Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 53184 del 12/10/2017


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 53184 Anno 2017
Presidente: FUMO MAURIZIO
Relatore: CATENA ROSSELLA

SENTENZA
sul ricorso proposto da
Fontana Marisandra, nata a Sonico (BS), il 11/09/1955,
avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano emessa in data 19/10/2016;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere dott.ssa Rossella Catena;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.
Mario Pinelli, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito per la ricor rente il difensore di fiducia, Avv.t o Ca rio Beltrani, che ha
concluso per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1.Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Milano confermava la
sentenza emessa dal Tribunale di Milano in data 21/02/2013, con cui Fontana
Marisandra era stata condannata a pena di giustizia, oltre che al risarcimento dei
danni nei confronti della costituita parte civile, in relazione al delitto di cui agli
artt. 110 cod. pen., 216, comma 1, nn. 1 e 2, 219 comma 2 n. 1, 223, perché,
quale amministratrice di fatto della Elle Design s.r.I., dichiarata fallita il
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Data Udienza: 12/10/2017

10/07/2008, in concorso con Cuzzola Domenico, amministratore unico della
società dal 18/11/2006, e con suo figlio Bertoli Federico, a) assumeva il governo
dell’azienda, sottraendolo – con artifici e raggiri – alla precedente amministratrice
Trinca Lucia, b) costituiva – all’uopo – la Groupage Design s.p.a., di cui ella
stessa era amministratrice e socia, nonché – per interposta partecipazione
attraverso la BF Holding s.r.I.- il figlio Bertoli Federico, c) cedeva, di fatto, alla
Groupage Design s.p.a. l’azienda (E Ile Design s.r.I.), comprensiva di arredi,
avviamento ed attrezzature, senza farsi riconoscere alcuna contropartita e
lasciando alla fallenda azienda l’onere relativo ai canoni di leasing immobiliare

Design s.p.a. macchinari, impianti, mobili ed arredi, iscritti nel bilancio il
3/12/2005 in euro 214.000,00, che venivano repentinamente trasferiti in
Albania, non appena si apprendeva del fallimento della cedente; occultava
l’intero impianto contabile ed i libri sociali, impedendo al curatore di ricostruire il
patrimonio ed il movimento degli affari, specie con riguardo ai rapporti
obbligatori con Groupage Design s.p.a. C on l’aggravante di aver commesso
plurimi fatti di bancarotta.

2. Con ricorso depositato il 24/11/2016 Fontana Marisandra ricorre, a mezzo del
difensore di fiducia Avv.to Carlo Beltrani, per:
2.1. violazione di legge e vizio di motivazione, ex art. 606, lett. b) ed e), cod.
proc. pen., in relazione agli artt. 40, 43, 62 bis, cod. pen., 216, 219, 223 r.d. n.
267/1942, 25, 546 cod. proc. pen., essendo l’impianto motivazionale
contraddittorio; in particolare, se alla fine del 2005 la società era già destinata al
fallimento, come si legge alla pag. 3 della sentenza, non si comprende come la
condotta della ricorrente avrebbe potuto incidere sulla verificazione dell’eventofallimento, con ciò venendo meno sia l’elemento materiale della condotta che il
nesso di causalità tra la condotta della ricorrente ed il dissesto della fallita, tanto
alla luce della disposizione di cui all’art. 40, comma 1, cod. pen., oltre che della
giurisprudenza di legittimità, con particolare riferimento alla sentenza n. 47502
del 2012, Corvetta, ampiamente citata in ricorso, che ha ribadito come la
sentenza dichiarativa di fallimento debba essere inquadrata tra gli elementi
costitutivi del reato e non possa essere, invece, considerata condizione obiettiva
di punibilità; benché la giurisprudenza di legittimità abbia, in seguito, ribadito
che il fallimento non possa essere considerato evento del reato, in ricorso si
sostiene che l’indirizzo giurisprudenziale della sentenza Corvetta consentirebbe di
ritenere del tutto irrilevante la condotta della ricorrente, che avrebbe gestito il
tentativo di concordato fallimentare nella sua qualità di esperto contabile;
pertanto, dalla sua qualifica professionale e dall’incarico rivestito, discenderebbe

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sul capannone aziendale. In particolare: cedeva gratuitamente a Groupage

l’assenza di qualsivoglia rappresentazione e/o volizione dell’elemento materiale
del reato, come sottolineato dalla stessa giurisprudenza di legittimità laddove è
stata affermata la necessità della consapevolezza, da parte dell’imprenditore, di
sottrarre beni alla esecuzione concorsuale (Sez. 5, sentenza n. 14905 del
25/02/1977, Marzolo, RV. 137341), ovvero la necessità della consapevolezza, da
parte dell’imprenditore che distacchi un bene dal suo patrimonio, di aggravare lo
stato di dissesto (Sez. 5, sentenza n. 7178 del 10/05/1983, Calzolari, Rv.
160107); nel caso in esame, le sentenze di merito non avrebbero chiarito quali
beni sarebbero stati distratti, né quando, né quale sarebbe stato il ruolo della

