Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 53136 del 28/06/2017


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 53136 Anno 2017
Presidente: CAVALLO ALDO
Relatore: DI NICOLA VITO

SENTENZA

sui ricorsi proposti da
Vacca Marcello, nato a Cagliari il 18-01-1967
Melis Italo, nato a Serramanna il 18-11-1948
avverso la sentenza del 19-10-2016 della Corte di appello di Cagliari;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udito il Procuratore Generale in persona del dott. Luigi Birritteri che ha concluso
per l’inammissibilità del ricorso;
udito per il ricorrente (Melis) l’avvocato Guido Manca Bitti che ha concluso per
l’accoglimento del ricorso

Data Udienza: 28/06/2017

RITENUTO IN FATTO
1. Marcello Vacca e Italo Melis ricorrono per cassazione impugnando la
sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Cagliari ha
confermato, per quanto qui interessa, la sentenza del tribunale dello stesso
capoluogo, che aveva condannato i ricorrenti alla pena, di anni uno di reclusione
ciascuno, condizionalmente sospesa per il solo Melis.
I ricorrenti erano accusati del reato previsto dagli articoli 81 capoverso, 110
del codice penale e 260, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152

criminoso, il primo in qualità di amministratore unico dal 16 giugno 1989 al 28
ottobre 2009 della Sarcobit S.r.l., il secondo in qualità di direttore tecnico e, dal
12 settembre 2003 al 29 agosto 2008, procuratore speciale della Società
Consortile Elams Scarl, costituita dalle società Sarcobit e Pavimentai, e
amministratore di fatto della Sarcobit S.r.I., al fine di conseguire un ingiusto
profitto (per le suddette società dato dal mancato accollo dei costi per il regolare
smaltimento dei rifiuti) effettuavano, tramite mezzi e attività continuative ed
organizzate, il trasporto di rifiuti da vari cantieri riconducibili alle società Sarcobit
(per un ammontare pari ad almeno 17.500 metri cubi) e li stoccavano presso
l’arca di proprietà della Sarcobit S.r.l. situata in Capoterra, località Marzolai, ove
venivano rinvenuti e sottoposti a sequestro dai Carabinieri del N.O.E., in data 23
marzo 2009, circa 100.000 metri cubi di rifiuti speciali costituiti da miscele
bituminose derivanti dalla fresatura di manti stradali provenienti dai cantieri
della S.S. 131, S.S. 130 e dell’Aeroporto di Cagliari Eimas.
Commessi in Capoterra dal 8 maggio 2008 al 31 marzo 2009 (data del
sequestro).

2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza i ricorrenti, con separati
ricorsi e per il tramite dei rispettivi difensori, sollevano i seguenti motivi di
impugnazione, qui enunciati, ai sensi dell’articolo 173 delle disposizioni di
attuazione al codice di procedura penale, nei limiti strettamente necessari per la
motivazione.
2.1. Marcello Vacca affida il ricorso ad un unico complesso motivo con il
quale denuncia l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale e di
altre norme giuridiche, di cui si deve tenere conto nella applicazione della legge
penale, in relazione all’articolo 2 del codice penale ed all’articolo 184-bis del
decreto legislativo 152 del 2006 (articolo 606, comma 1, lettere b), del codice di
procedura penale).
Premette che la sentenza impugnata ha preso in considerazione il testo della
normativa vigente “all’epoca dei fatti” (pag.11 sentenza), conducendo l’analisi

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poiché, in concorso tra loro, con più azioni esecutive di un medesimo disegno

alla luce della normativa allora vigente e negando qualsiasi rilevanza alle
modifiche successivamente introdotte, sul presupposto che vi fosse una
sostanziale continuità normativa tra le normative succedutesi nel tempo.
Sostiene il ricorrente che una simile interpretazione, sostanzialmente
abrogativa delle modifiche successivamente introdotte, non può essere in alcun
modo condivisa sul piano giuridico né su quello logico, perché non risponde al
contenuto delle norme considerate e soprattutto risulta gravemente elusiva della
disposizione di cui all’articolo 2 del codice penale.

succedutesi nel corso del tempo, il ricorrente conclude che, per tutte le ragioni
esposte, illegittimamente e ingiustamente la sentenza impugnata ha omesso di
applicare il disposto dell’articolo 2 del codice penale in materia di successione di
norme, posto che l’applicazione della normativa vigente si risolve de plano nella
sicura qualificazione del fresato quale sottoprodotto, con la conseguenza che
l’insussistenza della qualità di rifiuto del fresato, comporta, necessariamente, il
venir meno degli ulteriori fatti di presunto trasporto e traffico di rifiuti.
In particolare il ricorrente sottolinea come le modifiche introdotte nel 2010,
contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, fossero da ritenere
assai significative e certamente più favorevoli in relazione al caso di specie,
anche perché rendono chiari taluni elementi che avevano – dato origine a
interpretazioni inutilmente restrittive, che spesso finivano per risolversi,
paradossalmente, nella frustrazione dell’intento del legislatore (anche e
soprattutto a livello di Unione Europea) che mirava a valorizzare i sottoprodotti
all’importantissimo fine di ridurre la produzione e la circolazione di rifiuti.
Rispetto alla nozione di sottoprodotto, come cristallizzata dalla normativa
precedente, lo ius superveniens avrebbe, quanto ai requisiti di cui al n.1 (origine,
produzione) e al n. 3 (compatibilità ambientale) dell’articolo 183 del D.Igs. n.
152 del 2006, non sarebbero registrabili sostanziali novità, mentre nel caso degli
altri requisiti, come quello originariamente previsto dal numero 2) dell’articolo
183 del D.Igs. del 2008, la lettera b) dell’articolo 184-bis introdotto con D.Igs.
250 del 2010 ha previsto che il sottoprodotto può essere utilizzato nel corso dello
stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione da parte del
produttore o di terzi. Specificazione assai rilevante, considerato che la vecchia
formulazione era interpretabile in senso restrittivo, nel senso che richiedesse
l’integrale riutilizzo del sottoprodotto direttamente nel corso del medesimo
processo di produzione e da parte dello stesso produttore.
Il requisito originariamente previsto dal numero 4) dell’articolo 183 del
D.L.vo del 2008 è risultato pure modificato in maniera significativa nella lettera
c) prevedendo che la sostanza può essere utilizzata direttamente senza alcun
trattamento diverso dalla normale pratica industriale e non richiama più processi

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Dopo aver sinteticamente esaminato le differenze tra le normative

(“trattamenti preventivi, trasformazioni preliminari”)

inopportunamente

assimilabili a quelli previsti per i rifiuti ovvero interpretabile come escludente in
toto qualsiasi tipo di trattamento.
Pertanto, emerge un chiaro favor legislativo nei confronti dei sottoprodotti,
in vista dell’auspicato incremento del loro utilizzo, secondo l’orientamento
espresso in sede europea, in ragione dell’avvenuto ridimensionamento e
ripuntualizzazione di taluni requisiti prescritti dalla normativa originaria:
– non sarebbe più prescritto il requisito di un “utilizzo integrale” dei residui

