Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 53137 del 22/09/2017


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 53137 Anno 2017
Presidente: CAVALLO ALDO
Relatore: MENGONI ENRICO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Cecchini Luciano, nato a Senigallia (An) il 3/3/1953

avverso la sentenza del 25/2/2016 della Corte di appello di Ancona;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
sentita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore generale Pasquale Mazzotta, che ha concluso chiedendo il rigetto del
ricorso;
udite le conclusioni del difensore del ricorrente, Avv. Ilaria Margherita Losi,
in sostituzione dell’Avv. Gianni Marasca, che ha concluso chiedendo
l’accoglimento del ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 25/2/2016, la Corte di appello di Ancona confermava la
pronuncia emessa il 9/12/2014 dal Tribunale di Pesaro, con la quale Luciano
Cecchini era stato dichiarato colpevole del delitto di cui agli artt. 81 cpv. cod.
pen., 5, d. Igs. 10 marzo 2000, n. 74, e condannato alla pena di due anni e tre

Data Udienza: 22/09/2017

mesi di reclusione; allo stesso, quale titolare di un’omonima ditta individuale, era
contestato di non aver presentato la dichiarazione di redditi da attività illecita negli anni 2005 e 2006 – per un imponibile complessivo pari a quasi 6,5 milioni
di euro.
2. Propone ricorso per cassazione il Cecchini, a mezzo del proprio difensore,
deducendo i seguenti motivi:
– erronea applicazione dell’art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000. La Corte di appello,
confermando l’indirizzo secondo il quale dovrebbero esser dichiarati anche i
nemo tenetur se

detegere, ribadito costantemente anche dalla Corte EDU; in forza di questa

giurisprudenza, in particolare, accusa e difesa dovrebbero esser dotate delle
stesse prerogative, sicché il privato non potrebbe esser costretto – con coazione
fisica o psicologica – a fornire all’amministrazione prove a sé sfavorevoli;
– erronea applicazione del medesimo art. 5; vizio motivazionale. Per
individuare l’origine delle somme in oggetto, la sentenza si sarebbe affidata ad
una prova logica destituita di ogni fondamento e riscontro; l’entità delle stesse,
inoltre, non ne dimostrerebbe ex se la derivazione illecita, che avrebbe dovuto
costituire oggetto di prova da parte della pubblica accusa. La sentenza, sul
punto, risulterebbe inoltre contraddittoria, perché prima qualificherebbe tali
importi come redditi percepiti dal Cecchini, quindi ammetterebbe che lo stesso
danaro – nella quasi totalità – sarebbe però uscito dai conti correnti a lui
intestati, per esser trasferito altrove. Con la conseguenza che nessuna prova
sussisterebbe in ordine alla stessa natura reddituale delle somme, né, ancora, al
superamento della soglia di punibilità di cui all’art. 5 contestato (pari a 50.000
euro); ed invero, non essendo stata accertata la differenza tra quanto entrato sui
conti e quanto poi uscito, non si potrebbe neppure verificare il raggiungimento
della soglia medesima;
– erronea applicazione del medesimo art. 5; violazione dell’art. 521 cod.
proc. pen.; vizio di motivazione. La sentenza non avrebbe affatto provato
l’origine illecita delle somme in esame, e pertanto l’imputato non avrebbe potuto
esser condannato per la condotta di cui alla rubrica; questa, infatti, avrebbe ad
oggetto proprio danari con quella specifica provenienza, dal che – in assenza di
riscontri sul punto – nessuna responsabilità potrebbe esser affermata. La diversa
decisione assunta dalla Corte, dunque, violerebbe l’art. 521 cod. proc. pen.,
atteso che il Cecchini avrebbe costruito la propria difesa esclusivamente
sull’oggetto della rubrica e, pertanto, sul presunto carattere illecito delle somme;
per contro, qualora l’art. 5 in esame fosse stato contestato con riguardo a redditi
di origine lecita, diversa sarebbe stata la materia della difesa medesima;

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redditi da attività illecita, avrebbe violato il principio del