sentenza impugnata, consistente nell’emissione delle tre fatture dell’importo di
euro 221.000,00, che sarebbero rimaste insolute per mancato pagamento, la
Corte avrebbe ascritto detta operazione alla ricorrente basandosi sull’erroneo
presupposto che ella avesse costituito la Groupage Design s.p.a. nel 2006, di cui
era stata amministratrice unica, mentre risulterebbe dai documenti prodotti che
la detta società era stata costituita per iniziativa di altro soggetto, Bosio Alberto,
il quale ne era stato amministratore proprio nel periodo in cui la Groupage
Design s.p.a. e la Elle Design s.r.I., in persona della Trinca Lucia, avevano
sottoscritto l’accordo commerciale riferibile alle fatture, mentre la ricorrente solo
nel gennaio 2008 era divenuta amministratrice della Groupage Design s.p.a.; in
ogni caso, la Corte di merito avrebbe ravvisato la condotta distrattiva nel
mancato pagamento delle fatture, mentre risultano i pagamenti effettuati dalla
Groupage Design s.p.a. dagli estratti conto della Banca Antonveneta allegati dal
curatore alla documentazione trasmessa al pubblico ministero, ed ignorata dalla
Corte di merito; inoltre, palese risulterebbe la contraddittorietà della
motivazione, nella parte in cui la Corte territoriale avrebbe omesso di
considerare che, se vi fosse stato un effettivo depauperamento, non si
spiegherebbe come mai le passività rilevabili dal bilancio al momento del
fallimento fossero di gran lunga inferiori a quelle rilevate alla data del
31/12/2005, e, soprattutto, che le stesse fossero diminuite di un valore
superiore a quello delle attività che erano state cedute o liquidate in altro modo;
né sarebbe in alcun modo dimostrato l’elemento soggettivo del delitto di
bancarotta, atteso che la ricorrente aveva interesse a che la società mantenesse
la propria vitalità, alla luce delle sue competenze professionali; ci si duole del
mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, ritenendosi,
inoltre, che non avrebbe dovuto essere applicata la circostanza di cui all’art. 219,
comma secondo, legge fallimentare, la quale detta una disciplina derogatoria
rispetto a quella di cui all’art. 81, comma 2, cod. pen., non costituendo, invece,

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ricorrente; quanto all’operazione di spoliazione individuata a pag. 9 della

una circostanza aggravante, come indicato dalle Sezioni Unite nel 2011,
sentenza n. 21039;
2.2. mancata assunzione di una prova decisiva, ex art. 606, lett. d), cod. proc.
pen., in relazione alla richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale
formulata con il gravame, a fronte della motivazione della Corte di merito che,
da un lato, ha affermato che erano state omesse le circostanze su cui avrebbe
dovuto vertere l’esame dei testi, e, dall’altro, ha affermato che non sarebbe stato
possibile escutere il teste Bosio, date le già infruttuose ricerche dello stesso in
primo grado, senza fornire alcuna dimostrazione della persistenza delle dette

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.
1.Sotto un primo aspetto va osservato, alla luce della formulazione dei motivi di
ricorso nonché dall’esame dell’atto di appello, come entrambi gli atti di
impugnazione si fondino su di una piena adesione, da parte della difesa, alle
argomentazioni contenute nella sentenza emessa da questa Sez. 5, n. 47502 del
24/09/2012, Corvetta, Rv. 253493, secondo cui, nel reato di bancarotta
fraudolenta per distrazione, lo stato di insolvenza che dà luogo al fallimento
costituisce elemento essenziale del reato, in qualità di evento dello stesso, e
pertanto deve porsi in rapporto causale con la condotta dell’agente e deve
essere, altresì, sorretto dall’elemento soggettivo del dolo.
Senza voler ripercorrere in questa sede lo sviluppo logico-argomentativo della
citata pronuncia, anche considerata l’ampia citazione di brani della stessa in sede
di ricorso, ciò che va, tuttavia, ribadito è l’orientamento assolutamente difforme
della successiva giurisprudenza di legittimità (per tacere di quello antecedente),
sia da parte delle sezioni semplici che da parte di questa Corte nel suo massimo
consesso; ne consegue che il principio di diritto che deve orientare la valutazione
di legittimità, ed a cui questo Collegio ritiene di aderire in relazione alla sentenza
in esame, è quello secondo cui, ai fini della sussistenza del reato di bancarotta
fraudolenta per distrazione, non è necessaria la sussistenza di un nesso causale
tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento, trattandosi di reato di pericolo
a dolo generico per la cui configurazione, pertanto, non è necessario che l’agente
abbia consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né che abbia agito
allo scopo di recare pregiudizio ai creditori; l’irrilevanza di un nesso causale tra
fatti di distrazione e dissesto dell’impresa fa sì che, una volta intervenuta la
dichiarazione di fallimento, detti fatti assumano rilevanza penale in qualsiasi

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difficoltà, con compressione del diritto della difesa.

tempo siano stati commessi e, quindi, anche quando l’insolvenza non si era
ancora manifestata (Sez. U, sentenza n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli ed
altro, Rv. 266804; Sez. 5, sentenza n. 47616 del 17/07/2014, Simone, Rv.
261683; Sez. 5, sentenza n. 35093 del 04/06/2014, P.G. in proc. Sistro, Rv.
261446; Sez. 5 sentenza n. 26542 del 19/03/2014, Riva, Rv. 260690; Sez. 5,
sentenza n. 32352 del 07/03/2014, Tanzi ed altri, Rv. 261942; Sez. 5, sentenza
n. 11095 del 13/02/2014, Ghirardelli, Rv. 262741; Sez. 5, sentenza n. 21846 del
13/02/2014, Bergamaschi, Rv. 260407; Sez. 5, sentenza n. 11793 del
05/12/2013, dep. 11/03/2014, Marafioti ed altri, Rv. 260199; Sez. 5, sentenza

