Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 53159 del 26/10/2017


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 53159 Anno 2017
Presidente: ROMIS VINCENZO
Relatore: GIANNITI PASQUALE

SENTENZA

sui ricorsi proposti da
De Lorenzis Carlo, nato il 23/09/1960
D’Alessandro Nicola, nato il 10/02/1964
De Vitto Giandomenico, nato il 18/10/1939

avverso la sentenza del 08/02/2017 della Corte di appello di Lecce;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Pasquale Gianniti;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Carmine
Di Stabile, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi;
udito il difensore della parte civile Punzi Francesco, avv. Pasquale Carleto, che ha
concluso chiedendo il rigetto del ricorso con condanna dei ricorrenti alla rifusione
delle spese di giudizio;
udito il difensore dei ricorrenti D’Alessandro e De Vitto, avv. Angelo Vantaggiato,
che ha concluso chiedendo l’accoglimento dei ricorsi;
udito il difensore del ricorrente De Lorenzis, avv. Luigi Maria Vetere, che ha
concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

Data Udienza: 26/10/2017

RITENUTO IN FATTO

1.De Lorenzis Carlo, in qualità di progettista e direttore dei lavori
incaricato dalla Sig. ra Romano Tosca, Del Vitto Giandomenico, in qualità di
istruttore del progetto presentato dalla Romano, e D’Alessandro Nicola, quale
dirigente del settore urbanistica Ambiente del Comune di Nardò, venivano tratti
a giudizio davanti al Tribunale di Lecce per rispondere di concorso nei reati di

contestato, perché, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, nelle
suddette qualità, avevano provocato un ingiusto vantaggio patrimoniale alla
Sig.ra Romano Tosca.
In particolare – avendo la Sig.ra Romano Tosca, a mezzo del suo
progettista De Lorenzis, presentato in data 15/2/2007 nel Comune di Nardò un
progetto per la costruzione di volumi tecnici e modifiche al piano seminterrato;
ed avendo la Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio in data
24/9/2007 approvato i lavori, con alcune prescrizioni (i volumi tecnici – centrale
termica, deposito gasolio e centrale idrica – avrebbero dovuto essere spostati in
prossimità della scale ed in maniera parallela alla stessa e avrebbero dovuto
essere di dimensioni più ridotte; inoltre, avrebbe dovuto essere escluso il muro
alto posto sul parapetto del lato destro al fine di lasciare libere le visuali verso il
mare) – in data 14/10/2008 era stato rilasciato alla Sig.ra Romano il permesso a
costruire n. 462 a firma dell’Ing. D’Alessandro, con il parere favorevole dell’Ing.
Vitto dell’11/8/2008, nel quale era falsamente attestato l’avvenuto adeguamento
alle prescrizioni della Soprintendenza. Infatti, l’integrazione alla pratica edilizia,
presentata in data 11/8/2008 dal progettista Ing. De Lorenzis, aveva disposto
parallelamente al vano scala soltanto un volume tecnico ed aveva aumentato la
loro superficie utile, passando da mq. 12,48 a mq. 17,58.
Il solo De Lorenzis veniva tratto a giudizio davanti allo stesso Tribunale
per rispondere anche di concorso nel reato di cui all’art. 44 comma 1 lett. c) dPR
n. 380/2001 (di cui al capo B), commesso in Nardò il 19/11/2009, perché, in
concorso per l’appunto con la Sig.ra Romano Tosca, aveva realizzato al primo
piano dell’abitazione esistente, in assenza di permesso a costruire ed in zona
sottoposta a vincolo paesaggistico, 6 pilastri in cemento armato per la successiva
edificazione di 3 volumi tecnici.

2. Il Tribunale di Lecce, con sentenza emessa in data 8/4/2013 ad esito di
giudizio ordinario, dichiarava tutti e tre i suddetti imputati responsabili dei reati
loro ascritti a titolo di concorso e, ritenuta la continuazione tra i due reati ascritti

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abuso d’ufficio e falso in atto pubblico (di cui al capo A), concorso agli stessi

al De Lorenzis, condannava quest’ultimo alla pena di anni

1 e mesi 1 di

reclusione e gli altri due imputati alla pena di anni 1 di reclusione, oltre al
pagamento delle spese processuali. Quanto precede con ordine di demolizione di
tutte le opere abusivamente indicate, se non eseguita. Pena sospesa per tutti
alla condizione del risarcimento del danno entro il termine di giorni 60 dal
passaggio in giudicato della sentenza. E con condanna degli imputati, in solido
tra loro, al risarcimento dei danni, liquidati in via equitativa nella misura di euro
5 mila nei confronti della costituita parte civile Punzi Francesco.

imputati per aver procurato intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale
a Romano Tosca, rilasciando il permesso di costruire n. 462 del 14/10/2008
contenente la falsa attestazione dell’avvenuto adeguamento alle prescrizioni
imposte dalla Soprintendenza.

3. La Corte di appello di Lecce con sentenza del 22 giugno 2015, in
riforma della sentenza di condanna emessa in primo grado, assolveva De
Lorenzis Carlo, D’Alessandro Nicola e Del Vitto Giandomenico dai reati di abuso
d’ufficio e falso in atto pubblico (capo A). Assolveva altresì De Lorenzis Carlo,
progettista e direttore dei lavori, dal reato di esecuzione di opere in zona
vincolata in assenza di permesso di costruire (capo B).
Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, la Corte di
appello, nella sentenza di assoluzione, valutava decisivo il contenuto del parere
della Soprintendenza, ritenendo che, essendo quello espressione di un giudizio di
merito, le indicazioni in esso contenute – oggetto della falsa attestazione di
adeguamento – fossero da considerarsi tamquam non essent, così da escludere
la sussistenza dei reati di falso e di abuso, e, quindi, conseguentemente la
violazione edilizia.

