Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 53208 del 08/11/2017


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 53208 Anno 2017
Presidente: DAVIGO PIERCAMILLO
Relatore: DI PAOLA SERGIO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
LONGO GIORGIO MARIO LUIGI nato il 24/04/1954 a Milano

avverso la sentenza del 28/10/2016 della Corte d’Appello di Milano
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Sergio Di Paola
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Perla
Lori, che ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso;
udito il difensore, Avv. Luca Gizzi, in sostituzione dell’Avv. Gianluca Varraso,
che ha concluso riportandosi ai motivi di ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza della Corte d’Appello di Milano del 28 ottobre 2016, in
parziale riforma della sentenza di

primo grado (per l’intervenuta

depenalizzazione del contestato delitto di falsità in scrittura privata), Longo
Giorgio Mario Luigi è stato condannato alla pena di mesi 4 di reclusione e C 300
di multa, per il delitto di appropriazione indebita aggravata, con la concessione
del beneficio della sospensione condizionale della pena.
2.

I fatti oggetto del giudizio riguardavano l’esecuzione di operazioni

bancarie eseguite dall’imputato sui conti intestati a Di Lernia Lucrezia, in forza di
delega che la donna, legata da sentimenti di amicizia e fiducia nei confronti del

Data Udienza: 08/11/2017

Longo, aveva rilasciato all’imputato sin dall’anno 2007. Nel corso degli anni, in
più occasioni la Di Lernia, in assenza di eredi legittimi, aveva manifestato l’
intenzione di istituire suo erede universale il Longo. Era accaduto che nell’estate
del 2009, dopo avere trascorso un periodo di vacanza a Loano, la Di Lernia,
tornata a Milano, era rimasta vittima di una caduta che aveva imposto il suo
ricovero in ospedali e case per anziani; le condizioni di salute dell’anziana donna
erano peggiorate nel corso del mese di settembre, sino a quando il 2 ottobre
2009 la Di Lernia decedeva. Nell’ultima settimana di settembre il Longo, agendo

aveva disposto lo smobilizzo del conto su cui erano depositati titoli intestati alla
Di Lernia e aveva emesso un assegno in favore della propria suocera, amica
anch’ella della Di Lernia; inoltre, dopo l’esecuzione dell’operazione di vendita dei
titoli, il cui ricavato era confluito sul conto corrente della Di Lernia, era stato
incassato un assegno di considerevole importo a firma della Di Lernia, emesso in
favore del Longo.
Deceduta la Di Lernia, non veniva rinvenuto alcun testamento con cui la
donna avesse disposto del suo patrimonio; a distanza di alcuni mesi, il Longo
avviava il procedimento per la nomina del curatore dell’eredità giacente della de
cuius.
I giudici del Tribunale e della Corte d’ Appello ritenevano che la condotta del
Longo, in ragione dell’epoca in cui aveva ordinato ed eseguito le operazioni
bancarie, dell’accertato dato della falsità della sottoscrizione dell’assegno a firma
apparente della Di Lernia, dell’aspettativa non realizzatasi di esser istituto erede
universale, integrasse il contestato delitto di appropriazione indebita.
3. Ha proposto ricorso la difesa dell’imputato, affidato a tre motivi.
3.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia l’inosservanza di norme
processuali stabilite a pena di nullità (art. 552 comma 3 cod. proc. pen., art. 465
cod. proc. pen., in relazione agli artt. 178, 1 comma lett. C), 179, 1 comma,
180, 185 cod. proc. pen. e 143 disp. att. cod. proc. pen.) ai sensi dell’art. 606, 1
comma, lett. C) cod. proc. pen.; ha osservato il ricorrente, ribadendo quanto già
dedotto con i motivi di appello, che erroneamente sia la sentenza impugnata, sia
quella di primo grado, avevano ritenuto infondata l’eccezione di nullità sollevata
con riguardo all’omessa restituzione degli atti al P.M. in conseguenza
dell’accertata omessa notifica sia del decreto di citazione diretta a giudizio, sia
del successivo decreto di anticipazione di udienza; richiamava a sostegno delle
proprie ragioni l’interpretazione degli artt. 185 cod. proc. pen. e 143 disp. att.
cod. proc. pen. contenuta nella sentenza delle Sezioni Unite 29 maggio 2002,
Manca, che aveva individuato nell’ipotesi dell’omessa notifica del decreto di
citazione diretta da parte del P.m. (a differenza delle ipotesi afferenti alla