- violazione del ne bis in idem. Il ricorrente sarebbe stato condannato con
riferimento ad una omissione già ascrittagli in sede amministrativa, con
irrogazione di una sanzione di oltre 3,3 milioni di euro; dal che, come anche
affermato da giurisprudenza di merito, così come dalla Corte EDU, la palese
violazione del citato principio, derivante dalla illegittimità del cd. doppio binario;
– violazione degli artt. 99 e 133 cod. pen.; travisamento del fatto. La Corte
di appello, nel determinare l’entità della pena, avrebbe tenuto conto di reati
commessi successivamente al fatto contestato, nonché di altri fatti assai

effetto in punto di trattamento sanzionatorio.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Preliminarmente, deve esser esaminata l’istanza di rinvio proposta dal
difensore con nota depositata il 13/9/2017, fondata sul presupposto che il
ricorrente – il quale avrebbe ricevuto notifica dell’estratto contumaciale della
sentenza (ex art. 161, comma 4, cod. proc. pen.) soltanto il 5/9/2017 – sarebbe
ad oggi ancora in termini per proporre un autonomo ricorso per cassazione;
orbene, la richiesta deve esser rigettata.
Al riguardo, occorre premettere che il gravame qui in oggetto è stato
proposto dall’Avv. Marasca in forza di un “atto di nomina a difensore di fiducia e
procura speciale” sottoscritto dal Cecchini il 7/3/2016, ossia pochi giorni prima
della presentazione del ricorso stesso; ciò premesso, costituisce costante e
condiviso indirizzo di questa Corte quello secondo cui l’imputato che, dopo una
sentenza emessa in contumacia nei suoi confronti, conferisce al proprio difensore
procura speciale per proporre impugnazione, è privo di legittimazione a chiedere
o a far chiedere dal suo fiduciario di essere rimesso in termini per impugnare
autonomamente la decisione, nonostante la mancata notifica dell’estratto
contumaciale, essendosi spogliato, mediante il rilascio della delega, del proprio
diritto all’impugnazione (tra le altre, Sez. 6, n. 10537 del 9/2/2017, F., Rv.
269729; Sez. 2, n. 42651 del 13/10/2015, D’Alessandro, Rv. 265256).
Dal che, l’infondatezza dell’istanza di rinvio.
4. Quanto poi al merito dell’impugnazione, la stessa risulta manifestamente
infondata.
Con riguardo alla prima doglianza, rileva il Collegio che questa è stata già
affrontata dalla Corte di appello, e risolta con motivazione congrua e non
manifestamente illogica; come tale, quindi, non censurabile. In particolare, la
sentenza – richiamata la lettera dell’art. 14, comma 4, I. 24 dicembre 1993, n.
537, che denomina redditi “i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili
come illecito civile, penale o amministrativo” – ha precisato che l’art. 5 in

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risalenti. Ne consegue che la recidiva avrebbe dovuto esser esclusa, con ogni

contestazione non comporta alcuna violazione del principio

nemo tenetur se

detegere, in quanto la presentazione della dichiarazione dei redditi (quand’anche
di natura illecita) non costituisce

ex se una denuncia a proprio carico, ma

soltanto una comunicazione inviata a fini fiscali, ed alla quale solo in via
eventuale seguiranno accertamenti in ordine all’origine delle somme medesime.
Con la conseguenza – indicata dalla Corte di merito e più volte ribadita anche in
questa sede – per cui l’omessa presentazione della dichiarazione stessa
costituisce violazione dell’art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000, anche quando abbia ad