4. Avverso tale provvedimento ricorreva il Procuratore Generale della
Repubblica presso la Corte di Appello di Lecce, deducendo in un unico articolato
motivo la violazione di legge ed il vizio di motivazione della sentenza.
In particolare, il Procuratore Generale ricorrente: a) evidenziava che il
d.Ig. n. 42 del 2004, art. 159, nel testo vigente (dal 12/05/2006 al 23/04/2008)
all’epoca dei fatti, pur non attribuendo alla Soprintendenza un potere di
annullamento del nulla-osta paesaggistico per motivi di merito, “riconosceva ad
essa un controllo di mera legittimità che peraltro poteva riguardare tutti i
possibili vizi tra cui anche l’eccesso di potere” (Corte cost. n. 367 del 2007); b)
aggiungeva che, in tal senso, la stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato
aveva sottolineato che le valutazioni di competenza della Soprintendenza

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In sintesi, la sentenza di primo grado affermava la responsabilità degli

costituivano espressione di un potere di amministrazione attiva, non di mero
controllo, potendo valutare la congruenza del giudizio di compatibilità
paesaggistica dell’intervento; c) precisava che, nella specie, il parere della
Soprintendenza del 24/09/2007 aveva ad oggetto l’autorizzazione paesaggistica
comunale n. 103/2007, che conteneva una mera motivazione di stile (“ritenuto
possa concedersi il nulla osta richiesto in quanto l’intervento non contrasta con
l’ambiente circostante”); pertanto, in carenza di motivazione del nulla-osta, era
legittima la valutazione in concreto contenuta nel provvedimento della

panoramica del luogo; d) precisava ancora che, peraltro, con comunicazione del
05/12/2007 il dirigente del settore urbanistica del Comune di Nardo aveva
comunicato agli interessati che la domanda di permesso di costruire poteva
“essere accolta alle condizioni dell’ufficio (altezza dei muri d’attico, compreso
quelli esistenti sia max cm 100) e della Soprintendenza BAP/PSAE di Lecce”, in
tal senso, dunque, facendo proprie il Comune le prescrizioni dell’ente preposto
alla tutela del vincolo, queste erano per ciò stesso vincolanti; e) aggiungeva
ancora come in ordine alla falsità delle attestazioni sull’adeguamento della nuova
tavola 3 del progetto alle prescrizioni della Soprintendenza, erronea era la
valutazione della sentenza della Corte di appello, che aveva escluso il reato di
falso, sul presupposto che tali prescrizioni fossero inefficaci, ed invece, ove
avesse inteso disattendere il parere, l’amministrazione avrebbe ben potuto
motivare espressamente, ma certo non affermare falsamente un adeguamento in
realtà mai avvenuto; f) lamentava la contraddittorietà della valutazione operata
dalla sentenza impugnata, con riferimento alla difformità delle opere assentite
rispetto alle prescrizioni della Soprintendenza relative allo spostamento dei 3
volumi tecnici ed all’esclusione del muro alto sul parapetto, finalizzato alla tutela
della visuale, ed alla previsione di un maggior ingombro dei vani tecnici, che,
riguardando interventi in difformità in zona vincolata, costituivano variazioni
essenziali ex art ex art 32, comma 3D P R n 380 del 2001, di tal che, sotto tale
ultimo profilo, il progetto avrebbe dovuto essere nuovamente sottoposto al
parere della Soprintendenza.
Gli imputati D’Alessandro Nicola e Del Vitto Giandomenico, tramite il loro
difensore di fiducia, depositavano memoria, con richiesta di inammissibilità o
rigetto del ricorso del Procuratore Generale.

5. La Terza Sezione Penale di questa Corte con sentenza del 4/5/2016 ha
accolto l’impugnazione proposta, ritenendo fondata: sia la prima e preliminare
doglianza, inerente il ribaltamento della sentenza condannatoria di primo grado,
non avendo la sentenza della Corte di Appello impugnata assolto al dovere di

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Soprintendenza, in particolare con riferimento alla tutela del vincolo della visuale

motivazione “rinforzata”, derivante dalla riforma della sentenza di condanna
emessa in primo grado; sia la seconda doglianza inerente la violazione di legge.
Invero, la Corte regolatrice ha osservato: da un lato, che «la sentenza

impugnata, dunque, lungi dal confutare specificamente le ragioni poste dal primo
giudice a sostegno dell’affermazione di responsabilità, dimostrando
puntualmente l’insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più
rilevanti, ha assertivamente aderito, in maniera acritica, alle deduzioni difensive
riproposte con l’atto di appello, senza un confronto argomentativo con le diffuse

che «In ogni caso, oltre al profilo del vizio di motivazione, la sentenza impugnata

incorre altresì nel vizio di violazione di legge»

come dedotto nell’atto di

impugnazione.
Pertanto, la Terza Sezione Penale di questa Corte ha annullato la
sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Lecce
per un nuovo esame.

6. La Corte di appello di Lecce, quale giudice di rinvio, con la sentenza
impugnata:
-quanto al delitto di cui al capo B, contestato al solo imputato De
Lorenzis, dopo aver premesso che detto reato era stato consumato in data
19/11/2009 e che il termine prescrizionale massimo era rimasto sospeso per n.
18 mesi e 16 giorni, per effetto dei rinvii, disposti su richiesta dei difensori, ha
ritenuto spirato detto termine in data 5/5/2016 ed ha conseguentemente
ritenuto superfluo procedere alla disamina, disposta nella sentenza di
annullamento, non essendovi stata rinuncia alla prescrizione da parte
dell’imputato e non risultando evidente dagli atti compiuti la prova
dell’insussistenza del fatto attribuito al prevenuto, né che questo non lo abbia
commesso;
-quanto ai fatti di cui al capo A, contestati a tutti e tre gli imputati, in
punto di penale responsabilità, ha integralmente confermato la sentenza emessa
in primo grado dal Tribunale di Lecce; mentre, in punto di trattamento
sanzionatorio, ha rideterminato la pena, concedendo le attenuanti generiche
(negate in primo grado) ed ha sospeso la pena, come rideterminata, alla
condizione del risarcimento del danno.

7. Avverso la sentenza emessa dal giudice del rinvio, tramite rispettivi
difensori di fiducia, propongono ricorso tutti gli imputati.