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in forza della delega a lui conferita, aveva eseguito un bonifico a suo favore,

notificazione eseguita, ma affetta da nullità) la situazione che imponeva la
restituzione degli atti al P.m. per procedere alla rinnovazione degli atti nulli.
3.2. Con il secondo motivo di ricorso, la difesa ha contestato la mancanza,
contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, oltre che l’erronea
applicazione della norma di cui all’art. 646 cod. pen. (art. 606, lett. b) ed e) cod.
proc. pen.). Ha osservato la difesa che la collocazione temporale operata dalla
sentenza di appello delle operazioni disposte dall’imputato alla fine del mese di
settembre dell’anno 2009, eseguite agendo in virtù della delega che aveva

accertate dalla stessa sentenza, poiché quelle operazioni dovevano invece essere
fissate cronologicamente in un momento anteriore, come risultava da altra parte
della decisione, così evidenziando la contraddittorietà della motivazione sul
punto.
3.2.1. Ha poi considerato il ricorrente che in atti non vi sarebbe la prova
della contestata appropriazione, poiché il dato dell’ asserita falsificazione della
firma di traenza degli assegni oggetto di addebito sarebbe smentito dagli atti e
quindi non corrisponderebbe alla condotta tipica dell’interversione del possesso,
necessaria per integrare il delitto contestato, dal momento che gli assegni erano
stati firmati dalla stessa mano, ossia da quella della Di Lernia, e che il ricorrente
aveva agito rispettando e dando esecuzione alla volontà della de cuius.
3.2.2. Ha ancora rilevato che l’omessa individuazione dell’autore della
materiale falsificazione della firma di traenza sugli assegni esaminati dai
consulenti di parte e dal perito nominato dal Tribunale, pur richiesta con specifico
motivo di impugnazione, impediva di attribuire al ricorrente la condotta di
falsificazione e, di conseguenza, anche l’ipotizzata condotta di appropriazione;
ha, infine, rilevato la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione
della sentenza impugnata, relativamente all’accertamento dell’elemento
psicologico del delitto di appropriazione indebita, avendo la Corte affermato che
il Longo aveva agito nella convinzione di essere l’erede universale della Di Lernia
ma che, mancando in atti la prova diretta del momento in cui il ricorrente avesse
avuto contezza della mancata istituzione quale erede universale, doveva ritenersi
che la consapevolezza del Longo al riguardo dovesse essere fissata in un
momento anteriore rispetto all’esecuzione delle operazioni oggetto di
contestazione, risultando successivamente accertata la mancanza del
testamento, elemento che costituiva condizione sufficiente per affermare
l’intervenuta appropriazione; al contrario, dalla mancanza di prova in ordine al
momento in cui il Longo aveva avuto contezza dell’assenza di un testamento che
lo istituisse erede universale, non poteva affermarsi che il Longo fosse stato
consapevole di agire senza averne diritto, dovendosi invece ritenere che il

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ricevuto dalla titolare del conto, non corrispondeva alla realtà delle vicende come

ricorrente avesse operato in funzione delle volontà in precedenza manifestate
dalla Di Lernia, sicché l’eventuale condotta di appropriazione doveva ritenersi
avvenuta in accordo con la volontà del titolare dei beni oggetto della condotta. A
sostegno della coerenza di tale ricostruzione ha rimarcato il ricorrente che, ove il
Longo avesse inteso appropriarsi indebitamente del denaro della Di Lernia, non
avrebbe atteso gli ultimi mesi di vita della donna; non avrebbe fatto ricorso alla
sottoscrizione di assegni con la firma apocrifa della Di Lernia, potendo emettere
assegni con la propria firma; non avrebbe sollecitato personalmente la nomina

3.2.3. Nel corpo del medesimo motivo, il ricorrente ha poi censurato la
valutazione della prova operata dalla sentenza impugnata, quanto alla falsità
delle firme di traenza sugli assegni esaminati dal perito, ritenendo
insanabilmente in contrasto le conclusioni del perito con le prove acquisite nel
dibattimento che dimostravano come il primo degli assegni in questione fosse
stato firmato personalmente dalla Di Lernia, quando aveva provveduto al
pagamento del soggiorno a Loano; nello stesso contesto ha censurato il rigetto
della richiesta istruttoria formulata alla Corte d’Appello, di escutere la titolare
dell’albergo ove aveva soggiornato la Di Lernia, sulla sottoscrizione dell’assegno
con cui fu pagato il soggiorno.
4. Con il terzo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta la mancata
applicazione della scriminante del consenso dell’avente diritto, avendo la Di
Lernia validamente prestato il consenso all’intervento del Longo come delegato
ad operare sul proprio conto corrente, avendolo altresì ripetutamente indicato
come il soggetto che sarebbe stato istituto erede universale della donna.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile, in quanto manifestamente
infondato.
1.1. Dall’esame degli atti risulta che nel corso del giudizio davanti al
Tribunale, alla prima udienza del 14 gennaio 2013, fissata con decreto di
anticipazione dal Presidente del Tribunale del 22 settembre 2012 (rispetto alli
udienza indicata nel decreto di citazione a giudizio per il 15 luglio 2013), era
stata eccepita dalla difesa l’omessa notifica del decreto di citazione diretta a
giudizio e del decreto di anticipazione di udienza all’imputato ed al suo difensore,
nonché l’omessa trasmissione degli atti all’ufficio del p.m. per provvedere alla
nuova notifica della citazione a giudizio; il Tribunale aveva dichiarato la nullità
della citazione, ma aveva provveduto direttamente a disporre la rinnovazione
della notifica del verbale di udienza, con allegato il decreto di citazione a
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del curatore dell’eredità giacente.