7/10/2010, Violi, Rv. 248729, a mente della quale integra il delitto in esame
l’omessa dichiarazione dei redditi derivanti dall’attività di sfruttamento dell’altrui
prostituzione, in quanto ogni provento, anche illecito, rappresenta reddito
tassabile, la cui mancata indicazione nella dichiarazione annuale costituisce
reato. In termini, anche Sez. 5, n. 7411 del 19/11/2009, Di Lorenzo, Rv.
246095, con riguardo a redditi provenienti da attività distrattiva compiuta su
disponibilità finanziarie di società fallita).
5. La materia, peraltro, è stata ancora trattata da una recentissima sentenza
di questa Sezione (Sez. 3, n. 37107 del 7/3/2017, Griotti, non massimata), con
argomenti – condivisi dal Collegio – che meritano di esser qui richiamati. In
particolare, ed esaminando la stessa questione qui riproposta, si è affermato che
in generale, al di fuori di espresse previsioni normative operanti nel campo
sostanziale e nel caso di specie non ricorrenti, il principio del nemo tenetur se
detegere si qualifica come diritto di ordine processuale e non può dispiegare
efficacia al di fuori del processo penale (Sez. 5, n. 9746 del 12/12/2014,
Fedrizzi, Rv. 262941; Sez. 5, n. 8252 del 15/01/2010, Bassi, Rv. 246157 e, di
recente, Sez. 5, n. 38085 del 05/07/2012, Luperi, Rv. 253545), con la
conseguenza che esso giustifica la non assoggettabilità ad atti di costrizione
tendenti a provocare un’autoincriminazione, ma non anche la possibilità di
violare regole di comportamento poste a tutela di interessi non legati alla pretesa
punitiva; infatti, il diritto di difesa non comporta anche quello di arrecare offese
ulteriori. «Va, quindi, richiamato il principio di diritto secondo il quale la
circostanza che il possesso di redditi possa costituire reato e che l’autodenuncia
possa violare il principio nemo tenetur se detegere è sicuramente recessiva
rispetto all’obbligo di concorrere alle spese pubbliche ex art. 53 della
Costituzione, dichiarando tutti i redditi prodotti (effettivi), espressione di capacità
contributiva (cfr in termini Cass. civ. Sez. 5, n. 3580 del 2016) E’ stato, sul
punto, precisato che “la ormai incontestata e riconosciuta normativamente
tassabilità dei proventi illeciti, anche delittuosi, comporta il necessario
superamento di ogni remora anche in ordine alla dichiarazione, essendo

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oggetto redditi di provenienza illecita (tra le altre, Sez. 3, n. 42160 del

connaturale al possesso di un reddito tassabile il relativo obbligo di
dichiarazione” (Cass. civ Sez.5, n. 20032 del 30/09/2011, Rv. 619268 – 01). Né
sussiste la violazione dell’art. 6 CEDU, il quale – nel riconoscere al soggetto il
diritto a tacere e a non contribuire alla propria incriminazione, a conferma e
garanzia irrinunciabile dell’equo processo – opera esclusivamente nell’ambito di
un procedimento penale già attivato, stante la sua “ratio” consistente nella
protezione dell’imputato da coercizioni abusive da parte dell’autorità (Sez.5,
n.12697 del 20/11/2014, Rv.263034)».

Corte EDU 5 aprile 2012, Chambaz c. Svizzera, citato nel presente ricorso;
questa decisione, infatti, sia pur significativa, ha ad oggetto un caso diverso da
quello qui in esame, nel quale un contribuente – nell’ambito di un accertamento
fiscale a suo carico – si era rifiutato di fornire all’autorità amministrativa
documenti che potevano costituire prova dell’evasione fiscale, ed era stato perciò
sanzionato.
Dal che, la palese infondatezza della prima doglianza.
7. Alle medesime conclusioni, poi, perviene il Collegio anche con riguardo
alla seconda ed alla terza, da trattare congiuntamente, attesane la sostanziale
identità di ratio.
Osserva la Corte, invero, che l’argomento impiegato dal Collegio di appello
per affermare la natura illecita dei redditi in oggetto non risulta apodittico o
manifestamente illogico, ma, anzi, proprio a logica ispirato e, quindi, non
censurabile; tale, infatti, dovendosi ritenere l’affermazione secondo cui non
possono che considerarsi illeciti – in assenza di qualsivoglia indicazione circa la
loro origine, da parte del percipiente – redditi estremamente elevati, per milioni
di euro, pervenuti su conti correnti di un soggetto che, pur svolgendo un’attività
commerciale (venditore ambulante di vestiti), mai aveva istituito scritture
contabili e mai aveva presentato dichiarazioni fiscali. E senza che, peraltro,
possa ravvisarsi sul punto la denunciata contraddittorietà motivazionale, atteso
che il (non contestato) successivo trasferimento della quasi totalità di queste
somme ad altre persone non esclude che le stesse fossero state comunque
percepite dal Cecchini, sì da doversi considerare redditi soggetti a tassazione e
dichiarazione.
8. Non solo.
La sentenza impugnata, di seguito, ha preso in esame anche un’ipotesi
residuale, ossia un’ipotetica – e del tutto indimostrata – provenienza lecita del
danaro in oggetto, pervenendo comunque al medesimo giudizio di penale
responsabilità. Con riguardo ad un’eventuale deducibilità dei costi e, quindi,
nell’ottica del superamento della soglia di punibilità di cui all’art. 5, d. Igs. n. 74