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motivazioni espresse al riguardo dalla sentenza di primo grado»; e, dall’altro,

8.11 ricorso presentato nell’interesse del De Lorenzis è affidato a 4 motivi.
8.1. Nel primo si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in
punto di ritenuta sussistenza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, dei reati di
falso ideologico e di abuso di ufficio.
Il ricorrente – dopo aver ricordato che agli atti del processo erano stati
acquisiti: a) il progetto da lui presentato per Romano Tosca con tutte le tabelle;
b) il parere della Soprintendenza con visto di approvazione; c) la sua relazione
integrativa con le tabelle ad essa allegata; d) la consulenza di parte dell’Ing.

l’intenzionalità della condotta, come invece affermato nella impugnata sentenza,
ma) l’assoluta estraneità sua e degli altri due imputati ai fatti contestati.
Premette che lui, quale direttore dei lavori e progettista, nella
integrazione istruttoria successiva al parere della Sovrintendenza, aveva
chiaramente affermato di non aver rispettato pedissequamente le prescrizioni
della Sovrintendenza (spiegandone i motivi) ed aveva allegato una nuova tavola
3 (che era diversa dalla tavola 3 precedente, allegata al progetto). Aggiunge che
il permesso di costruire aveva richiamato gli atti istruttori, tra i quali
espressamente la nuova tavola 3, ritenendo “adeguati” i cambiamenti da lui
apportati al progetto. Osserva che tale formula rinviava agli atti istruttori
analiticamente specificati, ma non era idonea a porre l’atto adottato al riparo da
eventuali impugnazioni in via amministrativa o giudiziaria; donde le censure di
violazione della normativa circa la valutazione del materiale probatorio raccolto e
di contraddittorietà della motivazione con detto materiale. Si duole del fatto che
il coefficiente psicologico della condotta contestata era stato ravvisato sul
presupposto di una “falsa attestazione” che invece non vi era stata (se non per
l’adozione di una frase linguisticamente discutibile).
8.2. Nel secondo si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in
punto di ritenuta sussistenza del concorso materiale tra il reato di falso
ideologico ed il reato di abuso di ufficio, nonché in punto di mancato
assorbimento di quest’ultimo reato nel reato di falso.
Il ricorrente sottolinea che la condotta è stata unica ed univoca. Essa si
era sostanziata in una mera dichiarazione di adeguatezza e, precisamente, nella
circostanza che il Comune di Nardò aveva errato nel considerare e nel dichiarare
le modifiche progettuali adeguate al parere della Sovrintendenza, ragion per cui,
secondo il ricorrente, ove mai detta condotta fosse delittuosa, si dovrebbe
ritenere integrato al più il solo reato di falso, anche in considerazione del
carattere sussidiario del reato di abuso di ufficio.

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Cordella – deduce che dai suddetti documenti emergerebbe (non già

8.3. Nel terzo si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in
punto di ritenuta sussistenza del concorso del privato nei reati ex artt. 323 e 479
c.p.
Il ricorrente richiama al riguardo la giurisprudenza di legittimità secondo
la quale la collusione non può essere dedotta come mera coincidenza tra la
richiesta del privato ed il provvedimento posto in essere dal funzionario (essendo
invece necessario che il contesto fattuale, i rapporti personali tra le parti o altri
dati di contorno dimostrino che la presentazione della domanda è stata

comunque da pressioni dirette a sollecitarlo ovvero a persuaderlo al compimento
dell’atto illegittimo).
8.4. Nel quarto si denuncia vizio di motivazione in punto di avvenuta
subordinazione del beneficio della sospensione della pena alla condizione del
risarcimento del danno.
Il ricorrente – dopo aver premesso che il danno era stato quantificato in
soli 5 mila euro e che la subordinazione era stata giustificata con riferimento alla
“maggior tutela degli interessi della parte offesa” – si lamenta della incongruità di
tale giustificazione, in quanto “giammai potrebbero ritenersi incapienti le
esecuzioni eventualmente attivate nei confronti di un Dirigente dell’Urbanistica,
di un libero professionista e di un tecnico comunale, chiamati a pagare in solido
fra loro la mera somma di euro 5 mila”.

9. Anche i ricorsi presentati nell’interesse del Del Vitto e del D’Alessandro
sono affidati a 4 motivi, nei quali vengono ripercorse le stesse argomentazioni
svolge nel ricorso presentato nell’interesse dell’imputato De Lorenzis

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.1 ricorsi non sono fondati.

2.In primo luogo può essere utile precisare che, essendosi verificato il
fatto contestato in data 14 ottobre 2008 ed essendo intervenuti periodi di
sospensione per complessivi mesi 18 e giorni 16, alla data della pronuncia della
presente sentenza, il termine prescrizionale di anni 7 e mesi 6 non è scaduto.

3. Ciò posto, occorre ripercorrere il fatto, veicolato dalle sentenze dei
giudici di merito, nonché le carenze ed i vizi segnalati dalla Corte regolatrice
nella sentenza di annullamento al fine di verificare poi, alla luce della natura e

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preceduta, accompagnata o seguita da un’intesa con il pubblico funzionario o

dell’ambito propri del sindacato di legittimità, se a dette carenze e vizi la Corte
territoriale, quale giudice di rinvio, ha posto rimedio con la impugnata sentenza.
3.1. Orbene – secondo la ricostruzione fattuale effettuata dal Giudice di
primo grado sulla base della documentazione acquisita (pp. 3 e ss.) – sono
risultati provati i seguenti fatti in relazione ai lavori edili eseguiti sul fabbricato,
costituente l’abitazione di Romano Tosca, sita in Nardò ed insistente in zona
sottoposta a vincolo paesaggistico.
Precisamente, in relazione a detto fabbricato, un primo progetto,