– la “certezza dell’utilizzo”

non sarebbe più vincolata o fatta risalire

cronologicamente al momento della formazione del materiale, come pretendeva
l’articolo 183, comma 1, lett. p) al n. 2.
Inoltre, in forza dell’articolo 5 della direttiva 98/2008 CE, trasposto
nell’articolo 184-bis, non sarebbe più richiesto che il sottoprodotto:
– scaturisca o derivi, in via continuativa, dal processo industriale;
– sia impiegato direttamente e nel corso del processo di produzione;
– sia originato comunque da una dichiarata o formalizzata volontà del
produttore, essendo sufficiente che il sottoprodotto sia previsto e voluto;
– sia sottoposto ai trattamenti consentiti in via esclusiva da parte dello
stesso produttore, potendo tali trattamenti essere applicati da terzi, anche non
utilizzatori finali (purché ovviamente non si configurino come “trattamenti di
recupero”, ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lett. h).
In definitiva, le innegabili modifiche introdotte dalla normativa sopravvenuta
risultano non soltanto rilevanti ma assolutamente determinanti proprio per lo
scrutinio del caso concreto, conseguendo da ciò che la sentenza impugnata,
avendo disapplicato la normativa successiva più favorevole, sarebbe incorsa nel
vizio di violazione di legge denunciato.
2.2. Italo Melis affida il ricorso a quattro motivi.
2.2.1. Con il primo motivo deduce l’omessa motivazione in ordine a specifici
motivi di gravame (articolo 606, comma 1, lettera e), del codice di procedura
penale in relazione all’articolo 125, comma 3, stesso codice).
Osserva che la decisione impugnata ha omesso di motivare sulle molteplici
doglianze proposte con i motivi di appello.
In particolare, con l’atto di impugnazione era stata lamentata la mancanza
di prova in ordine alla sussistenza dei requisiti del reato di cui all’articolo 260
d.lgs. 152 del 2006. Si era, in particolare, escluso che nell’area di proprietà della
Sarcobit in Capoterra (località Marzaloi) si fosse verificato un trasporto e uno
stoccaggio illegittimi di “rifiuti speciali costituiti da miscele bituminose derivanti
dalla fresatura di manti stradali provenienti dai cantieri della S.S. 131, S.S. 130
e dell’Aeroporto di Cagliari Elmas”.
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“sottoprodotti”;

Ancor più precisamente, con il terzo ed il quarto motivo di appello si
contestava l’affermazione del Tribunale, secondo cui il trasporto di fresato dai
cantieri delle Strade Statali 130 e 131 sarebbe stato dimostrato, non essendo, al
contrario, stata eseguita alcuna attività di accertamento in ordine alla
provenienza del materiale rinvenuto in Capoterra e, conseguentemente, alla
sussistenza di uno stoccaggio illecito di materiale, posto che l’area in parola era
di pertinenza della società CONMOTER, autorizzata alla “messa in riserva di rifiuti
per sottoporli ad operazioni di recupero”, circostanza che rendeva certamente

Nessuna contraria argomentazione è stata, tuttavia, offerta sul punto dai
giudici di secondo grado che sarebbero pertanto incorsi nel vizio di motivazione
denunciato.
2.2.2.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la mancanza e la

manifesta contraddittorietà della motivazione in ordine alla sussistenza dei
presupposti del reato di cui all’articolo 260 d.lgs. n. 152 del 2006. (articolo 606,
comma 1, lettera e) del codice di procedura penale).
Afferma che l’accertamento della sussistenza del reato di cui all’articolo 260
presuppone un’attenta indagine in merito alle modalità del trasporto dei materiali
contestati da parte delle imprese che dall’aeroporto di Elmas li portavano
nell’impianto di Capoterra, nonché sull’autorizzazione della CONMOTER e,
comunque, sul sistema di lavorazione, al fine di verificare l’abusività delle
condotte contestate e la relativa modalità di gestione, dovendosi distinguere il
delitto in parola dalla contravvenzione di cui all’art. 256, d.lgs. n. 152 del 2006.
Nel caso di specie tale accertamento è stato erroneamente dato per scontato
dai giudici del merito, non potendo lo stesso essere desunto dall’irregolare
tenuta dei registri, come affermato dal Tribunale, né, tantomeno,
dall’interpretazione delle scelte difensive, come sostenuto dalla Corte d’Appello
che così (non) argomentando ha eluso specifici motivi di gravame proposti con
l’impugnazione.
Non solo. La sentenza, sul punto, presenterebbe profili di manifesta contraddittorietà con quanto affermato in altra parte della motivazione laddove, a
parere del Tribunale e della Corte d’Appello, al gestore di fatto dell’impianto di
Capoterra è ascrivibile il reato di cui all’articolo 256. Se così è, ne consegue che
la gestione e lo stoccaggio dell’impianto in parola non sono stati caratterizzati
dall’allestimento di mezzi e da attività continuative organizzate, né da alcuno
degli altri elementi che distinguono tale fattispecie dal delitto di cui all’art. 260
T.U.A., sicché non si comprende come quest’ultimo reato possa essere stato,
invece, ritenuto sussistente in capo al Melis, tanto per la condotta di stoccaggio
contemplata dal capo a) – mediante la quale, anche ponendosi nella prospettiva
dei giudici di merito, avrebbe concorso con l’Uccheddu – quanto per le attività di
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lecita e, anzi, fisiologica la presenza dei materiali rinvenuti.

trasporto, in quanto, come osservato nel primo motivo di ricorso, le stesse sono
oggetto della contestazione di cui al capo c).
2.3.3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce la mancanza di motivazione in
ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato di cui all’art. 260
d.lgs. n. 152 del 2006, poiché fondata la configurabilità di detto elemento su
mere affermazioni di principio, come tali astratte e, dunque, scollegate dalla
realtà dei fatti contestati.
Osserva a tal proposito che, alla luce delle prove documentali, le sentenze

perseguito dall’imputato, tanto più che non si comprende perché gli imputati
avrebbero allestito un’attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti – con
tutte le conseguenze e i rischi in termini di sanzioni penali e amministrative – per
favorire la stazione appaltante e farle sostenere costi inferiori di smaltimento,
senza che ciò potesse comportare alcun ritorno economico per le imprese
appaltatrici. Ricorda che la riconducibilità del materiale risultante dalla
scarificazione delle piste nella categoria dei sottoprodotti è stata affermata sia
dal concessionario pubblico-appaltante, peraltro sulla base della relazione
redatta da un esperto all’uopo incaricato, sia dall’Enac, che approvando la
proposta di variante ha, evidentemente, fatto proprie le considerazioni contenute
nel documento.
Orbene, tale circostanza fa emergere ancor più chiaramente la mera
apparenza di motivazione delle sentenze di merito in ordine alla sussistenza
dell’elemento psicologico del reato contestato poiché, da un lato, rimane
indimostrata e generica la finalità di profitto ingiusto perseguita dalle imprese
appaltatrici – considerato che anche la perizia di variante conferma che gli oneri
di smaltimento erano a carico della Sogaer – e, dall’altro, dimostra che il Melis
sarebbe, al più, incorso in un errore in buona fede nell’interpretazione della
normativa ambientale in tema di sottoprodotti, ma tale aspetto non è stato
neppure ipotizzato, pur a fronte del fatto, desumibile dalla prova documentale,
che soggetti pubblici altamente qualificati erano incorsi nel medesimo errore.
Sul punto, rileva, in conclusione, ad ulteriore riprova della necessità di una
concreta motivazione sulla sussistenza dell’elemento psicologico del reato
contestato, che il corretto operato della ditta appaltatrice nell’esecuzione dei
lavori emerge anche dal “certificato di collaudo finale” redatto dalla commissione
di esperti nominata dall’Enac che, all’esito delle diverse visite di collaudo in
cantiere e dell’analisi documentale, ha accertato la regolarità dei lavori e il
rispetto delle prescrizioni contrattuali, del progetto approvato e delle successive
varianti tecniche.
In particolare, dalla lettura del documento emerge che le verifiche operate
dall’ente pubblico sono state analitiche, tanto che, sotto il profilo contabile, viene