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6. Quanto precede, infine, non sembra superato neppure dall’arresto della

del 2000, la Corte di appello ha infatti sostenuto che: 1) il ricorrente non aveva
fornito alcun elemento in tal senso; 2) l’attività di ambulante per la vendita di
abbigliamento non poteva aver certo generato costi tali da “incidere” su redditi
che – come già richiamato – avevano superato i tre milioni di euro per ciascuno
degli anni 2005 e 2006. Dal che, il più che verosimile superamento della soglia di
50.000 euro, come individuata dall’art. 5 in oggetto con riferimento all’entità
minima penale dell’imposta evasa. Una motivazione, dunque, ancora del tutto
congrua, fondata su concreti elementi oggettivi e priva di qualsivoglia illogicità

censura, limitandosi ad una doglianza generica, che fa leva sull’assenza del
carattere reddituale delle somme in esame (confutata dalla Corte nei termini
anzidetti) e sulla mancanza di prova circa il superamento della citata soglia
(affermato in sentenza con motivazione non manifestamente illogica e, quindi,
non censurabile).
9. Con riguardo, poi, alla dedotta violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., la
stessa appare manifestamente infondata.
L’art. 521 cod. proc. pen. – “Correlazione tra l’imputazione contestata e la
sentenza” – stabilisce che il giudice può dare al fatto una definizione giuridica
diversa dalla quella enunciata nell’imputazione, purché il reato non ecceda la sua
competenza e non risulti attribuito alla cognizione del Tribunale collegiale,
anziché monocratico. Questa facoltà – che risponde all’esigenza, in capo al
giudice, di inquadrare la condotta accertata nei suoi più corretti termini giuridici,
sì da riconoscere la fattispecie di reato effettivamente riferibile al caso di specie
– si deve conformare a due criteri essenziali, connessi in modo indissolubile tra
loro ed ulteriori a quelli, di carattere procedurale, riportati nella norma testé
citata: l’identità del fatto ritenuto in sentenza rispetto a quello contestato e
l’assenza di ogni pregiudizio in punto di esercizio del diritto di difesa rispetto allo
stesso.
9.1. Il primo elemento si ricava dallo stesso testo dell’art. 521, comma 1,
cod. proc. pen., se letto alla luce del comma seguente; a mente di quest’ultimo,
infatti, il giudice che ritiene che il fatto accertato sia “diverso” da come
contestato, deve trasmettere con ordinanza gli atti al pubblico ministero,
diversamente dall’ipotesi in cui la diversità attenga soltanto alla qualificazione
giuridica dello stesso fatto, nel qual caso – attesa la richiamata lettera del
comma 1 – potrà procedere a riqualificazione a mezzo sentenza.
9.2. Non sempre, però, è agevole comprendere se tale carattere di
identità/diversità sussista o meno nel caso concreto, e quale portata debba
effettivamente rivestire per consentire l’intervento dell’uno o dell’altro comma
della norma in oggetto; ecco, dunque, che la verifica viene interessata anche dal