permesso di costruire, aveva ottenuto dal D’Alessandro, quale funzionario
dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune, l’autorizzazione paesaggistica (in forza
della sub delega prevista dall’art. 23 della L. Regione Puglia n. 20/2001).
Tuttavia, era successivamente intervenuta la Soprintendenza per i beni
architettonici e paesaggistici, la quale, esercitando i poteri di controllo ad essa
affidati dalla legge, pur non rilevando profili di illegittimità del progetto con
riferimento al piano paesaggistico vigente, aveva espresso un parere favorevole
alla condizione del rispetto di determinate condizioni, finalizzate ad evitare che
gli ampliamenti progettuali – asseritamente destinati alla realizzazione di volumi
tecnici (per: centrale idrica; centrale termica; deposito di gasolio) – si
risolvessero in un pregiudizio per il godimento paesaggistico e panoramico della
veduta sul mare.
Era stato quindi presentato dal De Lorenzis un nuovo progetto, in forza
del quale – su conforme parere dell’istruttore Del Vitto – il dirigente del settore
Urbanistico, D’Alessandro Nicola, aveva rilasciato il permesso di costruire (in atti)
sulla base del quale erano state quindi eseguite le opere di cui al capo B),
attestando sia il Del Vitto che il D’Alessandro, negli atti di rispettiva competenza
(parere istruttorio e permesso di costruire), che erano state rispettate le
prescrizioni poste dalla Soprintendenza, laddove ciò non era affatto vero.
3.2. La Terza Sezione Penale di questa Corte, come rilevato nel ritenuto in
fatto, con sentenza 4/5/2016 ha annullato la sentenza 22/6/2015, con la quale
la Corte di appello di Lecce, in riforma della sentenza di condanna emessa in
primo grado, aveva assolto il De Lorenzis, il D’Alessandro ed il Del Vitto dai reati
di abuso d’ufficio e falso in atto pubblico (di cui al capo A), nonché il De Lorenzis
Carlo anche dal reato di esecuzione di opere in zona vincolata in assenza di
permesso di costruire (capo B).
Detto annullamento è stato disposto, avendo questa Corte ravvisato sia
vizi motivazionali che violazioni di legge nella sentenza impugnata in quel
giudizio di legittimità.

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presentato dall’ing. De Lorenzis su incarico della Romano, per il rilascio del

A) Sotto il primo profilo, questa Corte regolatrice, nella sentenza di
annullamento – dopo aver ricordato che, in tema di motivazione della sentenza, il
giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo
di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e
di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della
prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o
incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato – ha
ritenuto che il giudice di appello, nell’assolvere gli imputati, non aveva

sentenza di condanna emessa in primo grado.
Ciò in quanto: il giudice di primo grado: a) aveva fondato l’affermazione
di penale responsabilità, quanto al reato di falso, sull’oggettiva testuale
attestazione dell’avvenuto adeguamento alle prescrizioni espresse dalla
Soprintendenza (aventi ad oggetto lo spostamento e la riduzione delle
dimensioni dei tre volumi tecnici e l’esclusione del muro alto sul parapetto, ai fini
della tutela della visuale) contenuta nel permesso di costruire rilasciato; e sul
dato di fatto che, contrariamente a quanto attestato, l’adeguamento era stato
eseguito solo in riferimento alla prescrizione dell’eliminazione del “muro alto”; b)
aveva fondato l’affermazione di penale responsabilità, quanto al reato di abuso
d’ufficio, nel rilascio del permesso di costruire sul falso presupposto, e sulla falsa
attestazione, della conformità alle prescrizioni impartite dalla Soprintendenza; c)
si era confrontato “con diffusa motivazione, anche nella ricostruzione in fatto (p.

1-19)” con le deduzioni difensive relative all’asserita esistenza di limiti al
sindacato della Soprintendenza, affermando la legittimità delle prescrizioni
impartite dall’Autorità titolare della tutela del vincolo, nell’espressione del parere
previsto dall’art. 146, comma 5, d.lgs. 42 del 2004, e nella vigenza della
disciplina transitoria prevista dall’art. 159 del medesimo Codice ambientale.
Al contrario, il giudice di appello, si era limitato ad argomentare che
all’epoca la Soprintendenza esercitava un mero sindacato di legittimità (come
previsto dall’art. 159 d.lgs. 42/2004 nel regime transitorio vigente fino al
31/12/2009), essendo stato riconosciuto un sindacato di merito soltanto in epoca
successiva; con la conseguenza che le prescrizioni dalla stessa impartite,
essendo espressione di un (allora) non riconosciuto sindacato di merito,
potevano essere considerate tamquam non essent e, comunque, non erano state
disattese, in quanto il direttore dei lavori aveva motivato le diverse modalità di
adeguamento deducendo ragioni di staticità.
In definitiva, secondo la sentenza di annullamento, la sentenza del giudice
di appello, lungi dal confutare specificamente le ragioni poste dal primo giudice a
sostegno dell’affermazione di responsabilità, dimostrando puntualmente

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adempiuto l’obbligo di motivazione “rinforzata” derivante dalla riforma della

l’insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti, aveva
assertivamente aderito, in maniera acritica, alle deduzioni difensive riproposte
con l’atto di appello, senza un confronto argomentativo con le diffuse motivazioni
espresse al riguardo dalla sentenza di primo grado.
B) D’altra parte, la Terza Sezione Penale di questa Corte, nella sentenza
di annullamento, ha ritenuto che “in ogni caso”, oltre al profilo del vizio di
motivazione, la prima sentenza d’appello incorreva altresì nel vizio di violazione
di legge.

giudice di appello in ordine a detto reato (sull’assunto che, riguardando la falsa
attestazione prescrizioni ritenute inefficaci, non fosse integrata la tipicità dell’art.
479 cod. pen.) non era conforme alla giurisprudenza di legittimità, secondo la
quale, in tema di falso documentale, anche nell’atto dispositivo é configurabile la
falsità ideologica in relazione alla parte descrittiva in essa contenuta e, più
precisamente, in relazione all’attestazione, non conforme a verità, dell’esistenza
di una situazione costituente il presupposto indispensabile, anche se implicito,
del compimento dell’atto (Sez. 5, n. 24972 del 26/04/2012, Donati, Rv.
253320); il pubblico ufficiale che, nel documentare l’attività valutativa di cui è
incaricato, dichiari di avere assunto dati diversi da quelli realmente acquisiti
ovvero affermi di avere utilizzato elementi in realtà inesistenti, compie una falsa
attestazione, idonea ad integrare il reato di cui all’art. 479 cod. pen. (Sez. 5, n.
39360 del 15/07/2011, Gulino, Rv. 251533). Secondo i dicta contenuti nella
sentenza di annullamento, “prescindendo dalle asserite valutazioni dei funzionari

comunali, ritenute conformi alle spiegazioni fornite dal direttore dei lavori, De
Lorenzis, qualsivoglia valutazione non può privare di contenuto offensivo il fatto,
oggettivamente accertato, che il permesso di costruire contenesse
un’attestazione, non conforme al vero, dell’avvenuto adeguamento alle
prescrizioni della Soprintendenza. Del resto, se l’ente comunale avesse inteso
operare una valutazione difforme, avrebbe potuto (e dovuto) espressamente
motivarlo”.
Quanto poi all’assoluzione dall’imputazione di abuso in atti di ufficio, la
sentenza del giudice di appello: a) risultava “ancipite”, non evincendosi dalla
laconica motivazione della stessa, se l’assoluzione dipendeva dalla ritenuta
assenza di una violazione di legge o regolamento, ovvero dalla ritenuta assenza
dell’intenzionalità; b) ometteva di motivare sul profilo della falsa attestazione di
adeguamento, che, a prescindere dall’efficacia delle prescrizioni, era comunque
un “eloquente” indice di abusività e di intenzionalità; c) in ogni caso (e
prescindendo dai limiti del sindacato della Soprintendenza, in quanto ultronea