3229 del 14/12/2012, dep. 22/01/2013, Rossetto ed altri, Rv. 253932; Sez. 5,
sentenza n. 7545 del 25/10/2012, dep. 15/01/2013, Lanciotti, Rv. 254634; Sez.
5, sentenza n. 232 del 09/10/2012, dep. 07/01/2013, Sistro, Rv. 254061).
Tale più che consolidato orientamento non ha, peraltro, impedito alla
giurisprudenza di questa Corte, soprattutto in epoca recente, di affrontare
ulteriori profili nevralgici della fattispecie di reato in esame, sotto diversi e
complementari aspetti, tutti, peraltro accomunati dal denominatore costituito
dall’esigenza di rispettare il parametro dell’art. 27, primo comma, Cost., come
illustrato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 1085 del 1988, che,
richiede “quale essenziale requisito subiettivo d’imputazione, oltre alla coscienza
e volontà dell’azione od omissione, almeno la colpa quale collegamento
subiettivo tra l’autore del fatto ed il dato significativo (sia esso evento oppur no)
addebitato..”, aggiungendo la necessità che risulti anche “la rimproverabilità
dello stesso soggettivo collegamento”.
Questa esigenza, senza alcun dubbio, emerge dalla motivazione della sentenza
della Sez. 5, n. 13910 del 08/02/2017, Santoro, Rv. 269388, che, in riferimento
alla bancarotta fraudolenta prefallimentare, ha individuato nella dichiarazione di
fallimento un evento estraneo all’offesa tipica ed alla sfera di volizione
dell’agente, affermando che essa costituisca, pertanto, una condizione obiettiva
di punibilità, che circoscrive l’area di illiceità penale alle sole ipotesi nelle quali,
alle condotte del debitore, di per sé offensive degli interessi dei creditori, segua
la dichiarazione di fallimento.
Detta pronuncia, tra l’altro, contiene una critica puntuale delle conclusioni
raggiunte dalla sentenza Corvetta – basata sul dato normativo, per il quale la
rilevanza del rapporto causale tra condotta e dissesto è previsto per le sole
fattispecie di bancarotta impropria ex art. 223, secondo comma, legge
fallimentare, oltre che sul carattere di mero paralogismo dell’affermazione
secondo cui il fallimento è l’evento del reato, ed, infine sulla problematica
ipotizzabilità di un rapporto causale tra dissesto e fatti di bancarotta

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n. 27993 del 12/02/2013, Di Grandi ed altri, Rv. 255567; Sez. 5, sentenza n.

documentale (come già evidenziato da, Sez. 5, sentenza n. 32352 del
07/03/2014, Tanzi ed altri, Rv. 261942; Sez. 5, n. 32031 del 07/05/2014,
Daccò, Rv. 261988; Sez. 5, n. 15613 del 05/12/2014, Geronzi, Rv. 263805) -.
Con la precedente sentenza Santoro, poi, la Corte esamina criticamente
l’orientamento secondo cui la sentenza dichiarativa di fallimento integrerebbe
una condizione di esistenza del reato, come categoria concettualmente
diversificata da quella di elemento costitutivo, che ne segna, cioè, il momento
consumativo, senza, tuttavia, che ad essa possa essere attribuita la qualifica di
evento del reato stesso.

31/03/2016, Passarelli, Rv. 266804 – che ha evidenziato come l’effettiva offesa
alla conservazione dell’integrità del patrimonio dell’impresa, costituente la
garanzia per i creditori della medesima, funga da parametro della concreta
applicazione della norma incriminatrice e consenta di configurare il reato di
bancarotta in esame come di pericolo concreto -, come validata sia dalle
pronunce sulla così detta bancarotta “riparata” (Sez. 5, sentenza n. 52077 del
04/11/2014, Lelli, Rv. 261347), che dagli approdi in tema di elemento
psicologico – “la cui sussistenza richiede la rappresentazione da parte dell’agente
della pericolosità della condotta distrattiva, da intendersi come probabilità
dell’effetto depressivo sulla garanzia patrimoniale che la stessa è in grado di
determinare e, dunque, la rappresentazione del rischio di lesione degli interessi
creditori tutelati dalla norma incriminatrice (Sez. 5, sentenza n. 15613 del
05/12/2014, dep.15/04/2015, Geronzi, Rv.263803) –

la sentenza Santoro,

citata, ha affermato che, in sostanza, “il dolo di bancarotta investe anche la
pericolosità di tale condotta rispetto alla preservazione della garanzia
patrimoniale dei creditori, in tal modo rivelando la fraudolenza degli atti posti in
essere (Sez. 5, n. 9807 del 13/02/2006, Caimmi, Rv. 234232, in motivazione)”.
Tuttavia, essa ha proseguito, gli analizzati approdi giurisprudenziali se, da un
lato, manifestano l’esigenza di risolvere i problemi processuali, tra cui
l’individuazione del /ocus commissi delicti, sotto altro aspetto, tradiscono “la
difficoltà di giustificare l’irrilevanza dell’accertamento del nesso causale e
psicologico tra la condotta dell’agente e la dichiarazione di fallimento e,
soprattutto, di spiegarne la compatibilità con i principi costituzionali in materia di
personalità della responsabilità penale”,

essendo evidente che il fallimento in

quanto tale non costituisca oggetto di rimprovero per l’agente.
A fronte della difficoltà concettuale di poter qualificare come elemento costitutivo
di una fattispecie criminosa la dichiarazione di fallimento quale provvedimento
emesso dall’Autorità giudiziaria, e chiarito che la ricostruzione riguarda
esclusivamente la fattispecie di bancarotta prefallimentare, la pronuncia – dopo