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non offrono alcuna spiegazione sull’ingiusto profitto, in concreto, asseritamente

dato atto della correzione di una specifica voce, che dimostra, da un lato, il
controllo capillare operato sui lavori e, dall’altro, che nessun rilievo è stato
mosso con riguardo alla gestione ed allo smaltimento dei rifiuti prodotti durante i
lavori, circostanza incompatibile con le quantità di materiale di cui si contesta
l’illecita gestione che sarebbero state certamente riscontrate dai tecnici
incaricati, tanto in occasione di visite ispettive quanto dalla verifica, anche
contabile, della documentazione concernente tali attività.
2.2.4. Con il quarto motivo il ricorrente si duole della erronea applicazione
della legge penale e della manifesta contraddittorietà della motivazione in merito
al momento di consumazione del reato contestato al Melis (articolo 606, comma
1, lettere b) ed e), del codice di procedura penale).
Osserva che, anche collocandosi nell’ottica della Corte d’Appello, il momento
sino al quale si sarebbe protratta la condotta criminosa contestata all’imputato
non può essere fatto coincidere con il sequestro operato il 31 marzo 2009, bensì
fissarlo al mese di ottobre 2008, quando il concessionario pubblico-appaltante ha
inviato all’Enac la richiamata perizia di variante nella quale affermava
esplicitamente la qualificazione come sottoprodotto del materiale oggetto di
contestazione.
Ebbene, considerata tale premessa, il momento in cui è venuta meno la
permanenza della asserita condotta illecita deve essere fatto retroagire,
quantomeno, all’invio di tale documento e, comunque, non oltre il 17 dicembre
2008, data di approvazione della perizia da parte dell’Enac.
Per le condotte realizzate successivamente, invero, deve escludersi la
punibilità del Melis, ai sensi dell’art. 47, comma 3, del codice penale, in quanto la
qualificazione dei materiali risultanti dai lavori di scarificazione operata dai
predetti soggetti pubblici ha evidentemente determinato nell’imputato un errore
sul fatto che costituisce il reato, convincendolo, stante la provenienza degli atti
in parola, che il materiale costituisse sottoprodotto, come tale sottratto alla
disciplina dei rifiuti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono inammissibili.

2. Il primo motivo del ricorso Vacca ed i primi tre motivi del ricorso Melis,
essendo tra loro strettamente collegati, vanno trattati congiuntamente.

3. Con accertamento di fatto, adeguatamente motivato e privo di vizi di
manifesta illogicità, sicché insuscettibile di essere sottoposto al sindacato di
legittimità, i Giudici del merito, con doppia conforme motivazione, hanno

precisato che, a seguito del sopralluogo compiuto dai Carabinieri del N.O.E.,
venne accertato che durante il periodo compreso tra il 8 maggio 2008 e il 31
marzo 2009, in Capoterra, località “Marzaloi” era stata trasportata e conferita
una ingente quantità di conglomerato bituminoso (altrimenti detto “fresato
d’asfalto”) derivante dalle attività di rifacimento della pista aerea dell’aeroporto
di Elmas. Il terreno suindicato risultò di proprietà della Sar.Co.Bit. S.r.l. e
pertinenza di un impianto della società collegata Con.Mo.Ter. S.r.l. specializzata
nella produzione di conglomerati bituminosi.

accuratamente pianificata di detto materiale, eseguita con mezzi pesanti che
dall’aeroporto di Elmas giungevano poi all’impianto di Capoterra, desumendo ciò
dal rinvenimento di numerosi “report” acquisiti dai Carabinieri tramite il curatore
del fallimento della Con.Mo.Ter. S.r.l.
I report in questione vennero infatti annotati, in via del tutto informale, dai
dipendenti impegnati nelle attività di trasporto al fine di assicurare una
documentazione seppur minima dei conferimenti di conglomerato bituminoso
operati dalla Sar.Co.Bit. S.r.l. verso la Con.Mo.Ter. S.r.l.
L’attività continuativa di trasporto e di conferimento delle miscele presso
l’agro di Marzolai venne comunque anche confermata dalle dichiarazioni rese dal
teste Carlo Uccheddu, dichiarazioni ulteriormente corroborate da quelle rese da
altro testimone (Domenico De Angelis).
Lo stesso imputato, Italo Melis, aveva confermato che vi fu un trasporto
continuo di miscela bituminosa dall’aeroporto di Elmas verso l’impianto di
Marzaloi.
Sulla base di ciò e di ulteriori risultanze, i Giudici del merito hanno ritenuto
che il conglomerato conferito presso l’impianto di Marzaloi, nel periodo compreso
tra 1’8 maggio e il 25 settembre 2008, avesse natura di rifiuto essendo destinato
per contratto all’abbandono ed essendo stato, per la maggior parte, derelitto;
hanno inoltre ritenuto che le attività di trasporto e di conferimento nella località
suindicata incrementarono una discarica già esistente su quel sito, formata
anche da batterie esauste e da pneumatici fuori uso, nonché da altre migliaia di
metri cubi di sostanza analoga.
Sulla base degli elementi probatori raccolti, hanno dunque qualificato come
abusive le attività di trasporto e di conferimento, in quanto svolte senza
autorizzazione e senza redigere la documentazione espressamente richiesta dalla
normativa di settore; hanno ritenuto che le stesse fossero state svolte con
continuità e con organizzazione di uomini e mezzi: sempre con le medesime
modalità e caratteristiche. In particolare, furono sempre identiche le società che
organizzarono la movimentazione dei mezzi; identica era la natura del materiale

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I Giudici del merito hanno ritenuto provata un’attività di trasporto continua e

trasportato e identici furono anche gli autisti preposti alla guida dei mezzi di
trasporto.
Sempre secondo la ricostruzione dei fatti operata dai Giudici del merito,
l’intera attività di trasporto e conferimento del materiale avvenne secondo
operazioni pianificate accuratamente, condotte dalle due società di capitali
nell’esercizio delle rispettive attività di impresa in esecuzione del contratto
d’appalto e delle commesse ad esso pertinenti.
Tali circostanze comprovavano anche il perseguimento di un ingiusto profitto

il trasporto del conglomerato bituminoso, proveniente dal rifacimento della pista
aerea dell’aeroporto di Elmas, avendone disposto il conferimento presso
l’impianto di Marzaloi, in vista di un successivo riutilizzo nel ciclo produttivo, ed
ottenendo anche un notevole risparmio sui costi che avrebbero dovuto altrimenti
sostenere qualora la gestione del materiale fosse avvenuta nel pieno rispetto
della normativa di settore.

4. Ciò posto, la prima questione da esaminare è, nell’ordine logico, se il
materiale trasportato nell’impianto di Marzaloi vada qualificato come
sottoprodotto, secondo la tesi esposta dai ricorrenti, o come rifiuto, secondo il
convergente approdo cui sono giunti i Giudici del merito.
4.1. Nel corso del primo giudizio, il Tribunale ha ritenuto di disattendere la
tesi difensiva, secondo la quale il materiale bituminoso andava qualificato come
sottoprodotto.
In particolare la difesa aveva sostenuto che il trasporto presso la località
“Marzaloi” avvenne al solo fine di assicurane il trattamento nell’impianto della
Con.Mo.Ter. in vista di un successivo reimpiego nel ciclo di rifacimento della
pista aerea di Elmas, secondo quanto disposto dal contratto d’appalto.
Il Tribunale ha invece ritenuto che tale tesi poteva ritenersi fondata solo per
un periodo successivo all’arco temporale interessato dall’imputazione, atteso che
la seconda variante al contratto d’appalto (del 17.12.2008) venne approvata solo
dopo che le attività di trasporto, così come documentate nei report, erano state
compiute da tempo ovvero quando la destinazione di rifiuto era già stata
impressa in maniera definitiva e irreversibile.
A parere del Tribunale le miscele bituminose avrebbero potuto qualificarsi in
termini di sottoprodotto solo laddove fosse stata certa sin dall’origine la
destinazione al reimpiego.
Per contro, ha ritenuto certa sin dall’origine la sua destinazione in discarica,
pervenendo alla conclusione di ritenere pienamente integrato il reato di cui
all’articolo 260 d.lgs. n. 152/2006 sotto il profilo oggettivo e soggettivo.