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Invero, quanto al reato di falso ideologico, l’assoluzione pronunciata dal

rispetto alle questioni proposte), risultava erronea nel disconoscimento di
qualsivoglia efficacia del parere dell’ente deputato alla tutela del vincolo.
Invero – pur dovendosi escludere, nel regime normativo vigente all’epoca
dei fatti, un sindacato di merito della Soprintendenza – nondimeno era indubbio il
riconoscimento in capo a quest’ultima non solo di un sindacato di legittimità, ma
anche “una valutazione di merito amministrativo, espressione dei nuovi poteri di
cogestione del vincolo paesaggistico” (sul punto, seppur con riferimento alla
disciplina successiva alla L. 02/08/2008, n. 129, Cons. Stato, Sez. 6,

espressione di un parere con prescrizioni; laddove, se il potere di impartire le
prescrizioni fosse stato esulante dal sindacato rimesso all’ente, in quanto
ritenuto espressione di una valutazione di merito, l’alternativa, ai fini della tutela
del vincolo (nella specie, della visuale panoramica), sarebbe stato un parere
sfavorevole. Pertanto, l’aver omesso, nel rilascio del permesso di costruire, di
considerare, sotto ogni profilo, il parere della Soprintendenza, a prescindere
dall’estensione del sindacato, integrava una violazione di legge, in quanto
l’autorizzazione paesaggistica, presupposto del permesso di costruire, andava
adottata (nel caso di specie, dal Comune, quale organo sub-delegato della
Regione) previo parere della Soprintendenza, del quale occorreva tener conto in
sede di esercizio della discrezionalità amministrativa. E se le prescrizioni
avessero oltrepassato i limiti del sindacato, l’ente comunale avrebbe dovuto o
espressamente motivare al riguardo, o considerare il parere, in assenza di
efficacia delle prescrizioni, sfavorevole. In ogni caso, la violazione di legge può
essere integrata anche dallo sviamento del potere, integrato dal rilascio del
permesso di costruire, mediante obliterazione completa della tutela della visuale
oggetto delle prescrizioni contenute nel parere della Soprintendenza. D’altronde,
la falsa attestazione dell’avvenuto adeguamento alle prescrizioni contenute nel
parere della Soprintendenza – delle quali, dunque, non era messa in dubbio, nel
permesso di costruire, l’esistenza e l’efficacia – era un significativo indice fattuale
di intenzionalità della condotta abusiva.

4. Tali essendo i vizi e le censure formulate dalla Corte regolatrice alla
sentenza emessa dalla Corte territoriale (ad esito del giudizio di appello), al fine
di verificare se a detti vizi e censure abbia posto riparo la Corte territoriale nella
sentenza impugnata (emessa ad esito del giudizio di rinvio), occorre ricordare
che il sindacato di legittimità “deve essere limitato soltanto a riscontrare
l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza spingersi a verificare
l’adeguatezza delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per
sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni

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25/02/2013, n. 1129) che, nel caso in esame, era stato esercitato mediante

processuali” (in tal senso, tra le tante, Cass. Sez. 3, n. 4115 del 27.11.1995,
dep. 1996, Beyzaku, Rv. 203272).
Tale principio, più volte ribadito dalle varie sezioni di questa Corte, è stato
altresì avallato dalle stesse Sezioni Unite le quali hanno precisato che esula dai
poteri della Corte di Cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto,
posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva
al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera
prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle

altri, Rv. 207945).
E la Corte regolatrice ha rilevato che anche dopo la modifica dell’art. 606
c.p.p., lett. e), per effetto della L. 20 febbraio 2006, n. 46, resta immutata la
natura del sindacato che la Corte di Cassazione può esercitare sui vizi della
motivazione, essendo rimasto preclusa, per il giudice di legittimità, la pura e
semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o
l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione o valutazione
dei fatti (Sez. 5, sent. n. 17905 del 23.03.2006, Baratta, Rv. 234109).
Pertanto, in sede di legittimità, non sono consentite le censure che si
risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze
esaminate dal giudice di merito (tra le tante, Sez. 1, sent. n. 1769 del
23/03/1995, Ciraolo, Rv. 201177; Sez. 6, sent. n. 22445 del 8/05/2009, Candita
ed altri Rv. 244181).
E la illogicità, quale vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di
spessore tale da risultare percepibile ictu °culi, dovendo il sindacato di legittimità
al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti
le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che,
anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la
decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni
del convincimento (S.U., sent. n. 6402 del 30/04/1997, dep. 1997, Dessimone
ed altri, Rv. 207945).
Sotto altro profilo è stato precisato che la Corte di cassazione, nel
momento del controllo di legittimità, non deve stabilire se la decisione di merito
proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve
condividerne la giustificazione, dovendo limitarsi a verificare se questa
giustificazione sia compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile
opinabilità di apprezzamento”, secondo una formula giurisprudenziale ricorrente
(Sez. 5, sent. n. 1004 del 30/11/1999, 2000, Moro, Rv. 215745).
Si deve infine ribadire, per condivise ragioni, l’insegnamento espresso
dalla giurisprudenza di legittimità, in base al quale nessuna prova, in realtà, ha

12

risultanze processuali (sent. n. 6402 del 30/04/1997, dep. 1997, Dessimone ed

un significato isolato, slegato dal contesto in cui è inserita; occorre
necessariamente procedere ad una valutazione complessiva di tutto il materiale
probatorio disponibile; ed il significato delle prove lo deve stabilire il giudice del
merito, non potendosi il giudice di legittimità sostituirsi ad esso (Sez. 5, Sent. n.
16959 del 12/04/2006, dep. 17/05/2006, Rv. 233464).