giudizio, anziché provvedere a restituire gli atti al p.m. cui, secondo la difesa,
competeva la notifica dell’atto di citazione a giudizio, in precedenza omessa;
l’eccezione era stata reiterata anche nella successiva udienza del 29 aprile 2013,
e il Tribunale aveva nuovamente rigettato la richiesta di restituzione degli atti
all’Ufficio del P.M.
1.2. L’eccezione sollevata dalla difesa (relativamente alla mancata
trasmissione degli atti all’ufficio del P.m. per non essere mai stato notificato
l’originario decreto di citazione diretta a giudizio) è stata correttamente ritenuta

processuali. In primo luogo, va osservato che, come peraltro espressamente
argomentato già dal giudice di primo grado, nel momento in cui (il 22 settembre
2012) fu accolta la richiesta di anticipazione dell’udienza, originariamente fissata
per il 15 luglio 2013, la notifica del decreto di citazione diretta a giudizio non
poteva dirsi non avvenuta per inerzia dell’ufficio, attesa la possibilità, a quella
data, di poter agevolmente provvedere, anche in un momento successivo, alla
notifica del decreto di citazione diretta nel rispetto dei termini di legge; pertanto,
con il decreto di anticipazione dell’udienza originariamente indicata nel decreto di
citazione diretta a giudizio, si era evidentemente aperta la fase degli atti
preliminari al giudizio (art. 465 cod. proc. pen.); inoltre, in ogni caso, con il
ricorso la difesa non specifica quale concreta lesione sarebbe derivata
all’esercizio del diritto di difesa dalla mancata restituzione degli atti all’Ufficio del
P.m., condizione necessaria perché possa essere valutata come rilevante la
dedotta nullità.
2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile nella misura in cui d’un lato
ripropone le censure già formulate in grado di appello, senza specificare
puntualmente, come necessario, i vizi che colpirebbero la motivazione della
sentenza impugnata – denunciandoli peraltro in modo cumulativo e con
un’illustrazione che non consente di ricollegare i singoli vizi ai passaggi della
decisione che dovrebbero dimostrare tali vizi – , dall’altro suggerisce una rilettura
dei dati fattuali che non può formare oggetto dei motivi di ricorso. E’ principio
ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, quello secondo il
quale «in tema di ricorso per cassazione, la denunzia cumulativa, promiscua e
perplessa della inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nonché
della mancanza, della contraddittorietà e della manifesta illogicità della
motivazione rende i motivi aspecifici ed il ricorso inammissibile, ai sensi degli
artt. 581, comma primo, lett. c) e 591, comma primo, lett. c), cod. proc. pen.,
non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare
l’impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dai motivi quelli
suscettibili di un utile scrutinio.» (in questi termini Sez. 1, n. 39122 del

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dalla sentenza d’appello superata dal concreto svolgimento degli eventi

22/09/2015, Rugiano, Rv. 264535; nello stesso senso, Sez. 2, n. 31811 del
08/05/2012, Sardo, Rv. 254329; Sez. 6, n. 800 del 06/12/2011, dep. 2012,
Bidognetti, Rv. 251528), specificando poi, in relazione alla denunzia congiunta
dei tre vizi indicati dall’art. 606 cod. proc. pen., riferita ad un medesimo capo
della decisione, come «il ricorrente che intende denunciare contestualmente, con
riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della
motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell’art. 606, comma primo,
lett. e), cod. proc. pen., ha l’onere – sanzionato a pena di a-specificità, e quindi

asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente
illogica» (Sez. 2, n. 19712 del 06/02/2015, Alota, Rv. 263541). La lettura del
motivo di ricorso in esame riconduce di frequente ad una differente lettura dei
dati di prova, così sollecitando un giudizio sul fatto che non può formare oggetto
del giudizio di legittimità, peraltro contraddicendo elementi testuali evidenziati
dalla decisione impugnata.
2.1. Così, quanto al presupposto di fatto da cui muove il ricorrente, nel
contestare la sussistenza della condotta di reato, lo stesso è smentito dagli atti:
rispetto ai dati documentali presi in considerazione dalla sentenza impugnata per
individuare le condotte di appropriazione (ossia, il bonifico di 20.000 euro
disposto dal Longo in data 29.9.2009 a suo favore su un conto corrente intestato
al Longo – operazione eseguita il 5.10.2009 – ; l’ordine dato il 30.9.2009, di
vendita di tutti i titoli della Di Lernia, con accredito delle somme ottenute sul
conto corrente intestato alla donna – operazione eseguita il 5.10.2009 – ;
l’incasso di un assegno di C 98.000 emesso a favore del Longo, con
sottoscrizione della Di Lernia, incasso avvenuto il 5.10.2009 – dopo l’accredito
delle somme derivanti dalla vendita dei titoli -; l’incasso in data 6.10.2009 di un
assegno di C 2.000, emesso dal Longo a favore di Paolucci Maria, amica della Di
Lernia e suocera del Longo) il ricorrente indica una differente collocazione
temporale (peraltro, di una sola operazione eseguita dall’imputato, ossia quella
dell’emissione dell’assegno dell’importo di C 98.000) che dovrebbe emergere
dalla stessa sentenza. La decisione aveva accertato come la Di Lernia, dopo aver
trascorso un periodo di vacanza presso un albergo a Loano nel mese di luglio
dell’anno 2009, provvedendo al pagamento delle spese con un assegno tratto sul
suo conto corrente, la mattina del 21 luglio 2009 era caduta in casa a Milano
riportando conseguenze che avrebbero imposto il ricovero, prima in ospedale,
poi presso una struttura per anziani, con declino fisico e mentale acuitosi
nell’ultima settimana del mese di settembre, sino al decesso avvenuto il 2
ottobre 2009. Secondo la ricostruzione del ricorrente, poiché gli assegni per il
pagamento delle spese di vacanza e quello emesso a favore del Longo erano

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di inammissibilità, del ricorso – di indicare su quale profilo la motivazione

successivi quanto alla numerazione e erano risultati sottoscritti dalla medesima
persona, era conseguenza logica incontestabile che anche l’assegno emesso a
favore del Longo fosse stato sottoscritto dalla Di Lernia, evidentemente prima di
subire l’infortunio che avrebbe determinato l’irreversibile aggravamento delle sue
condizioni di salute (e, dunque, nel mese di luglio del 2009).
La prospettazione del ricorrente si scontra, però, con il dato, acquisito agli
atti, del carattere apocrifo di entrambe le sottoscrizioni apposte sui due assegni
(come attestato dalla perizia della parte civile e da quella di ufficio disposta dal

indicati nel ricorso, con le quali la Corte d’appello ha evidenziato l’anomalia
dell’emissione e della sottoscrizione di un assegno sin dal mese di luglio dell’anno
2009, assegno poi incassato poco prima che la Di Lernia decedesse, emesso per
un importo che avrebbe trovato corrispondenza nella provvista ottenuta solo
dopo che il Longo aveva dato l’ordine di vendere tutti i titoli di proprietà della Di
Lernia, sempre alcuni giorni prima del decesso della titolare (avvenuto, come
detto, il 2 ottobre 2009). Le ipotesi alternative formulate con il ricorso (la Di
Lernia potrebbe aver emesso l’assegno in bianco, in un momento in cui una serie
di circostanze avevano indotto la Di Lernia a manifestazioni di gratitudine e
fiducia nei confronti del Longo) appaiono frutto di riletture dei dati fattuali, che
non possono evidentemente formare oggetto di valutazione nel giudizio di
legittimità.
2.2. Anche la censura relativa all’insussistenza del presupposto per ritenere
integrata l’appropriazione indebita muove da una premessa che non è corretta;
è pacifico che la tesi di accusa non si fondava sul solo dato della falsificazione
della firma della Di Lernia sull’assegno emesso a favore del Longo, ma sul
complesso dei dati fattuali, analizzati e valutati con motivazione coerente dal
giudice d’appello, dati che riguardavano una serie di operazioni bancarie,
eseguite dal Longo, per disporre delle somme presenti sul conto corrente
intestato alla Di Lernia, agendo al di là dei poteri conferiti con la delega rilasciata
dalla Di Lernia, come doveva desumersi dalle modalità esecutive delle operazioni
eseguite dal Longo nei giorni immediatamente antecedenti e successivi al
decesso della Di Lernia. In quelle circostanze, infatti, per le condizioni fisiche e
psichiche della di Lernia, non contestate, è pacifico che non potessero esser date
disposizioni per operare sul conto corrente intestato alla donna; sicché le
operazioni eseguite costituirono atti di sicura interversione del possesso del
denaro, possesso che il Longo aveva in ragione della delega a lui rilasciata, con
la definitiva attribuzione alla sfera patrimoniale del Longo mediante le ricordate
operazioni bancarie, senza che sussistesse alcun valido titolo al riguardo (quale
l’auspicata istituzione come erede universale del Longo).