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Procedendo, quindi, attraverso l’analisi della sentenza delle Sez. U, n. 22474 del

aver ricordato il principio espresso dall’art. 2740 cod. civ. ed i rimedi specifici
previsti dall’ordinamento in funzione della garanzia patrimoniale dei creditori, ai
sensi degli artt. 2900 e 2901 cod. civ. – ha osservato come le indicazioni
normative specificamente riguardanti gli imprenditori trovino il loro fondamento
costituzionale nell’art. 41 Cost., a mente del quale l’iniziativa economica privata
non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana; da ciò discende che l’imprenditore ”

non ha una sorta di jus utendi et abutendi sui beni aziendali, i quali, viceversa,
pur essendo strumentali al legittimo obiettivo del raggiungimento del profitto

negativo’, nel senso che degli stessi non può farsi un utilizzo che leda o metta in
pericolo gli interessi costituzionalmente tutelati cui sopra si è fatto cenno.”
Dalla pluralità e complessità di interessi coinvolti, discende, quindi – secondo la
sentenza Santoro -, che l’offesa agli interessi patrimoniali dei creditori si realizza
indubbiamente già con l’atto depauperativo dell’imprenditore, come dimostrato,
tra l’altro, in tema di misure cautelari personali, ai fini della valutazione delle
esigenze di cui all’art. 274 cod. proc. pen., dalla circostanza che il tempo
trascorso dalla commissione del fatto viene determinato dalla giurisprudenza di
questa Corte, avendo riguardo all’epoca in cui le condotte illecite sono state
poste in essere e non al momento in cui è intervenuta la dichiarazione giudiziale
di insolvenza (Sez. 5, sentenza n. 9280 del 14/10/2014, dep. 03/03/2015,
Cassina, Rv. 263586).
Ne consegue, quindi, che “resta confermato che l’offensività tipica dei fatti

previsti dal legislatore sussiste a prescindere dalla dichiarazione di fallimento, la
quale, precludendo all’imprenditore ogni margine di autonoma capacità di
risoluzione della crisi, rende semplicemente applicabile (perché ritenuta
necessaria dal legislatore) la sanzione penale”; pertanto, la dichiarazione di
fallimento, in quanto evento estraneo all’offesa tipica ed alla sfera di volizione
dell’agente, rappresenta una condizione estrinseca di punibilità che – in linea con
la giurisprudenza della Corte costituzionale – restringe l’area del penalmente
illecito, imponendo la sanzione penale solo in quei casi nei quali alle condotte del
debitore, di per sé offensive degli interessi dei creditori, segua la dichiarazione di
fallimento.
L’inquadramento della sentenza dichiarativa di fallimento nella categoria
concettuale della condizione obiettiva di punibilità – elemento condizionante che
funge da filtro selettivo nel ricorso alla sanzione criminale per fatti pur
astrattamente meritevoli di pena – si sottrae alla regola della rimproverabilità ex
art. 27, primo comma, Cost., rendendo più rispondente al principio di
colpevolezza l’affermazione secondo cui tale dichiarazione assume valore per gli

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dell’imprenditore medesimo, sono finalisticam ente vincolati, per così dire, ‘in

effetti giuridici che essa produce e npn per i fatti da essa accertati (Sez. U, n.
19601 del 28/02/2008, Niccoli, Rv. 239398).
Peraltro, come osservato dalla sentenza Santoro, detta qualificazione non è
suscettibile di determinare alcun significativo mutamento nelle regole operative
relative alla prescrizione, se solo si considera che l’art. 158, comma secondo,
cod. pen., stabilisce che quando la legge fa dipendere la punibilità del reato dal
verificarsi di una condizione, il termine della prescrizione decorre dal giorno in
cui la condizione si è verificata; il che dimostra, tra l’altro, che, nel dettare la
disciplina delle questioni che presuppongono la consumazione del reato, è

“In altri

termini, se pure è vero che, dal punto di vista dell’offesa, la massima gravità
concreta del fatto si è raggiunta, in termini di disvalore, in epoca anteriore alla
realizzazione della condizione, è però anche vero che, secondo quanto lo stesso
legislatore mostra di ritenere, in presenza di una condizione di punibilità, occorre
attribuire rilievo anche al momento (e quindi al luogo) in cui si realizza
l’opportunità della punizione.”
Immediatamente successive alla sentenza Santoro si collocano le sentenze di
questa Sez. 5, n. 17819 del 24/03/2017, Palitta, Rv. 269562, e n.38396 del
23/06/2017, Sgaramella ed altro, Rv. 270763.
Con la sentenza Palitta è stata illustrata analiticamente la natura del reato di
bancarotta fraudolenta, quale reato di pericolo concreto, alla luce di
un’approfondita e completa disamina della giurisprudenza di questa Corte,
culminata nella sentenza delle Sezioni Unite, Passarelli, cit.; in particolare, la
sentenza Palitta ha affermato che, in relazione alla bancarotta fraudolenta,
l’offensività della condotta si realizza allorquando l’atto depauperativo crei “un

vulnus all’integrità della garanzia dei creditori in caso di apertura della procedura
concorsuale”, chiarendo come la ricostruzione della condotta distrattiva in
termini di pericolo presunto implicherebbe una serie di presunzioni, funzionali
alla rimproverabilità della esposizione a pericolo del patrimonio, destinata a
sfociare in reato fallimentare una volta intervenuta la sentenza dichiarativa di
fallimento, il che renderebbe la fattispecie molto vicina ad una vera e propria
ipotesi di responsabilità oggettiva.
Con la seconda pronuncia, Sgaramella, si è specificato che la rilevanza penale
della condotta di bancarotta, indipendentemente dalla distanza temporale che la
separa dalla sentenza dichiarativa di fallimento, non comporta affatto né la
radicale indifferenza del dato cronologico, né la ricostruzione del reato quale
fattispecie di pericolo concreto: sotto il primo aspetto, infatti, il giudice deve
sempre e comunque dare conto dell’effettiva offesa alla massa dei creditori
cagionata dalla condotta, quindi tenendo conto anche del fattore cronologico,