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da parte delle società Sar.Co.Bit. e Con.Mo.Ter. avendo dette società organizzato

4.2. La Corte di appello ha condiviso il percorso argomentativo del Tribunale
ed ha fornito adeguata risposta alle obiezioni difensive che, con i ricorsi per
cassazione, sono state sostanzialmente riproposte negli stessi termini.
Per rendersene conto è opportuno riportare le rationes decidendi della Corte
del merito, la quale ha esaminato la comune tesi difensiva fondata sul rilievo,
ritenuto dirimente, che il fresato derivante dalle operazioni di scarificazione della
vecchia pista aeroportuale dovesse essere reimpiegato quale componente del
manto di copertura della nuova pista.

vero che il fresato dovesse essere per intero riutilizzato; sia perché l’accezione di
sottoprodotto impiegata è stata ritenuta non corrispondente alla rigorosa
definizione che la legge dà dei materiali qualificabili come sottoprodotti.
Dopo aver riportato la definizione normativa di sottoprodotto vigente al
momento dei fatti e introdotta dall’articolo 2, comma 20, d.lgs. n. 4 del 2008,
che sostituì per intero il testo dell’articolo 183 d.lgs. n. 152 del 2006 concernente
le definizioni normative e dopo aver riportato anche la definizione di
sottoprodotto data dal successivo d.lgs. n. 205 del 2010, che ha nuovamente
riformulato il citato articolo 183 e, con specifico riferimento ai sottoprodotti, ha
introdotto nel d.lgs. n. 152 del 2006 l’articolo 184-bis, la Corte del merito ha
affermato come, con riferimento alla vicenda in esame, vi fosse una sostanziale
continuità normativa tra la definizione dei sottoprodotti vigente all’epoca dei fatti
e quella subentrata nel 2010.
La Corte di appello ha quindi chiarito come fosse certo che il fresato
derivante dalla scarificazione dell’asfalto della vecchia pista aeroportuale
derivasse da un processo lavorativo che non era funzionale alla sua produzione;
anzi il processo produttivo era funzionale, almeno nella fase dello
smantellamento della vecchia pista, a eliminare lo strato di asfalto esistente per
poter realizzare la nuova pista.
Quanto poi al requisito della previsione certa del riutilizzo, la Corte del
merito ha osservato come i difensori avessero sottolineato che sarebbe stato
certo fin dall’inizio dei lavori il reimpiego del fresato derivante dalla scarificazione
del vecchio strato d’asfalto.
A questo proposito, la Corte distrettuale ha posto in evidenza come, per
stessa ammissione difensiva, il fresato non dovesse essere riutilizzato per intero
perché, come stabilito nel primo capitolato d’appalto e comprovato dalle
dichiarazioni dell’ing. Massimo Rodriguez, era previsto che il fresato derivante
dalla scarificazione doveva essere riutilizzato per la nuova pista nella misura del
55%; pertanto, il restante 45% non sarebbe stato riutilizzato e perciò costituiva
a tutti gli effetti un rifiuto.

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La Corte distrettuale ha stimato l’assunto erroneo sia perché non ha ritenuto

Alla luce di ciò, è apparso irrilevante che, con la perizia di variante
approvata soltanto il 17.12.2008 (cioè quando i lavori andavano avanti ormai da
tempo e un gran numero di trasporti di fresato a Marzaloi erano stati eseguiti), si
era stabilito, quale compensazione per la riduzione al 20% del fresato da
riutilizzare nella nuova pista, l’impiego del restante fresato per la realizzazione
delle “strips” (fasce laterali rispetto alla pista in senso stretto) mischiandolo e
costipandolo con altro materiale inerte: la variante non poteva evidentemente
mutare, a posteriori, le caratteristiche del materiale già abbandonato e

effettivamente impiegato per il nuovo uso deciso soltanto a fine 2008.
La Corte territoriale ha precisato come il concetto fosse stato espresso
efficacemente anche dalla consulente, dr.ssa Simonetta Fanni, la quale aveva
chiarito che “colui che deve e vuole riutilizzare come sottoprodotto lo deve
dichiarare immediatamente e deve poi fare che ci sia assoluta certezza, ma in
fase iniziale, non a metà strada o a fine lavoro” (ud. 20.6.2013, pag. 29).
E’ stato poi ritenuto che difettasse in radice un requisito essenziale del
sottoprodotto, e cioè il fatto che potesse essere riutilizzato “tal quale”, senza
essere sottoposto a trattamenti preventivi o trasformazioni preliminari.
Secondo la Corte d’appello, è certo invece che, almeno per la quota da
riutilizzare come componente della nuova pista, dovesse essere sottoposto a un
trattamento che ne mutava in modo radicale le caratteristiche.
Al riguardo, è stato ritenuto decisivo che il fresato fosse trasferito proprio a
Marzaloi, presso la Con.Mo.Ter., che gestiva un impianto di produzione di
conglomerati bituminosi.
Ciò, di per sé, è stato considerato come indicativo della necessità di
sottoporre il fresato da riutilizzare a un processo di trasformazione, rientrando in
una nozione di comune esperienza il fatto che il materiale grezzo, polveroso e
sassoso, proveniente dalla scarificazione del precedente asfalto, non viene
reimmesso “tal quale” a integrare il nuovo fondo ma è impiegato per realizzare,
mediante appositi macchinari, un diverso materiale – evidentemente non
polveroso, né sassoso – con caratteristiche del tutto diverse di pastosità,
elasticità e relativa morbidezza.
E, con specifico riferimento al caso in esame, la Corte di appello non ha
mancato di sottolineare come il consulente, dr. Antonello Angius, avesse
spiegato che il conglomerato bituminoso utilizzato per lo strato di base della
pista principale — cioè proprio quello per il quale era previsto il reimpiego del
fresato di cui si discute — era prodotto a caldo in un impianto esterno (ud.
20.6.2013, pag. 51).
Dal testo della sentenza impugnata, risulta che lo stesso concetto è stato
espresso dal dr. Angius nella sua relazione scritta, richiamata dall’appello Melis a
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costituente a tutti gli effetti rifiuto, anche nell’ipotesi che esso fosse stato poi

pag. 2-3, trovando ciò specifica conferma nelle leali dichiarazioni dell’ing. Silvia
Portas, consulente tecnico della difesa, la quale, pur avendo sostenuto —
evidentemente al fine di corroborare la tesi difensiva — che il fresato sarebbe
stato riutilizzato “tal quale”, poco dopo, in palese contraddizione, ha precisato
che per realizzare il conglomerato bituminoso “il reimpiego è stato fatto a caldo,
quindi l’hanno portato nell’impianto di Capoterra, l’hanno miscelato con un
conglomerato vergine e poi hanno riportato tutta la miscela in aeroporto” (ud.
5.11.2013, pag. 29).

Portas ha anche sottolineato che, mentre la tecnica a freddo permette di
riutilizzare il 100% del fresato, che viene reimpastato direttamente sul sito con
una macchina apposita e mischiato con nuovo bitume, cemento e acqua
polverizzata, la tecnica a caldo non permette di conoscere a priori la quantità
utilizzabile perché dipende da quanto bitume è rimasto aggregato agli inerti dopo
la fresatura e soprattutto non si conosce l’esatta pezzatura dell’inerte dopo che
viene fresato. In questa prospettiva, occorre tener conto delle prestazioni
meccaniche che si vogliono ottenere e proprio in ragione di ciò, dopo i test del
Politecnico di Milano, fu deciso di abbassare la percentuale di fresato presente
nel conglomerato bituminoso destinato alla nuova pista (ud. 5.11.2013, pag. 3133).
Da ciò la Corte di appello ha tratto la logica convinzione che, ai fini del suo
riutilizzo quale componente del nuovo conglomerato bituminoso, il fresato non
veniva impiegato “tal quale” ma era sottoposto a una lavorazione a caldo che,
attraverso la miscelazione con altre componenti vergini, dava luogo a un
materiale del tutto diverso da quello originario. E ciò avveniva affinché il
prodotto risultante potesse soddisfare le specifiche caratteristiche merceologiche
richieste per l’asfalto della nuova pista aeroportuale, caratteristiche che il fresato
“tal quale” non aveva, con la conseguenza che è stato escluso in modo certo,
persino sulla base di acquisizioni probatorie indicate dalla stessa difesa negli atti
d’impugnazione, che il fresato d’asfalto costituisse un sottoprodotto in senso
stretto, mentre costituiva a tutti gli effetti un rifiuto.

