che l’art. 3 c.1 della
c.d. legge Balduzzi obbliga, a distinguere fra colpa lieve e colpa grave, solo
limitatamente ai casi nei quali si faccia questione di essersi attenuti a linee guida
e solo limitatamente a questi casi viene forzata la nota chiusura della
giurisprudenza che non distingue fra colpa lieve e grave nell’accertamento della
colpa penale.
Peraltro, anche a voler tenere presente il più recente orientamento di questa
Corte Suprema secondo cuiea limitazione della responsabilità in caso di colpa lieve
prevista dall’art. 3 del D.L. 13 settembre 2012, n. 158, conv. in legge 8 novembre
2012, n. 189, pur trovando terreno d’elezione nell’ambito dell’imperizia, può tuttavia venire in rilievo anche quando il parametro valutativo della condotta dell’agente sia quello della diligenza (sez. 4, n. 45527 del 1/7/2015, Cerracchio, rv.
264897), quindi anche nella ipotesi di errori connotati da profili di colpa generica
diversi da quella (vedasi anche sez. 4, n. 23283 dell’11/5/2016, De Negri, rv.
266903, nella cui motivazione la Corte ha precisato che tale interpretazione è
conforme al tenore letterale della norma, che non fa alcun richiamo al canone della
perizia e risponde alle istanze di tassatività dello statuto della colpa generica
delineato dall’art. 43 comma terzo, cod. pen.), va tenuta presente l’esaustiva motivazione che, come visto, i giudici del merito operano nel caso che ci opera quanto
alla gravità della colpa e al non essersi le imputate attenute alle linee guida di

32

che ci occupa, in cui i fatti si sono verificati prima della sua vigenza, va rilevato

riferimento, quali che siano quelle che si vogliano utilizzare. Siamo quindi, sicuramente, al di fuori dell’ambito di operatività della colpa lieve.

13. Al rigetto dei ricorsi consegue, ex lege, la condanna della parte ricorrente
al pagamento delle spese del procedimento, nonché alla rifusione alle costituiti
parti civili delle spese di rappresentanza e di assistenza nel presente giudizio, liquidate come in dispositivo.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali,
nonché alla rifusione, tra loro in solido, delle spese sostenute dalle parti civili P.A., in proprio e nell’interesse del minore P.F., che liquida
in complessivi euro 3600,00 oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma il 18 ottobre 2016

P.Q.M.

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