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proprio il verificarsi della condizione che assume rilievo determinante.

costituito dalla distanzia dalla sentenza di fallimento e, congiuntamente, delle
ripercussioni della stessa sull’asse patrimoniale, oltre che di eventuali condotte
compensative di detto squilibrio economico; sotto il secondo aspetto si è
sottolineata la rilevanza che, ai fini di detto inquadramento, assume l’elemento
psicologico del reato. La bancarotta distrattiva è reato a dolo generico, per
pacifica giurisprudenza di legittimità, ribadita dalle Sezioni unite con la sentenza
Passarelli, cit., i cui specifici contenuti sono stati individuati proprio in riferimento
alla valorizzazione del profilo di reato di pericolo concreto. Il dolo, quindi,
consiste nella rappresentazione dell’effetto depressivo sulla garanzia

ossia, in una parola, la pericolosità della condotta stessa, intesa come
consapevolezza della sua dannosità rispetto agli interessi del ceto creditorio;
detta consapevolezza, inoltre, non può essere separata dalla intrinseca
fraudolenza della condotta distrattiva, senza che ciò implichi alcun involgimento
della categoria del dolo specifico, atteso che la coscienza e volontà di compere
atti di distrazione non richiede affatto il fine specifico di arrecare pregiudizio ai
creditori, pur dovendosi verificare comunque che il soggetto agente si prefiguri
una situazione di pericolo concreto, in tal senso.
E’ ovvio che la casistica concreta impone degli specifici oneri motivazionali al
giudice di merito, considerato che tra gli estremi di condotte di ridotta incidenza,
isolate e/o realizzate quando l’impresa era in bonis, tali da non determinare una
sensibile alterazione della funzione di garanzia patrimoniale, e le condotte seriali
di spoliazione dell’impresa in una fase di già evidente e conclamata decozione, si
collocano una miriade di situazioni intermedie, rispetto alle quali appare evidente
la necessità di puntuale e completa concretizzazione dell’onere motivazionale,
che dia conto del pericolo effettivo e dell’elemento soggettivo del dolo generico,
valutato alla stregua degli indici di fraudolenza della condotta (sia presenti che
assenti), in modo da poter effettuare, in termini di prognosi postuma, la
ricognizione della concreta messa in pericolo dell’integrità del patrimonio e la sua
proiezione soggettiva alla luce delle specifiche connotazioni del caso concreto,
tenendo conto anche dei canoni di ragionevolezza cui deve essere improntata
l’attività imprenditoriale, funzionali, questi ultimi, alla verifica di una condotta
imprenditoriale anomala e non certamente al sindacato delle scelte discrezionali
dell’imprenditore.
In tal senso, come opportunamente sottolineato dalla pronuncia in esame,
“l’onere motivazionale relativo alla sussistenza del dolo generico di bancarotta
fraudolenta patrimoniale è, nella sua essenza, del tutto analogo a quello che, in
generale, è imposto al giudice penale nell’accertamento del dolo, accertamento
che, per sua natura, deve far leva su dati esteriori e obiettivi, valutati, nella loro

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patrimoniale che, in termini di probabilità, la condotta è in grado di determinare,

valenza dimostrativa, sulla base di massime di esperienza”,

dovendosi

aggiungere che, nella specifica fattispecie, “la base conoscitiva costituita dai dati
esteriori sui quali deve incentrarsi l’indicato modus procedendi deve essere
orientata, come si è detto, alla ricerca dei possibili ‘indici di fraudolenza’
espressivi della consapevolezza della concreta pericolosità, rispetto alle ragioni
creditorie, del fatto di bancarotta, sicché l’ampiezza di tale base deve essere
inevitabilmente commisurata al grado di significatività di detti indici”.
Dall’inquadramento della fattispecie nella categoria dei reati di pericolo concreto,
discende che, per il perfezionamento della stessa, non sia richiesta la sussistenza