5. Nella suddetta cornice ermeneutica, i motivi di ricorso non sono
fondati.

responsabilità per il reato di falso ideologico e di abuso di ufficio.
Il Giudice di rinvio – dopo aver correttamente rilevato che l’onere
motivazionale da assolvere in quella sede riguardava la rivalutazione dei motivi
di doglianza proposti dagli imputati, avverso la sentenza del giudice di primo
grado, sui quali, stante i dicta contenuti nella sentenza di annullamento, il
giudice di secondo grado non aveva congruamente motivato, con esclusivo
riguardo ad un nuovo esame sotto il profilo della violazione di legge – ha
confermato il giudizio di responsabilità degli imputati per detti reati, osservando:
A) Quanto al delitto di cui all’art. 479 c.p., che:
– tutte le doglianze dedotte dalle difese negli atti di appello, proposte
avverso la sentenza di primo grado e relative all’efficacia del parere della
Soprintendenza, e della sua incidenza sulla configurazione nel delitto di falso,
erano state risolte in via definitiva dalla pronuncia del Supremo Collegio, che
attestava con efficacia di giudicato, la sussumibilità delle condotte poste in
essere da ciascuno degli imputati nel delitto di falso ideologico agli stessi
contestato;
– quindi, il fatto che gli imputati avevano affermato, ai fini del rilascio del
permesso a costruire, che il progetto era stato adeguato alle prescrizioni della
Soprintendenza, pur senza esserlo effettivamente, integrava il delitto di falso
ideologico;
– l’intenzionalità di questa condotta risiedeva nel fatto che gli imputati ben
avrebbero potuto non ottemperare al suddetto parere, motivando le ragioni di
tale mancato adeguamento alle prescrizioni imposte dall’ente preposto alla tutela
del vincolo, senza che tanto impedisse loro comunque il rilascio del titolo
autorizzatorio, pur difforme dalle prescrizioni finalizzate alla tutela del vincolo
paesaggistico. Infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità, “ai fini
dell’elemento soggettivo del reato, è sufficiente il dolo generico, consistente nella
rappresentazione, e volontà della immutatio veri”;
– detta argomentazione rendeva privi di significativa rilevanza gli assunti
difensivi sulla assenza di prova di un dolo specifico. In tema di falsità

13

5.1. Non fondati sono i motivi concernenti l’affermazione di penale

documentali, ai fini dell’integrazione del delitto di falsità, materiale o ideologica,
in atto pubblico, l’elemento soggettivo richiesto è, infatti, solo il dolo generico,
non essendo richiesto né ranimus nocendi” né ranimus decipiendi”;
– l’elemento soggettivo deve essere rigorosamente provato, non potendo
essere considerato “in re ipsa”, dovendosi escludere che il falso in scrutinio derivi
da una semplice leggerezza ovvero da una negligenza dell’agente. L’aver voluto,
nella specie, confezionare un permesso a costruire formalmente legittimo,
perché apparentemente rispettoso dei limiti imposti a tutela del vincolo, ma in

onde porlo a riparo da eventuali annullamenti in via amministrativa e/o
giudiziaria, con evidente possibile compromissione dell’interesse del proprietario
a realizzare la costruzione, come originariamente progettata, era dato sufficiente
a provare l’intenzionalità del reato di falso ideologico commesso dagli imputati. Il
dolo infatti può essere dimostrato non solo desumendolo dalla constatazione
dell’oggettiva immutatio veri,

ma utilizzando elementi estrinseci, di valenza

sintomatica che, come nella specie, consentono di escludere che la falsità sia
dovuta a una mera leggerezza dell’agente ovvero a un’incompleta conoscenza o
errata collocazione delle disposizioni normative;
– a conferma di tale ricostruzione era il fatto che la falsa attestazione
dell’avvenuto adeguamento alle prescrizioni contenute nel parere della
Soprintendenza – come rilevato nella sentenza di annullamento – era legata al
fatto che, nel permesso di costruire, non era stata posta in dubbio, né
l’esistenza, né l’efficacia di dette prescrizioni, ma si era aggirato il contenuto
precettivo delle stesse;

l’autorizzazione paesaggistica, quale presupposto del permesso di

costruire, andava invece adottata dal Comune (quale organo sub-delegato della
Regione), previo parere della Soprintendenza: l’ente comunale di detto parere
doveva tener conto in sede di esercizio della discrezionalità amministrativa, ma
ben poteva espressamente motivare, ove le prescrizioni dell’ente oltrepassavano
i limiti del sindacato allo stesso demandato, o considerare il detto parere, in
assenza di efficacia delle prescrizioni, sfavorevole.
Il giudice di rinvio, infine, ha preso in esame l’assunto difensivo,
contenuto negli atti di appello, secondo il quale la nozione di ‘volume tecnico’
non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponderebbe a
un’opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale,
perché destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e comunque
per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una
costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima.
In sostanza, si tratterebbe di impianti necessari per l’utilizzo dell’abitazione, che

4k-

14

effetti falsamente attestando l’adeguamento alle prescrizioni imposte dall’Ente,

non possono essere in alcun modo ubicati all’interno di questa (come possono
essere – e sempre in difetto dell’alternativa – quelli connessi alla condotta idrica,
termica o all’ascensore e simili), i quali si risolvono in semplici interventi di
trasformazione, senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto
visivo, tanto da non poter rientrare nel concetto di “variazione essenziale” di cui
al dpr. 380/2001. In definitiva, secondo le difese, l’intervento per cui è processo
sarebbe stato privo di rilevanza a fini paesaggistici perché oggetto del premesso
costruire erano solo dei “vani tecnici”, ossia elementi costruttivi che non