5. Le conclusioni, cui sono giunti i Giudici del merito, sono corrette ed
immuni dai rilievi giuridici sollevati dai ricorrenti perché, nella specie, il materiale
raccolto non è qualificabile come sottoprodotto, né alla stregua delle versione
originaria contenuta nel d.lgs. n. 152 del 2006, né alla stregua della versione
introdotta dal d.lgs. n. 4 del 2008, ratione temporis vigente, e neppure alla
stregua della nuova definizione dei sottoprodotti recata dal d.lgs. 3 aprile 2006,
n. 152, articolo 184-bis, inserito dal d.lgs. 3 dicembre 2010, n. 205, art. 12, con
la sottolineatura che gli approdi interpretativi devono ritenersi confermati anche
12

Nello spiegare le tecniche di miscelazione per il reimpiego del fresato, l’ing.

a seguito dell’entrata in vigore (in data 2 marzo 2017) del decreto ministeriale
13 ottobre 2016, n. 264 (G.U. 15 febbraio 2017 n. 38 – Regolamento recante
criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per
la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti).
Quindi, l’affermazione contenuta nella sentenza di secondo grado, secondo
la quale vi è piena continuità normativa tra le disposizioni che, nel definire la
nozione di sottoprodotto, si sono succedute nel tempo, è senza dubbio corretta.
La nuova disposizione legislativa, introdotta dal d.lgs. n. 205 del 2010 che è

richiede perché si tratti di sottoprodotto, tra l’altro, da un lato, che la sostanza o
l’oggetto potesse essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento
diverso dalla normale pratica industriale (comma 1, lett. c), e, da un altro lato,
che la sostanza o l’oggetto fosse originato da un processo di produzione, di cui
costituisse parte integrante, e il cui scopo primario non fosse la produzione di
tale sostanza od oggetto (comma 1, lett. a).
Sul punto, questa Sezione ha affermato che integra il reato previsto dall’art.
256, comma primo, lett. a), del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 il reimpiego di
materiale inerte derivante dall’attività di scarifica del manto stradale nel
processo produttivo di conglomerato bituminoso, non potendo lo scarificato
essere qualificato come sottoprodotto ai sensi dell’art. 184 bis del citato D.Lgs.
neppure all’esito della modifica introdotta dall’art. 12 del D.Lgs. 3 dicembre
2010, n, 205 (Sez. 3, n. 7374 del 19/01/2012, Aloisio, Rv. 252101).
Si è visto come sia stato accertato che il fresato derivante dalla
scarificazione dell’asfalto della vecchia pista aeroportuale originasse da un
processo lavorativo che non era funzionale alla sua produzione; anzi il processo
produttivo era funzionale, almeno nella fase dello smantellamento della vecchia
pista, a eliminare lo strato di asfalto esistente per poter realizzare la nuova pista.
In ogni caso, opportunamente, i Giudici del merito, come sarà più chiaro in
seguito, hanno anche accertato che il fresato derivante dalle operazioni di
scarificazione della vecchia pista aeroportuale, oltre a difettare di altri necessari
requisiti, richiedeva adeguate operazioni di recupero per poter essere riutilizzato
e che erano necessarie ulteriori trasformazioni e trattamenti, tramite apposito
impianto non collocato in loco e dove il fresato di asfalto doveva essere
appositamente trasportato.
E’ pacifico, tant’è che gli stessi ricorrenti se ne fanno carico, che una
sostanza, per essere qualificata come sottoprodotto, deve soddisfare
cumulativamente tutti i requisiti di cui all’articolo 184-bis TUA, con la
conseguenza che, se anche uno solo dei requisiti non è soddisfatto, la sostanza
non può rientrare nella nozione di sottoprodotto.

13

invocata dai ricorrenti per supportare la tesi che non si trattasse di rifiuto,

L’art. 184-bis, infatti, stabilisce che è sottoprodotto e non rifiuto ai sensi
dell’art. 183, comma 1, lett. a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfi tutte
le seguenti condizioni: la sostanza o l’oggetto deve trarre origine da un processo
di produzione, di cui costituisca parte integrante, e il cui scopo primario non sia
la produzione di tale sostanza od oggetto; deve esserne certa l’utilizzazione nel
corso dello stesso e/o di un successivo processo di produzione e/o di
utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; la sostanza o l’oggetto può
essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla

l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i
prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti
complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana.
Ciò posto, occorre partire dalla premessa, aderente al dato normativo, che i
materiali che residuano da lavori di demolizione o di costruzione, che hanno ad
oggetto strade o opere simili (quale, come nel caso in esame, la nuova
costruzione di una pista aeroportuale) devono farsi rientrare nel novero dei
rifiuti, perché l’articolo 184, comma 1, lettera b) del T.U.A., definisce, ex positivo
iure, rifiuti speciali quelli derivanti da attività di demolizione, costruzione, nonché
quelli che derivano dalle attività di scavo, fermo restando la possibilità di gestire
gli stessi come sottoprodotti, ricorrendo le condizioni di cui all’articolo 184-bis
TUA.
Ne consegue che il materiale derivante dalle attività incluse nella lista di cui
alla lettera b) del terzo comma dell’articolo 184 TUA costituiscono rifiuti per
presunzione ex lege iuris tantum (circostanza, del resto, confermata per quanto
attiene l’attività di scarifica del manto stradale mediante fresatura a freddo
qualificata al punto 7.6.1 come rifiuto dall’allegato 1 al D.M. del 5 febbraio 1998
e dal Codice Europeo dei Rifiuti), così dovendosi interpretare l’inciso “fermo
restando quanto disposto dall’articolo 184-bis”, nel senso cioè che la regola è
che si verte in tema di rifiuti, pur non essendo esclusa (in via di eccezione) la
possibilità che dette sostanze derivanti da quelle attività costituiscano, in
presenza di tutte le condizioni previste dall’articolo 184-bis, sottoprodotti.
In tale quadro, secondo il Collegio, vanno letti gli arresti cui è pervenuta, sul
tema della natura dei residui da demolizione del manto stradale, la
giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, Sez. IV, n. 4978 del 06/10/2014;
Cons. Stato, Sez. IV, n. 4151 del 21/05/2013), la quale si è espressa nel senso
di ritenere astrattamente possibile qualificare il fresato d’asfalto come
sottoprodotto, in presenza (appunto) di tutte le condizioni prescritte dall’articolo
184-bis, del T.U.A.
La giurisprudenza amministrativa ha osservato che il fresato d’asfalto, pur
essendo contemplato dal Codice Europeo dei Rifiuti (CER), può essere trattato
14

normale pratica industriale; l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o

alla stregua di un sottoprodotto quando venga inserito in un ciclo produttivo e
• venga utilizzato senza nessun trattamento in un impianto che ne preveda
l’utilizzo nello stesso ciclo di produzione, senza operazioni di stoccaggio a tempo
indefinito, precisando che resta comunque ferma la qualifica di