potendo essi assumer rilievo penale, alla luce della positiva verifica illustrata, in
qualsiasi epoca commessi, persino quando l’impresa non versava ancora in
condizione di insolvenza.
Detta ricostruzione, sempre secondo la motivazione della sentenza illustrata,
appare in linea con il principio di offensività e con quello di colpevolezza, come
delineati alla luce della giurisprudenza costituzionale (Corte costituzionale,
sentenze n. 265 del 2005 e n. 225 del 2008) nonché dalla giurisprudenza delle
Sezioni unite di questa Corte di legittimità (sentenza n. 28605 del 24/04/2008,
Di Salvia), apparendo del tutto ininfluente, quindi, la qualificazione della
sentenza di fallimento come condizione obiettiva di punibliltà piuttosto che come
elemento costitutivo del reato, secondo il precedente, del tutto consolidato,
orientamento, non potendosi sterilizzare, in ogni caso, la necessità di una
puntuale indagine sulla imputabilità soggettiva del pericolo concreto per il ceto
creditorio.
In tal modo, quindi, anche alla luce delle più recenti elaborazioni della
giurisprudenza di questa Corte, appare evidente come da un lato siano stati
definitivamente chiariti i profili di riferibilità soggettiva delle condotte di
bancarotta fraudolenta prefallimentare, e, dall’altro, come detti aspetti risultino
assolutamente compatibili con la qualificazione della sentenza dichiarativa di
fallimento come condizione estrinseca di Punibilità.
In tal senso, d’altra parte, si è chiaramente espressa la già ricordata sentenza
delle Sezioni Unite, Passarelli, la quale, pur non facendo riferimento

apertis

verbis alla condizione obiettiva di punibilità, ha rilevato che la dichiarazione di
fallimento costituisce “un evento successivo” alla distrazione “e comunque
esterno alla condotta stessa”, al cui verificarsi è subordinata la punibilità della
distrazione.
Si deve, peraltro, aggiungere che solo detta ultima qualificazione rende più
coerente il sistema nel suo complesso, atteso che necessariamente la condizione
estrinseca di punibilità si pone al di fuori della sfera di ricaduta degli elementi

di un nesso di causalità tra i fatti di bancarotta ed il successivo fallimento,

costitutivi del reato nel fuoco del dolo, il che appare di gran lunga più aderente ai
principi generali in tema di imputazione soggettiva; in caso contrario, infatti, si
dovrebbe ripercorrere l’inutilmente defatigante iter costituito dai tentativi, mai
coerentemente e pienamente realizzati, di conciliare la qualificazione della
sentenza di fallimento come elemento costitutivo del reato con la sua anomala
estraneità ed indifferenza rispetto all’elemento soggettivo del reato stesso,
atteso che pacificamente oggetto del dolo non può che essere il fatto costitutivo
del delitto in tutte le sue componenti, rispetto alle quali deve sussistere la
coscienza e volontà del soggetto agente; non comprendendosi come detta

fallimento emessa dall’Autorità giudiziaria – del tutto estraneo alla sfera volitiva
del soggetto, seppure suscettibile di rientrare nella sua sfera conoscitiva,
peraltro come evenienza possibile del tutto avulsa dalla sfera di influenza
dell’agente in senso deterministico.
Peraltro va ricordato che lo stesso giudice delle leggi, in relazione alla natura
della sentenza dichiarativa di fallimento si è pronunciato nel senso che “si tratta

di situazione consequenziale alla scelta discrezionale del legislatore di
configurare la sentenza di fallimento (o di accertamento dello stato di insolvenza
dell’impresa) o come elemento costitutivo del reato (secondo la prevalente
giurisprudenza), o come condizione obiettiva del reato, ovvero come condizione
per la produzione dell’evento costituito dalla lesione o messa in pericolo
dell’interesse tutelato dalla norma penale (secondo diverse impostazioni della
dottrina)” (Corte costituzionale, sentenza n. 301 del 2005, in materia di
legittimità costituzionale degli artt. 82, comma secondo, d.lgs. n. 385 del
01/09/1993 e 202 legge fallimentare, nella parte in cui prevede che la
dichiarazione giudiziale dello stato di insolvenza successiva al decreto di
sottoposizione a liquidazione coatta amministrativa di un istituto di credito possa
intervenire anche dopo il decorso di un anno dalla data di emissione di detto
decreto).
Tanto premesso, va detto che, nel caso in esame, alla luce delle motivazioni
delle sentenze di merito, che si integrano reciprocamente, è emerso che, a
seguito della crisi di fatturato verificatasi alla fine del 2005, con il venir meno di
uno dei più importanti clienti, l’amministratrice della Elle Design s.r.l. si era
rivolta alla Fontana quale professionista esperta di ristrutturazioni aziendali;
quest’ultima aveva, pertanto, avviato un concordato stragiudiziale anche in
funzione di un rilancio delle attività, inserendo la società in un più ampio piano di
aggregazione di imprese, tra cui era inclusa la Groupage s.r.I., riconducibile a
Bosio Alberto, già cliente della Fontana; nel 2006, inoltre, era stata costituita, su
iniziativa della Fontana, che in seguito ne era divenuta anche amministratrice, la

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coscienza e volontà possa investire un fatto – la sentenza dichiarativa di

Groupage Design s.p.a., di cui erano socie la Groupage s.r.l. e la BF Holding
s.r.I., riconducibile al figlio della Fontana; quest’ultima, che aveva assunto di
fatto il controllo della Elle Design s.r.I., aveva poi dirottato verso la costituita
Groupage Design s.p.a. tutte le attività in corso della Elle Design s.r.I., mentre la
Groupage Design s.p.a., in cambio, avrebbe dovuto contribuire a pagare i debiti
della Elle Design s.r.l. nell’ambito del concordato stragiudiziale.
I giudici di merito hanno ricostruito le vicende sulla scorta delle dichiarazioni di
Trinca Lucia – già amministratrice della società fallita – e della stessa Fontana,
concordi sotto il profilo della ricostruzione storica della vicenda: risultava essersi