Detto assunto, tuttavia, non è stato condiviso dal Giudice di rinvio,
secondo il quale l’incremento di volumetria realizzato nel caso di specie non
poteva ricondursi alla nozione di volume tecnico, in senso urbanistico,
costituendo al contrario una variazione essenziale rispetto a quanto
precedentemente assentito. Ciò in quanto – a prescindere dal rilievo che
l’oggetto principale del permesso a costruire n. 462 erano principalmente i “vani
tecnici” – comunque tali valutazioni generali non potevano valere in caso di zona
vincolata; ciò in quanto l’art. 167 comma 4 del d. Igs 42 del 2004 (Codice dei
beni culturali) prevede, ad esempio, il possibile accertamento postumo della
compatibilità paesaggistica – anche nel caso di lavori, realizzati in assenza o
difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato
creazione di superfici utili o volumi, ovvero un aumento di quelli legittimamente
realizzati – senza alcuna distinzione fra volumi utili e/o tecnici. Secondo il giudice
di rinvio, era quindi evidente che la realizzazione

ex novo di vani tecnici

implicava comunque un aumento della volumetria complessiva ed una modifica
della sagoma dell’edificio, tale da non potersi escludere la sua “essenzialità” in
ambito paesaggistico, nel quale ogni modificazione alla realtà preesistente
determina di per sé “vulnus” agli interessi superiori di tutela del paesaggio.
Secondo il giudice di rinvio, non era possibile giustificare l’incremento di
volumetria ricorrendo al concetto di volume tecnico (che, come tale, non si
considera nel calcolo della volumetria complessivamente realizzata); la nozione
di volume tecnico (non computabile nella volumetria) fa riferimento
all’impossibilità di ricorrere a modalità alternative di costruzione non implicanti
aumenti di volumetria. A conforto di tale ricostruzione la Corte di rinvio ha
richiamato la sentenza n. 507/2016 del Consiglio di Stato, in base alla quale «Ai
sensi dell’art. 32, comma 4, D.P.R. n. 38012001 (T.U. Edilizia), gli interventi su
immobili sottoposti a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico ed
ambientale, nonché su immobili ricadenti in parchi o aree naturali protette
nazionali e regionali sono considerati, anche quando incidono solo sui volumi
tecnici, variazioni essenziali (Conferma della sentenza del T.a.r. Lazio, Roma,

15

integrano nè volumetria nè aumento di superficie coperta “utile”.

sez. I quater, n. 29112015).» I giudici di palazzo Spada avevano quindi statuito
che non è possibile ricorrere al concetto di volume tecnico per giustificare
l’incremento di volumetria, dovuto alle diverse modalità di realizzazione della
copertura dell’immobile, rispetto a quella del progetto originario, ove si operi in
zone sottoposte a vincolo.
B) Il Giudice di rinvio – confermata la responsabilità degli imputati in
relazione al delitto di cui all’art. 479 cp – ha confermato la sentenza di primo
grado anche con riferimento al delitto di abuso ex art. 323 cp. sulla base delle

– il Giudice di primo grado aveva ritenuto di collegare l’esistenza del delitto
di abuso alla dichiarazione di falsità degli atti ed alla illegittimità del permesso a
costruire rilasciato, rintracciando le note di tipicità del delitto di cui all’art. 323 cp
proprio nella illegittimità degli atti amministrativi, posti in essere dagli imputati
attestando falsamente circostanze non veritiere. E la Corte di legittimità, nella
sentenza di annullamento aveva testualmente affermato che « l’aver omesso, nel
rilascio del permesso di costruire, di considerare, sotto ogni profilo, il parere
della Soprintendenza, a prescindere dall’estensione del sindacato, integra una
violazione di legge», non senza precisare che «in ogni caso, la violazione di legge
può essere integrata anche dallo sviamento del potere, integrato dal rilascio del
permesso di costruire, mediante obliterazione completa della tutela della visuale
oggetto delle prescrizioni contenute nel parere della Soprintendenza …
D’altronde, la falsa attestazione dell’avvenuto adeguamento alle prescrizioni
contenute nel parere della Soprintendenza, delle quali, dunque, non viene
revocata in dubbio, nel permesso di costruire, l’esistenza e l’efficacia, appare un
significativo indice fattuale di intenzionalità della condotta abusiva»;
– anche l’elemento soggettivo dell’abuso era connesso con il falso
ideologico: l’intenzionalità nella violazione di legge, se pure sotto la specie dello
sviamento di potere, richiesta dalla norma di cui all’art. 323 cp, quale elemento
soggettivo del delitto in scrutinio, risiedeva ed era provata proprio nell’aver gli
imputati attestato falsamente l’avvenuto adeguamento alle prescrizioni della
Soprintendenza, pur potendo l’ente territoriale disattendere, con congrua
motivazione, dette prescrizioni;
– la falsa attestazione, dunque, era la “prova eloquente” della
intenzionalità della condotta abusiva, posta in essere dagli imputati: la violazione
di legge, infatti, era stata attuata consapevolmente, attraverso la falsità della
attestazione, necessaria per giungere alla approvazione di un progetto, che
altrimenti non avrebbe potuto né dovuto essere approvato, se non disattendendo
le prescrizioni imposte dall’ente preposto alla tutela del vincolo paesaggistico,
tenuto conto che, come sottolineato nella sentenza di annullamento, la

16

seguenti argomentazioni:

«valutazione, da parte della Soprintendenza, della compatibilità dell’intervento
edilizio progettato con i valori paesaggistici compendiati nella richiamata
disciplina vincolistica è stato esercitato mediante espressione di un parere con
prescrizioni; laddove, se il potere di impartire le prescrizioni fosse stato esulante
dal sindacato rimesso all’ente, in quanto ritenuto espressione di una valutazione
di merito, l’alternativa, ai fini della tutela del vincolo (nella specie, della visuale
panoramica), sarebbe stato un parere sfavorevole» che impediva il rilascio del
titolo autorizzatorio».