“rifiuto” del

fresato d’asfalto, con la conseguenza che, ai fini dello smaltimento, esso è
soggetto a tutte le norme che valgono per la categoria dei rifiuti, mentre può
essere qualificato sottoprodotto, anziché rifiuto, se lo stesso è inserito in un ciclo
produttivo, ossia se viene utilizzato senza nessun trattamento diverso dalla

ciclo di produzione, e precisamente per il reimpiego del materiale come
componente del prodotto finale trattato nell’ambito dello stesso impianto (Cons.
Stato, Sez. IV, n. 4151 del 2013, cit.).
La giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che il c.d. “fresato
d’asfalto” – che viene solitamente definito come il materiale solido di risulta
dell’attività di scarifica (scarificazione) del manto stradale mediante fresatura,
costituito da bitume ed inerti, qualificato come rifiuto dall’allegato 1 al D.M. del
5 febbraio 1998 e dal Codice Europeo dei Rifiuti – rientri nella nozione di rifiuto.
In realtà, il nucleo che, in questa delicata materia del diritto ambientale,
sorregge tale consolidato orientamento, dovendo per ovvie ragioni l’analisi
essere limitata alle pronunce intervenute dopo la novella del 2010, è tutto nel
senso che, in taluni casi, la presunzione legale iuris tantum della qualifica di
rifiuto non è vinta da chi eccepisce la natura di sottoprodotto della sostanza
derivante dalle predette attività (da ultimo, Sez. 3, n. 37168 del 09/06/2016,
Bindi, non mass.), laddove, trattandosi di invocare una condizione per
l’applicabilità di un regime derogatorio a quello ordinario dei rifiuti, incombe
sull’interessato l’onere di provare che tutti i requisiti, richiesti dall’articolo 184bis per attribuire alla sostanza la qualifica di sottoprodotto, siano stati osservati
(” … fermo restando quanto disposto dall’articolo 184-bis”), mentre al giudice
compete la verifica se il materiale probatorio fornito dalla parte abbia assolto tale
onere.
In questo senso è anche il decreto ministeriale 13 ottobre 2016, n. 264 che,
all’articolo 4, nel dettare le condizioni generali di applicabilità, esordisce
affermando che, ai sensi dell’articolo 184-bis del decreto legislativo 3 aprile
2006, n. 152, i residui di produzione, cui all’articolo 2, comma 1, lettera b), ossia
“ogni materiale o sostanza che non è deliberatamente prodotto in un processo di
produzione e che può essere o non essere un rifiuto”) sono sottoprodotti e non
rifiuti quando il produttore dimostra che, non essendo stati prodotti
volontariamente e come obiettivo primario del ciclo produttivo, sono destinati ad
essere utilizzati nello stesso o in un successivo processo, dal produttore
medesimo o da parte di terzi e, a tal fine, in ogni fase della gestione del residuo,

15

normale pratica industriale in un impianto che ne preveda l’impiego nello stesso

è necessario fornire la dimostrazione che sono soddisfatte tutte le condizioni di

cui alle lettere a), b), c) e d) dell’articolo 4 del decreto.
Nel caso in esame, non soltanto i ricorrenti non hanno affatto osservato
l’onere sugli stessi incombente anzi, come sottolineato nella sentenza
impugnata, sono emerse circostanze di segno opposto, confermative della natura
di rifiuto del materiale derivante dall’attività di scarificazione del manto della
pista aeroportuale, con specifico riferimento, al di là della
fresato e di cui si è già

“provenienza” del

trattato, ai requisiti dell’utilizzo, della certezza

dell’utilizzo e della compatibilità del trattamento con la nozione di sottoprodotto.
5.1. Quanto al requisito dell’utilizzo, è incontroverso che, nel periodo
oggetto della contestazione, esso non sia stato integrale.
Tuttavia, non è più previsto, con la novella del 2010, che il riutilizzo della
sostanza (nel caso in esame, del fresato di asfalto) debba essere integrale e ciò
si spiega col fatto che il produttore può decidere di disfarsi, in parte, del
sottoprodotto che, a quel punto, diventa un rifiuto.
Ne consegue che, quando il riutilizzo non è integrale, inevitabilmente una
parte della sostanza prodotta è rifiuto in quanto oggettivamente destinata
all’abbandono e l’eventuale recupero è condizionato a precisi adempimenti, in
mancanza dei quali detti materiali vanno considerati, comunque, cose di cui il
detentore ha l’intenzione di disfarsi, con l’ulteriore conseguenza che la giacenza
del materiale (a maggior ragione se, come nella specie, in una sede diversa dal
luogo di produzione del rifiuto) integra la fase dello stoccaggio e pone il
problema della permanenza del rifiuto.
5.2. Quanto poi al requisito della certezza dell’utilizzo del sottoprodotto, si
richiede che sia “certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello
stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del
produttore o di terzi”.
Sebbene la norma del 2008 indicasse espressamente il momento della
produzione come quello in cui deve sussistere la certezza del riutilizzo,
richiedendo che fosse anche preventivamente individuato il processo di
produzione o di utilizzazione in cui questo deve avvenire, la dottrina ha
segnalato come tali condizioni, quantunque non replicate con la novella del 2010,
siano da ritenersi implicite nel sistema.
E’ stato infatti osservato che solo la fase della produzione è quella in cui, a
seconda del comportamento o delle intenzioni del produttore, si può stabilire se
egli si disfi o abbia intenzione di disfarsi della sostanza, nel qual caso si è in
presenza di un rifiuto ovvero intenda procedere ad un riutilizzo di essa
all’interno del circuito produttivo, nel qual caso, ricorrendo tutte le altre
condizioni, si è in presenza di un sottoprodotto e tale opzione deve emergere,
senza soluzione di continuità, nel momento della produzione e non può
16

subentrare dopo che la sostanza abbia assunto la natura di rifiuto, con la
conseguenza che, dovendosi individuare nel momento della produzione quello in
cui vanno verificate le condizioni perché possa parlarsi di sottoprodotto, è
evidente che ciò non può che avvenire prima del suo utilizzo e che quest’ultimo
deve essere preventivamente individuato e programmato, a prescindere
dall’espressa previsione normativa.
La questione è strettamente collegata con quella della prova della certezza
del riutilizzo e, per le ragioni in precedenza enunciate, la giurisprudenza di

qualificazione come sottoprodotto di sostanze e materiali incombe
sull’interessato l’onere di fornire la prova che un determinato materiale sia
destinato con certezza ed effettività, e non come mera eventualità, ad un
ulteriore utilizzo, trattandosi di disciplina avente natura eccezionale e derogatoria
rispetto a quella ordinaria (Sez. 3, n. 3202 del 02/10/2014, dep. 2015, Giaccari,
Rv. 262129; Sez. 3,n. 41836 del 30/09/2008, Castellano, Rv. 241504).
Nel caso in esame, siccome è incontroverso che sin dall’inizio il fresato non
dovesse essere utilizzato per intero, è invece certo che una parte cospicua di
esso (pari al 45%) non sarebbe stata riutilizzata e perciò costituiva a tutti gli
effetti un rifiuto.
Pertanto, non potendo la certezza dell’utilizzo subentrare dopo che la
sostanza aveva già assunto la natura di rifiuto, è apparso, a ragione, irrilevante
che, con la perizia di variante approvata soltanto il 17 dicembre 2008 (cioè
quando i lavori andavano avanti ormai da tempo e un gran numero di trasporti di
fresato a Marzaloi erano stati eseguiti), si era stabilito, quale compensazione per
la riduzione al 20% del fresato da riutilizzare nella nuova pista, l’impiego del
restante fresato per la realizzazione delle “strips” (fasce laterali rispetto alla pista
in senso stretto) mischiandolo e costipandolo con altro materiale inerte: la
variante non poteva evidentemente mutare, a posteriori, le caratteristiche del
materiale già abbandonato e costituente a tutti gli effetti rifiuto, anche
nell’ipotesi che esso fosse stato poi effettivamente impiegato per il nuovo uso
deciso successivamente.
5.3. A seguito del decreto legislativo n. 205 del 2010, la lettera c) del primo
comma dell’articolo 184-bis prevede che “la sostanza o l’oggetto può essere
utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale
pratica industriale”.
Anche questa ulteriore e necessaria condizione è stata ritenuta mancante
nel senso che il fresato non poteva essere riutilizzato “tal quale”, dovendo invece
essere sottoposto, almeno per la quota da riutilizzare come componente della
nuova pista, a un trattamento diverso dalla normale pratica industriale che ne
mutava in modo radicale le caratteristiche.
17

legittimità è ferma nel ritenere che, in materia di gestione dei rifiuti, ai fini della