Fontana come consulente, allorquando era stato concordato che il progetto di
aggregazione di imprese per rilanciare l’attività si sarebbe dovuto articolare, in
particolare, attraverso la costituzione della droupage Design s.p.a., che avrebbe
dovuto sostenere finanziariamente il concordato della Elle Design s.r.l. che, in
cambio, avrebbe dovuto mettere a disposizione della prima società strutture,
contratti in corso e dipendenti.
All’esito della ricostruzione, come integrata dagli ulteriori apporti testimoniali, le
sentenze di merito hanno verificato che la Groupage Design s.p.a. aveva già dal
2006 iniziato ad operare all’interno del capannone di Nerviano acquisito in
leasing dalla Elle Design s.r.I., senza corrispondere i canoni, avendone poi
acquistato arredi, mobili, attrezzature e macchinari ed avendone portato avanti i
lavori ed eseguito i contratti, il tutto in una situazione di irreversibile crisi
finanziaria già conclamata nel 2005.
Il concordato stragiudiziale, quindi, era risultato un mero espediente per
procrastinare il fallimento della Elle Design s.r.I., anche alla luce del fatto che
non risulta che fossero state reperite in alcun modo le risorse finanziarie
necessarie per pagare i creditori in base al concordato, ad esclusione dei
dipendenti ed i fornitori, ossia coloro che avrebbero potuto più facilmente
richiedere il fallimento, mentre non erano stati pagati l’erario, creditore
privilegiato, e le banche. In tale ottica, quindi, nonostante la consapevolezza che
la società non si sarebbe mai potuta riprendere, si era collocata la
predisposizione del piano di aggregazione fra imprese, pur sapendo che lo stesso
non avrebbe avuto alcuna seria possibilità di giungere ad un esito positivo. In
ogni caso, attraverso detto piano, si era formalmente legittimato il subentro della
Groupage Design s.p.a. nelle residue attività della Elle Design s.r.I., attraverso la
sottoscrizione di un accordo commerciale in data 27/06/2006 e la
predisposizione di tre fatture, solo apparentemente utili allo scopo; ed infatti,
come specificato nella motivazione della sentenza di primo grado, la Gropuage
Design s.p.a., come si evince dall’analisi dei risultati finali della esecuzione del

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delineato uno stato di crisi della società già nel 2005, all’atto di ingresso della

citato accordo, aveva finanziato i conti della Elle Design s.r.l. per soli 145.497,00
euro, di cui euro 122.000,00 destinati a pagare debiti personali di Trinca Lucia,
aveva utilizzato il capannone senza pagarne i canoni, aveva utilizzato impianti ed
attrezzature poi trasportati dapprima nelle Marche, presso la AB Metal, poi in
Albania, aveva acquisito e portato a termine contratti i cui utili erano risultati
notevolmente superiori agli importi erogati a favore della Elle Design s.r.l. per
sostenere il concordato; quanto alle fatture prodotte, la sentenza ha affermato
che l’importo complessivo delle stesse, pari ad euro 221.000,00 circa, risultava
più alto delle somme affluite sul conto corrente della Elle Design s.r.I., né risulta

elementi per ritenere i detti documenti fiscali inattendibili (genericità delle
causali, importi non corrispondenti alle valorizzazioni di bilancio per attrezzature
ed impianti; confusione tra le attività delle due società che, dal 2006, operavano
nello stesso capannone; assenza della contabilità della Elle Design s.r.l. dal
2006, con impossibilità di verificare le fatture, dalla cui numerazione progressiva
emergeva come verosimilmente le stesse fossero state emesse in epoca
posteriori rispetto alla cessaziohe dell’attività della società fallita).
Altri elementi significativi ai fini della dimostrazione della fraudolenta
predisposizione del concordato, sono costituiti: 1) dalla mancata tenuta della
contabilità in detta fase, dalla cessione delle quote della Elle Design s.r.I., alla
fine del 2006, nonché della carica di amministratore unico, ad un soggetto del
tutto estraneo alle vicende societarie, Cuzzola Domenico; 2) dallo svuotamento
del capannone di Nerviano da parte della Fontana, quale amministratrice della
Groupage Design s.p.a., al momento della dichiarazione di fallimento della Elle
Design s.r.I., di tutti i beni e le attrezzature ivi esistenti, ancora di proprietà della
società fallita, in quanto il corrispettivo pattuito per la cessione di azienda, di
euro 200.000,00, non era mai stato corrisposto. Detti beni, come già chiarito,
erano stati dapprima trasferiti nella Marche, quindi in Albania, dove era stata
trasferita la sede legale della Groupage Design s.p.a.; nulla, quindi, era stato
rinvenuto dal curatore fallimentare a fronte del passivo quantificato in oltre
1.440.000,00 euro.
Detta ricostruzione è stata condivisa dalla Corte territoriale con motivazione
logica ed immune da censure rilevabili in sede di legittimità, otre che coerente
con gli orientamenti giurisprudenziali in precedenza illustrati.
Il ricorso, quindi, si basa sulla contestazione di passaggi ricostruttivi della
vicenda, peraltro sottoponendo a questa Corte una valutazione alternativa dei
fatti, basata su affermazioni indimostrate e non documentate, oltre che
involgenti una valutazione essenzialmente di merito, preclusa in sede di
legittimità.

