Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5331 del 10/10/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 5331 Anno 2015
Presidente: PALLA STEFANO
Relatore: POSITANO GABRIELE

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
DI FEDE ANTONINO N. IL 17/08/1963
avverso la sentenza n. 8/2012 CORTE APPELLO di
CALTANISSETTA, del 28/05/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 10/10/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. GABRIELE POSITANO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. —
che ha concluso per

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 10/10/2014

Il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, dr Mario Pinelli, ha concluso chiedendo
l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Il difensore di Di Fede Antonino propone ricorso per cassazione contro la sentenza
emessa dalla Corte d’Appello di Caltanissetta, in data 28 maggio 2013, che confermava

maggio 2011, di condanna degli imputati Di Fede Antonino e La Cognata Francesco
Girolamo alla pena di anni uno di reclusione, oltre al risarcimento dei danni in favore
della parte civile costituita, Basile Lucia, perché ritenuti responsabili del delitto di
violenza privata e di lesioni personali.
2. Dalle risultanze processuali era emerso che, in data 23 settembre 2006, gli imputati
avevano esercitato violenza nei confronti di Basile Lucia, spingendola con forza
all’interno della loro autovettura provocandole lesioni personali, consistite in una
contusione alla spalla sinistra.
3. Avverso tale decisione hanno proposto appello la difesa degli imputati sostenendo
l’inattendibilità delle dichiarazioni rese dai testi escussi, chiedendo l’applicazione delle
circostanze attenuanti generiche prevalenti sull’aggravante contestata, oltre alla
riduzione nel minimo della pena e la revoca della condanna al risarcimento dei danni. La
Corte d’Appello riteneva infondati i motivi di impugnazione confermando la decisione del
Tribunale di Gela.
4. Avverso la sentenza di secondo grado propone ricorso per cassazione il difensore di Di
Fede Antonino lamentando vizio di motivazione, in relazione all’articolo 530 del codice
di rito, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, l’omessa
applicazione del minimo della pena e della sospensione condizionale, con i benefici di
legge.
CONSIDERATO IN DIRITTO
La sentenza impugnata non merita censura.
1. Con l’unico motivo di ricorso la difesa lamenta mancanza, illogicità e contraddittorietà
della motivazione in relazione all’articolo 530 del codice di rito, oltre al mancato
riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, dell’applicazione del minimo della
pena, della sospensione condizionale e di tutti i benefici di legge. Il giudice di appello
avrebbe fondato il giudizio di colpevolezza sulle dichiarazioni rese dalla persona offesa,
incoerenti e prive di riscontro oggettivo, oltre che inattendibili perché proveniente da

la decisione adottata dal Tribunale di Gela, in composizione monocratica, in data 3

fonte non credibile. Quanto alla pena, nulla avrebbe motivato sulle ragioni che hanno
determinato la misura della sanzione, senza fornire un’argomentazione congrua sulla
mancata applicazione della riduzione di pena che avrebbe potuto essere concessa,
stante le condizioni soggettive dell’imputato e la complessiva situazione familiare.
2. Il motivo è inammissibile perché assolutamente generico. Il ricorrente non si confronta
con la motivazione adottata dal giudice di secondo grado, non individua le ragioni
concrete della presunta inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, non

quantificazione della pena o del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e
della sospensione condizionale.
3. In ogni caso la censura è manifestamente infondata. La Corte d’Appello ha fatto corretta
applicazione dei principi in tema di valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni della
persona offesa dal reato, rilevando che la deposizione di questa può essere posta,
anche da sola, a fondamento dell’affermazione di responsabilità dell’imputato, purché
soggetta a un vaglio rigoroso in ordine alla credibilità soggettiva di chi la rende, nonché
alla linearità e logicità intrinseca di quanto raccontato. Tale verifica è stata
correttamente espletata dal giudice di appello e sul punto non vi è alcuna censura
specifica.
4. La Corte ha evidenziato che la parte offesa, Basile Lucia, all’epoca dei fatti ancora
minorenne, ha riferito, con dovizia di particolari, l’episodio in questione attribuendolo
all’ex marito della madre, odierno ricorrente, detto Franco Lupo. La madre della
ragazza, Fede Rosalinda ha ricostruito i rapporti tra i protagonisti della vicenda
precisando che, dopo la nascita della loro figlia, l’imputato aveva iniziato a trattare male
Lucia (la parte offesa). Anche il teste Fede Tiziana, sorella di Rosalinda e zia della
persona offesa, ha confermato di essere stata avvisata dai Carabinieri e di aver visto la
nipote che piangeva e tremava in quanto Di Fede Antonio aveva cercato di violentarla.
Con motivazione assolutamente adeguata e ragionevole la Corte ha ritenuto che la
sequenza dei fatti ricostruiti dalla parte offesa, nella loro gravità e concentrazione in
tempi brevissimi, considerata l’immediata reazione della giovane che riusciva ad
allontanarsi a recarsi presso la Caserma dei Carabinieri, risultava pienamente
attendibile, in quanto puntuale e circostanziata.
5. Anche con riferimento al profilo sanzionatorio la Corte ha adeguatamente motivato
riguardo alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, in
considerazione dell’oggettiva gravità della condotta, posta in essere nei confronti di un
soggetto minore e contro il bene primario della libertà, con modalità assolutamente
plateali, che denotano l’assoluta noncuranza dei precetti legali e la mancanza di u rY

individua motivi specifici in base ai quali avrebbe potuto beneficiare di una diversa

minimo senso della legalità. Sulla base di tali elementi ha escluso, anche per i plurimi
precedenti penali, l’applicazione di ogni beneficio di legge.
6. Alla pronuncia di inammissibilità consegue ex art. 616 cod. proc. pen, la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento, in favore della
Cassa delle ammende, di una somma che, in ragione delle questioni dedotte, appare
equo determinare in euro 1.000,00.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
e della somma di euro 1.000 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma il 10/10/2014
Il Consigliere estensore

Il Presidente

P.Q.M.

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