In altri termini, ai fini del suo riutilizzo quale componente del nuovo
conglomerato bituminoso, il fresato non veniva impiegato “tal quale” ma era
sottoposto, nel caso di specie, a una lavorazione a caldo che, attraverso la
miscelazione con altre componenti vergini, dava luogo a un materiale del tutto
diverso da quello originario. E ciò avveniva affinché il prodotto derivato potesse
soddisfare le specifiche caratteristiche merceologiche richieste per l’asfalto della
nuova pista aeroportuale, caratteristiche che il fresato “tal quale” non aveva.
Quindi, non risulta dimostrato, anzi è emerso l’esatto contrario, che il

alcun ulteriore trattamento diverso dalla “normale pratica industriale”.
Tale ultima nozione non può infatti ricomprendere, come ha chiarito la
giurisprudenza di legittimità, quelle attività che comportano trasformazioni così
radicali del materiale trattato tanto da stravolgerne l’originaria natura (Sez. 3, n.
17453 del 17/04/2012, Busé, in motiv.), al pari di quelle che si risolvono, come
nel caso di specie, in una vera e propria attività di recupero di rifiuti.
Invero, dall’accertamento di merito contenuto nella sentenza impugnata, è
risultato evidente che i materiali derivanti dalla scarificazione della vecchia pista
aeroportuale non venivano utilizzati direttamente, poiché erano sottoposti ad
una specifica procedura di “trattamento”, la cui nozione è ricavabile dal d.lgs. n.
36 del 2003, art. 2, comma 1, lett. h) “Attuazione della direttiva 1999/31/CE
relativa alle discariche di rifiuti” e si riferisce ai “processi fisici, termici, chimici o
biologici, incluse le operazioni di cernita, che modificano le caratteristiche dei
rifiuti, allo scopo di ridurne il volume o la natura pericolosa, di facilitarne il
trasporto, di agevolare il recupero o di favorirne lo smaltimento in condizioni di
sicurezza”, con la conseguenza che tale attività comporta un mutamento
strutturale delle componenti chimico-fisiche della sostanza trattata, sicché, se
tale è il “trattamento”, anche operazioni di minor impatto sul residuo, definite
“mininnali”, individuabili in operazioni quali la cernita, la vagliatura, la
frantumazione o la macinazione, ne determinano una modificazione
dell’originaria consistenza, rientrando in tale concetto (Sez. 3, n. 17453 del
17/04/2012, cit. in motiv.). Essendo pertanto questa la nozione di “trattamento”
da considerare ai fini dell’individuazione della sussistenza dei requisiti di cui al
d.lgs. n. 152 del 2006, articolo 184-bis, la giurisprudenza di legittimità ha
osservato che la verifica – diretta ad accertare quando detto trattamento possa
ritenersi rientrante nella normale pratica industriale – implica il ricorso ad
un’interpretazione meno estensiva dell’ambito di operatività della disposizione in
esame e tale da escludere dal novero della normale pratica industriale tutti gli
interventi manipolativi del residuo diversi da quelli ordinariamente effettuati nel
processo produttivo nel quale esso viene utilizzato. Tale lettura della norma,
suggerita dalla dottrina e che considera conforme alla normale pratica industriale
18

fresato di asfalto fosse stato o potesse essere utilizzato direttamente, senza

quelle operazioni che l’impresa normalmente effettua sulla materia prima che il
sottoprodotto va a sostituire, è sembrata maggiormente rispondente ai criteri
generali di tutela dell’ambiente cui si ispira la disciplina in tema di rifiuti, rispetto
ad altre pur autorevoli opinioni che, ampliando eccessivamente il concetto,
rendono molto più incerta la delimitazione dell’ambito di operatività della
disposizione e più alto il rischio di una pratica applicazione che ne snaturi, di
fatto, le finalità, con la precisazione che tale soluzione interpretativa, in ogni
caso, non può prescindere da un puntuale accertamento in fatto da parte del

significativi della vicenda processuale che consentano di verificare la effettiva
sussistenza dei presupposti di applicabilità della disciplina prevista per i
sottoprodotti (Sez. 3, n. 17453 del 17/04/2012, cit. in motiv.).
A tale delicato compito non si sono sottratti, nel caso di specie, il Giudici del
merito che, in considerazione del trattamento subito dal fresato di asfalto, hanno
desunto la mancanza di questo altro e fondamentale requisito richiesto dal d.lgs.
n. 152 del 2006, articolo 184-bis per la configurazione del sottoprodotto.
Sotto quest’ultimo aspetto, va sottolineato come il precitato decreto
ministeriale n. 264 del 2016 abbia fornito, all’articolo 6 (Utilizzo diretto senza
trattamenti diversi dalla normale pratica industriale), indicazioni non contrastanti
con l’interpretazione giurisprudenziale del concetto di normale pratica industriale,
laddove ha precisato, al comma 1, che, ai fini e per gli effetti dell’articolo 4,
comma 1, lettera c), non costituiscono normale pratica industriale i processi e le
operazioni necessari per rendere le caratteristiche ambientali della sostanza o
dell’oggetto idonee a soddisfare, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti
riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e a non portare
a impatti complessivi negativi sull’ambiente, salvo il caso in cui siano effettuate
nel medesimo ciclo produttivo, secondo quanto disposto al comma 2.
In base al quale, invece, rientrano, in ogni caso, nella normale pratica
industriale le attività e le operazioni che costituiscono parte integrante del ciclo
di produzione del residuo, anche se progettate e realizzate allo specifico fine di
rendere le caratteristiche ambientali o sanitarie della sostanza o dell’oggetto
idonee a consentire e favorire, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti
riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e a non portare
ad impatti complessivi negativi sull’ambiente (articolo 6, comma 2, DM n. 264
del 2016).
Ciò posto, in disparte la questione della natura certamente non integrativa
della norma penale di tale decreto, appare chiaro come la definizione di normale
pratica industriale appaia coerente con la tesi più restrittiva espressa in
precedenza dalla giurisprudenza di legittimità, giacché si esclude che possano
rientrare in quella nozione “i processi e le operazioni necessari per rendere le

19

giudice del merito, il quale dovrà necessariamente analizzare tutti gli aspetti

caratteristiche ambientali della sostanza o dell’oggetto idonee a soddisfare, per
l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti”,

comprese

dunque le operazioni cd. minimali, salvo che non costituiscano parte integrante
del ciclo di produzione del residuo in modo che sia garantito l’utilizzo del
sottoprodotto “tal quale” (cioè nello stesso stato in cui è generato dal processo di
produzione), circostanza che i giudici del merito, con logica ed adeguata
motivazione, hanno correttamente escluso.
5.4. Conclusivamente, nel caso in questione, i ricorrenti, da una parte, non

tutte le condizioni richieste dall’articolo 184-bis d.lgs. n. 152 del 2006 per
ritenere che il fresato di asfalto, ricavato dalle operazioni di scarificazione della
vecchia pista aeroportuale, potesse rientrare nella categoria del sottoprodotto,
fermo restando che costituisce una quaestio facti, demandata al giudice di merito
ed insindacabile in sede di legittimità se giuridicamente corretta e se sorretta,
come nella specie, da adeguata motivazione esente da vizi di manifesta illogicità,
quella diretta a stabilire se una sostanza abbia o meno natura di sottoprodotto o
di rifiuto.