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essere stata pagata la differenza a credito, sussistendo, peraltro, numerosi

2. In relazione alla mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, va
osservato che la Corte territoriale avesse respinto la richiesta, evidenziando
come la stessa non fosse basata su alcuna specificazione delle circostanze su cui
i testi avrebbero dovuto essere escussi.
Il ricorso, sul punto, non ha fornito alcuna argomentazione per confutare detto
passaggio motivazionale né, tantomeno, per esplicitare la decisività, ai fini della
ricostruzione della vicenda, caratterizzante l’esame dei testi; detta circostanza
appare di assorbente rilevanza, anche in relazione alla deposizione del teste
Bosio, il quale, già irreperibile nel corso del giudizio di primo grado, non

preliminari, atteso che, se egli avesse in quella sede fornito rilevanti e decisive
informazioni, non si comprende come mai la difesa non avesse quanto meno
richiesto l’acquisizione del verbale reso dal Bosio ai sensi dell’art. 512 cod. proc.
pen.
3. In relazione, infine, alla determinazione della pena, il primo giudice aveva
correttamente ravvisato la pluralità di fatti di bancarotta, rilevando l’assenza di
elementi positivamente valutabili ai fini della concessione delle circostanze
attenuanti generiche. La Corte territoriale, a sua volta, ha sottolineato la
presenza di una precedente condanna e l’intensità del dolo, ricollegabile alla
specifica competenza professionale dell’imputata, rilevando, peraltro, che la pena
inflitta fosse prossima al minimo edittale.
Il ricorso non ha fornito specifici elementi favorevoli al riconoscimento delle
circostanze attenuanti generiche, non potendo, peraltro, contestare la
circostanza che la pena inflitta – pari ad anni tre mesi tre di reclusione, ritenuta
la pluralità di fatti di bancarotta – sia stata correttamente qualificata dalla Corte
territoriale come prossima al minimo edittale.
Di tutta evidenza appare, infine, che la pena sia stata determinata in coerenza
con la sentenza delle Sez. U, n. 21039 del 27/01/2011, P.M. in proc. Loy,
massimata nel senso che “In tema di reati fallimentari, nel caso di consumazione
di una pluralità di condotte tipiche di bancarotta nell’ambito del medesimo
fallimento, le stesse mantengono la propria autonomia ontologica, dando luogo
ad un concorso di reati, unificati, ai soli fini sanzionatori, nel cumulo giuridico
previsto dall’art. 219, comma secondo, n. 1, legge fa/I., disposizione che
pertanto non prevede, sotto il profilo strutturale, una circostanza aggravante, ma
detta per i reati fallimentari una peculiare disciplina della continuazione
derogatoria di quella ordinaria di cui all’art. 81 cod. pen.”
In motivazione la sentenza citata ha chiarito che “L’art. 219, comma secondo, n.
1, legge fa/I. disciplina, nella sostanza, un’ipotesi di concorso di reati autonomi e
indipendenti, che il legislatore unifica fittiziamente agli effetti della individuazione

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sembrerebbe essere mai stato escusso neanche nella fase delle indagini

del regime sanzionatorio nel cumulo giuridico, facendo ricorso formalmente allo
strumento tecnico della circostanza aggravante. Tale scelta appare chiaramente
ispirata dall’esigenza, avvertita dal legislatore, di mitigare le conseguenze
sanzionatorie e di non pervenire a forme di repressione draconiana dei reati di
bancarotta, la cui pluralità in un fallimento è evenienza fisiologica. Detta norma
non dà vita a un reato unico nella forma del reato complesso ex art. 84, comma
primo, seconda parte, cod. pen., con riferimento all’ipotesi in cui ‘la legge
considera come circostanze aggravanti di un solo reato fatti che costituirebbero,
per se stessi, reato’: il reato complesso, certamente costruito come reato unico a

esemplificativamente, al furto aggravato dalla violazione del domicilio, al
danneggiamento aggravato dalla minaccia o dalla violenza concretizzatasi in sole
percosse), mentre difetta tale contestualità nei fatti di bancarotta riconducibili a
distinte azioni criminose.
Non può parlarsi neppure di reato abituale , considerato che tale categoria
penalistica richiede la reiterazione nel tempo di condotte omogenee e una
differenza qualitativa tra la volontà del fatto singolo e la volontà del fatto
complessivo, mentre le condotte di bancarotta sono o possono essere
eterogenee e la prospettazione soggettiva dell’agente non subisce mutamento
alcuno per il moltiplicarsi delle condotte medesime
Conclusivamente, l’art. 219, comma secondo, n.1, legge fall, altro non è che
un’ipotesi di concorso di reati, icasticamente definita da una parte della dottrina
come una sorta di ‘continuazione fallimentare, regolamentata in deroga alla
disciplina generale sul concorso di reati e sulla continuazione.
Non è un caso che rambito di operatività della norma coincide con quello
dell’art. 81, comma secondo, cod. pen., così come modificato dall’art. 8 d.l. 11
aprile 1974, n. 99 (introdotto dalla legge di conversione 7 giugno 1974, n. 220):
la norma codicistica fa riferimento sia all’inosservanza di ipotesi delittuose
diverse, sia alla violazione della medesima disposizione di legge; la norma della
legge fallimentare deve intendersi, come meglio si preciserà in seguito,
applicabile sia in caso di ‘più fatti’ costituenti reiterazione della medesima
fattispecie tipica, sia in caso di ‘più fatti’ rappresentanti la realizzazione di
situazioni differenti.”
Alla luce di quanto chiarito dalle Sezioni Unite, quindi, la determinazione della
pena appare del tutto corretta.
Dal rigetto del ricorso discende, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

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tutti gli effetti, è integrato da fatti-reato realizzati contestualmente (si pensi,

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del
procedimento.
Così deciso in Roma, il 12/10/2017

Il Consigliere estensore

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