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Giudice) oltre che con le considerazioni logiche, non superate dagli argomenti

2.3. Egualmente inconsistenti le censure relative all’illogicità della
motivazione (di cui non si predica il carattere manifesto) in ordine alla
sussistenza dell’elemento psicologico richiesto dalla norma incriminatrice; i
giudici di appello (in sintonia, del resto, con la statuizione di primo grado) hanno
correttamente evidenziato come l’argomento speso dalla difesa, circa la
convinzione del Longo di dover essere istituito erede universale della Di Lernia,
dovesse essere letto in collegamento con le condotte poste in essere, con le
modalità su ricordate, che denotavano la sopravvenuta consapevolezza da parte

redatta; da quella consapevolezza erano derivate le decisioni di procedere ad
attribuire a sé (e alla Paolucci, suocera del Longo) le somme, oggetto delle
operazioni freneticamente disposte negli ultimi giorni di vita della Di Lernia;
atteggiamento che, sempre in chiave logica, risulterebbe del tutto
incomprensibile ove il Longo avesse mantenuto la fiducia e l’aspettativa
dell’avvenuta redazione di un testamento a suo favore (risultando lineare, in
quella situazione, attendere l’apertura della successione per vedersi attribuiti i
beni promessi in vita dalla Di Lernia). Inoltre, la motivazione della sentenza dà
conto anche delle ragioni per le quali non appaiono rilevanti, quali elementi
sintomatici dell’illogicità della ricostruzione, le condotte del Longo relative alla
richiesta di dare corso alla procedura per l’apertura del procedimento di
volontaria giurisdizione volto alla nomina della curatrice dell’eredità giacente
(motivatamente correlata con l’esigenza di veder riconosciute e rimborsate le
spese che il Longo aveva dovuto sopportare per la gestione condominiale
dell’appartamento della de cuius), così come quella della scelta di procedere alla
falsificazione dell’assegno (argomento confutato con gli argomenti su riportati).
2.4. Per quanto concerne il profilo relativo all’omessa pronuncia sulla
richiesta di rinnovazione della perizia di ufficio, è evidente la superfluità
dell’accertamento indicato dal ricorrente (e motivatamente contrastato dalla
decisione impugnata, alla stregua delle condivise indicazioni emergenti dalla
sentenza di primo grado e dall’intervenuta depenalizzazione della condotta di
falsificazione operata), essendo in ogni caso di per sé significativo, dal punto di
vista probatorio, il dato dell’utilizzazione dell’assegno con la firma apocrifa,
indipendentemente dall’attribuzione specifica della condotta di falsificazione della
sottoscrizione (in ragione dei dati obiettivi concernenti il possesso da parte del
Longo dei carnet di assegni che venivano utilizzati per operare sul conto corrente
della Di Lernia e dell’utilizzo dell’assegno recante la firma apocrifa, già sufficienti
a dimostrare la consapevole utilizzazione del titolo di credito con la sottoscrizione
apposta da soggetto diverso dalla titolare del conto).

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del ricorrente che nessuna disposizione testamentaria a suo favore fosse stata

3. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile. Il ricorrente, infatti, censura
l’omessa applicazione della scriminante putativa del consenso dell’avente diritto,
motivo che non ha costituito oggetto dell’impugnazione proposta in sede di
appello, sicché il relativo esame è evidentemente precluso in questa sede (cfr. da
ultimo Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017, Bolognese, Rv. 26974501: «Non
possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il
giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunziarsi perché non
devolute alla sua cognizione»).
Sulla scorta delle considerazioni che precedono, alla declaratoria di

inammissibilità del ricorso consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la
condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al
versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che,
considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente
in euro duemila.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e al pagamento della somma di euro duemila in favore della
Cassa delle ammende.
Così deciso l’ 8/11/2017.

4.

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