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manifesta; un argomento, inoltre, al quale il ricorso non dedica alcuna effettiva

secondo criterio sopra enunciato in ordine alla facoltà di cui all’art. 521, comma
1, cod. proc. pen., quale l’effettività del diritto di difesa.
9.3. Al riguardo, occorre richiamare l’orientamento espresso dal supremo
Consesso di questa Corte, in forza del quale per aversi mutamento del fatto
occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della
fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge,
in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui
scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine

pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza
perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto
insussistente quando l’imputato, attraverso l'”iter” del processo, sia venuto a
trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto
dell’imputazione (tra le molte, Sez. U., n. 36551 del 15/7/2010, Carelli, Rv.
248051). In altri termini, sussiste violazione del principio di correlazione tra
accusa e sentenza quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi, rispetto a quello
contestato, in rapporto di incompatibilità ed eterogeneità, verificandosi un vero e
proprio stravolgimento dei termini dell’accusa, a fronte dei quali l’imputato è
impossibilitato a difendersi (Sez. 1, n. 28877 del 4/6/2013, Colletti, Rv.
256785); rapporto che dovrà esser verificato alla luce non solo del fatto descritto
in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a
conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale
contestazione e, quindi, di decisione (Sez. 3, n. 15655 del 27/2/2008, Fontanesi,
Rv. 239866). Ne deriva che la nozione strutturale di “fatto” – inteso come
episodio della vita umana – va coniugata con quella funzionale, fondata
sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa (Sez. 1, n.
35574 del 18/3/2013, Crescioli, Rv. 257015), invero non ravvisabili qualora la
nuova definizione del reato appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del
giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, o,
comunque, l’imputato ed il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la
possibilità di interloquire in ordine alla stessa (Sez. 5, n. 1697 del 25/9/2013,
Cavallari, Rv. 258941; Sez. 3, n. 2341 del 7/11/2012, Manara, Rv. 254135).
10. Orbene, tutto ciò richiamato, osserva la Corte che nessun rapporto di
incompatibilità od eterogeneità nel senso suddetto può esser ravvisato nel caso
di specie, così come nessuna violazione del diritto di difesa; il doppio capo di
imputazione, infatti, ha ad oggetto l’omessa dichiarazione di redditi per gli anni
2005 e 2006, per un imponibile complessivo di quasi 6,5 milioni di euro, il che
non è contestato neppure dal ricorrente. Condotta omissiva pacifica, quindi, che
priva ex se di rilievo il riferimento al carattere illecito di tali redditi, contenuto

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volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel

nella rubrica: emerge chiara, piuttosto, la piena identità tra l’omissione ascritta e
quella riconosciuta, non essendo stati peraltro mai neppure dedotti redditi
ulteriori – di natura lecita – eventualmente suscettibili di dichiarazione. E fermo
restando, da ultimo sul punto, che la sentenza ha confermato la condanna
proprio sul presupposto – accertato in via logica, con argomento non censurabile
– che le somme in oggetto provenissero davvero da attività illecita,
rappresentando l’ulteriore ipotesi, sopra richiamata, come solo eventuale e del
tutto residuale.
Manifestamente infondata, di seguito, anche la quarta doglianza, in

punto di ne bis in idem. Al riguardo, infatti, basta richiamare il carattere del tutto
generico dell’argomento, con il quale si assume – senza alcun sostegno
istruttorio o documentale – che il Cecchini avrebbe subito l’irrogazione di una
sanzione amministrativa per circa 3,3 milioni di euro; senza specificarsi, peraltro,
se la stessa abbia ad oggetto la medesima vicenda tributaria qui in esame, e se
la sanzione abbia assunto carattere definitivo, oppure sia stata opposta nelle sedi
competenti.
12.

Da ultimo, il trattamento sanzionatorio; orbene, anche sul punto la

sentenza non merita alcuna censura, avendo fatto buon governo dell’art. 133
cod. pen. La Corte di appello, infatti, ha preso in esame non solo la condotta
contestata e la sua rilevante entità, ma anche i numerosi precedenti specifici a
carico (anche depenalizzati); questi, in uno con altri reati commessi
successivamente ai fatti qui in esame, hanno poi costituito il congruo
fondamento per il giudizio di pericolosità sociale, fonte del riconoscimento della
recidiva contestata e del conseguente aumento di pena.
12. Il ricorso, pertanto, deve esser dichiarato inammissibile. Alla luce della
sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a
norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché
quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende,
equitativannente fissata in euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, il 22 settembre 2017
Il insigliere estensore

Il Presidente

11.

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