nella sentenza di annullamento, ha chiarito le ragioni per le quali ha ritenuto di
confermare la valutazione espressa dal primo giudice, sviluppando un percorso
argomentativo che non presenta aporie di ordine logico e che risulta perciò
immune da censure rilevabili in questa sede di legittimità.
5.2. Non fondati sono anche i motivi concernenti il rapporto esistente tra
il reato di falso ideologico ed il reato di abuso di ufficio, nonché l’ammissibilità
del concorso del privato nei reati previsti dagli artt. 479 e 323 c.p.p
A) Sotto il primo profilo, il Giudice di rinvio ha ritenuto sussistere il
concorso materiale (e non l’assorbimento) tra il reato di falso ideologico in atto
pubblico ed il reato di abuso d’ufficio, in quanto i delitti in scrutinio offendono
beni giuridici distinti; il primo, infatti, mira a garantire la genuinità degli atti
pubblici, il secondo tutela l’imparzialità e il buon andamento della p.a. Pertanto,
mentre tra detti delitti ben può sussistere nesso teleologico (in quanto il falso
può essere consumato per commettere il delitto di cui all’art. 323 c.p.), la
condotta dell’abuso d’ufficio certamente non si esaurisce in quella del delitto di
falso in atto pubblico, nè coincide con essa.
Al riguardo, il giudice di rinvio ha dato atto che, secondo un orientamento
minoritario della giurisprudenza di legittimità, la condotta del pubblico ufficiale,
che si esaurisca in una falsificazione, integra il solo reato di falso (e non anche il
reato di abuso d’ufficio, da considerare assorbito nel primo), a nulla rilevando la
diversità dei beni giuridici tutelati dalle due norme incriminatrici, ma ha condiviso
il diverso sopra ricordato orientamento giurisprudenziale, che, nel poggiare sul
dato della esistenza di due diverse condotte, tale che la condotta dell’abuso di
ufficio non si esaurisce in quella del reato di falso, postula più correttamente il
concorso materiale (e non già l’assorbimento) tra il reato di abuso di ufficio e
quello, più grave, di falso ideologico in atto pubblico.
B) Quanto poi all’ammissibilità del concorso del privato nei reati previsti
dagli artt. 479 e 323 c.p.p, il Giudice di rinvio ha preso in esame l’assunto
difensivo, secondo il quale non sarebbe configurabile nella specie un concorso fra
gli imputati ai fini della commissione del fatto, stante la asserita mancanza di

17

C) In definitiva, il Giudice di merito, alla luce delle statuizioni contenute

una collusione fra gli stessi, non rinvenibile ex se dalla mera convergenza delle
singole attività, poste in essere da ciascuno; ma lo ha disatteso, in quanto le
condotte di singoli avevano avuto nella specie chiaramente un’efficacia
agevolativa e rafforzativa della condotta complessiva, assumendo il contributo
concorsuale rilevanza, non solo allorché si ponga come condicio sine qua non
dell’evento lesivo, ma anche quando assuma la forma di un contributo
meramente agevolatore e di rafforzamento del proposito criminoso, già esistente
nei concorrenti, in modo da aumentare la possibilità di commissione del reato, di

può essere rappresentata da qualsiasi comportamento che fornisca un
apprezzabile contributo alla realizzazione dell’altrui proposito criminoso o che
agevoli l’opera dei concorrenti, in tutte o alcune delle fasi di ideazione,
organizzazione ed esecuzione della condotta criminosa.
C) In definitiva, anche su detti punti, il Giudice di rinvio ha sviluppato un
percorso argomentativo che, in quanto è conforme ai dicta contenuti nella
sentenza di annullamento ed è privo di aporie di ordine logico, è immune da
censure rilevabili in questa sede di legittimità.
5.3. Non fondato, infine, è il motivo concernente l’avvenuta
subordinazione del beneficio della sospensione della pena alla condizione del
risarcimento del danno.
Al riguardo, il giudice di primo grado – dopo aver osservato che,
nonostante la complessiva modestia del fatto, attinente alla scelta del punto di
allocazione di vani di ridotta superficie, non potevano essere concesse le
attenuanti generiche, in considerazione del fatto che la vicenda si era
caratterizzata da “una spiccata intensità del dolo” e da “perseveranza nella
volontà di realizzare un illecito” – ha aggiunto che, proprio alla luce delle ragioni
per cui erano state negate le generiche, la prognosi di futura non recidività, che
costituisce presupposto della concessione del beneficio della sospensione
condizionale della pena – nel caso di specie richiedeva la presenza di un
comportamento di ravvedimento operoso ed ha quindi subordinato la
concessione del suddetto beneficio al risarcimento del danno. Detto danno, non
provato nel suo preciso ammontare, è stato ritenuto dì natura prettamente
morale, non essendo stata offerta dall’interessato alcuna prova in ordine ad
eventuale diminuzione di entrate legate allo sfruttamento dell’immobile, ed è
stato liquidato in via equitativa in euro 5000.
Ed il Giudice di rinvio – pur concedendo le attenuanti generiche (in
considerazione della sostanziale assenza di precedenti penali e della contenuta e
modesta gravità delle condotte) e pur formulando dunque una prognosi
favorevole sulla capacità a delinquere degli imputati – ha ritenuto di confermare

18

tal ché nel delitto di abuso d’ufficio, l’attività costitutiva del concorso di persone

la subordinazione della sospensione condizionale della pena al pagamento della
somma liquidata a favore della parte civile a titolo di risarcimento, “potendo il
beneficio della sospensione condizionale della pena essere subordinato dal
giudice a tali adempimenti civilistici, a maggior tutela degli interessi della parte
offesa”.
Tanto basta, in questa sede di legittimità, per ritenere assolto l’onere
motivazionale al quale il giudice di merito era tenuto, avuto riguardo al disposto
di cui all’art. 165 c.p. ed alla natura stessa dell’istituto (introdotto dalla legge n.

prognosi e, al tempo stesso, un’effettiva protezione dei valori tutelati dalla
norma penale). D’altronde, secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, il
giudice, nel subordinare la concessione della sospensione condizionale
all’adempimento dell’obbligo risarcitorio, non è tenuto a compiere alcuna
indagine sulle condizioni economiche dell’imputato (cfr., tra le tante, Sez. 4,
sent. del 25/9/95, Rv. 202282).

6. Per le ragioni che precedono, i ricorsi devono essere dunque rigettati
ed i ricorrenti devono essere condannati, oltre che al pagamento delle spese
processuali, alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, spese che si
liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali;
li condanna, inoltre, in solido, a rimborsare alla parte civile Francesco Punzi le
spese sostenute per questo giudizio che liquida in complessive euro 2500 oltre
accessori come per legge.
Così deciso il 26/10/2017.
Il C. i.liere e

Il Presi ente

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Vincenzq Romis

Pasqua Gianniti

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2 2 NOV. 201

19

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689 del 1981, quale strumento di controllo sulla esattezza del giudizio di

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