6. Esclusa la natura di sottoprodotto del fresato di asfalto reiteratamente
trasportato da Elmas a Capoterra nell’impianto di Marzolai, devono ritenersi
manifestamente infondati anche gli altri due motivi di impugnazione articolati dal
ricorrente Melis.
A dimostrazione della loro manifesta infondatezza, va ricordato che il delitto
di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (art. 260, D.Lgs. 3 aprile
2006, n. 152) sanziona una pluralità di condotte che si risolvono in una
qualunque delle operazioni tassativamente elencate dalla norma consistenti nella
cessione, ricezione, trasporto, esportazione, importazione e, in ogni caso, nella
gestione abusiva dei rifiuti e che devono realizzarsi nel contesto di una struttura
organizzata tendenzialmente destinata ad operare con continuità.
Trattasi di un

reato abituale, che si perfeziona soltanto attraverso la

realizzazione di più comportamenti non occasionali della stessa specie, finalizzati
al conseguimento di un ingiusto profitto, con la necessaria predisposizione di
una, pur rudimentale, organizzazione professionale di mezzi e capitali, che sia in
grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo (Sez. 3, n.
52838 del 14/07/2016, Serrao, Rv. 268920; Sez. 3, n. 44629 del 22/10/2015,
Bettelli, Rv. 265573; Sez. 3, n. 46705 del 03/11/2009, Caserta, Rv. 245605).
La norma incriminatrice, poi, non si limita a punire l’illecita gestione
organizzata, ma richiede in aggiunta che le condotte di gestione siano connotate
dal requisito dell’abusività.

20

hanno assolto l’onere della prova, sugli stessi incombente, circa l’osservanza di

Dal testo della sentenza impugnata risulta e non è controverso che, per i
trasporti e la gestione del fresato in questione, le imprese appaltatrici non
avessero richiesto e tanto meno ottenuto alcuna autorizzazione.
Non è nemmeno contestabile che il fresato in questione, da qualificare come
rifiuto, fosse oggetto di un traffico e che i quantitativi interessati siano stati
ingenti.
La Corte di appello è pervenuta a tale conclusione, come già in precedenza
anticipato, sulla base dei numerosi “report” dei camionisti attestanti il

dichiarazioni del teste De Angelis e dell’imputato Melis, che hanno offerto un
quadro sufficientemente preciso del traffico di fresato di asfalto tra il cantiere
aeroportuale di Elmas e l’impianto di Marzaloi (pagina 14 e 15 della sentenza
impugnata).
Il carattere ingente dei rifiuti trasportati abusivamente è stato desunto dagli
stessi quantitativi indicati principalmente dai report degli autotrasportatori,
essendo risultato che il fresato trasportato abusivamente era pari a ben 17.500
metri cubi.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità è orientata nel senso che l’ingente
quantitativo dei rifiuti, necessario a configurare il delitto di attività organizzata
per il traffico illecito di rifiuti deve riferirsi al quantitativo complessivo di rifiuti
trattati attraverso la pluralità delle operazioni svolte, anche quando queste
ultime, singolarmente considerate, possono essere qualificate di modesta entità
(Sez. 3, n. 46950 del 11/10/2016, Sepe, Rv. 268667; Sez. 3, n. 12433 del
15/11/2005, dep. 2006, Costa, Rv. 234009; Sez. 3, n. 40827 del 06/10/2005,
Carretta, Rv. 232348).
E’ stato poi ritenuto indiscutibile il carattere organizzato e sistematico di
tale traffico, trattandosi di trasporti strumentali all’esecuzione di uno specifico e
grosso appalto, che richiedeva la movimentazione seriale, coordinata e per un
tempo non breve di un gran numero di uomini e di mezzi oltre che di quantitativi
ingenti di materiali qualificabili come rifiuti.
La Corte del merito ha infine dato atto come l’elemento soggettivo del
delitto in contestazione non sia stato posto in discussione, almeno in termini
espressi, in alcuno dei due gravami e, quanto all’ingiusto, profitto, ha osservato
come l’effettuazione dei trasporti in forma abusiva sgravasse le società
appaltatrici dagli oneri, rilevanti sia sul piano finanziario che su quello
amministrativo e burocratico, connessi alla regolarizzazione della
movimentazione del fresato. Si trattò di un risparmio significativo anche in
ragione dell’esigenza di portare a termine con celerità lavori così importanti e
urgenti come quelli di riqualificazione dell’aeroporto internazionale di CagliariElmas (pag. 15 e 16 della sentenza impugnata).
21

conferimento del fresato all’impianto di Marzaloi nonché sulla base delle

Tale conclusione è perfettamente in linea con l’indirizzo espresso dalla
giurisprudenza di legittimità secondo il quale, per la configurabilità del reato di
traffico illecito di rifiuti, il profitto ingiusto non deve assumere necessariamente
carattere patrimoniale, potendo essere costituito anche da vantaggi di altra
natura (Sez. 3, n. 40828 del 06/10/2005, Fradella, Rv. 232351), potendo infatti
essere costituito anche da vantaggi non patrimoniali o comunque da un
complessivo risparmio dei costi aziendali (Sez. 4, n. 28158 del 02/07/2007,
Costa, Rv. 236907).

loro manifesta infondatezza, anche per la portata tipicamente fattuale, laddove il
ricorrente, nel censurare la congruità della motivazione, ha introdotto censure di
merito che non possono rientrare nell’orizzonte cognitivo del giudice di
legittimità, non potendosi devolvere alla Corte di cassazione doglianze con le
quali, deducendosi apparentemente una carenza logica od argonnentativa della
decisione impugnata, si pretende, invece, una rivisitazione del giudizio valutativo
sul materiale probatorio, operazione non consentita nel giudizio di cassazione
all’interno del quale non è possibile innestare censure che implicano la soluzione
di questioni fattuali, adeguatamente e logicamente risolte, come nel caso in
esame, dal giudice del merito.

7. Anche il quarto motivo del ricorso Melis è inammissibile perché, la
doglianza è nuova, al pari dell’ultima parte del terzo motivo relativamente
all’intervento dell’ENAC ed alle conclusioni alle quali tale ente sarebbe giunto in
ordine ai lavori eseguiti ed alla qualificazione come sottoprodotto dei materiali
risultati dalla scarificazione della vecchia pista.
Ne consegue che la questione – dalla quale il ricorrente trae argomento per
porre in discussione l’elemento soggettivo del reato, anche sotto il profilo di un
errore che sarebbe caduto sul fatto costituente il reato, quanto meno nel
periodo successivo alla perizia dell’Enac – non può essere sollevata per la prima
volta nel giudizio di legittimità, non essendo stata la censura sottoposta allo
scrutino del giudice di appello.

8. Sulla base delle considerazioni che seguono, la Corte ritiene che i ricorsi
debbano essere dichiarati inammissibili.
8.1. A tale proposito è il caso di precisare che manifestamente infondata, ai
sensi dell’articolo 606, comma 3, del codice di procedura penale, non è soltanto
la questione palesemente pretestuosa o artificiosa oppure quella apparente, tale
cioè da presentarsi ictu ocull come inconsistente e priva di ogni ragionevolezza, o
quella caratterizzata da evidenti errori di diritto nella interpretazione della norma
posta a sostegno del ricorso, il più delle volte contrastate da una giurisprudenza

22

Al cospetto di ciò, le obiezioni del ricorrente si connotano, oltre che per la

costante e senza addurre motivi nuovi o diversi per sostenere l’opposta tesi,
ovvero invocando una norma inesistente nell’ordinamento (da ultimo, ex multis,
Sez. U , n. 12602 del 17/12/2015, dep.2016, Ricci, in motiv.), situazioni
processuali che non esigono perciò un particolare sforzo motivazionale per
essere confutate.
Manifestamente infondata è, invece, anche la questione che – pur dando
luogo, sul piano logico, all’impostazione di un sillogismo – rende assolutamente
vana, sul piano giuridico, la prospettazione dell’ipotesi strutturata con il motivo

dall’interpretazione della norma o del principio giuridico invocati.
Ne consegue che, ai fini della valutazione del carattere manifesto, o meno,
dell’infondatezza, occorre delibare sulla solidità delle ragioni poste a fondamento
della doglianza, non potendo l’ampiezza della motivazione giudiziale o la
complessità e la diffusività delle argomentazioni spese dal ricorrente con il
motivo di impugnazione essere ritenute logicamente incompatibili con un
procedimento ermeneutico che sfoci in un’affermazione di manifesta
infondatezza del ricorso per cassazione. Infatti, proprio la carenza di fondamento
dell’ipotesi prospettata con il motivo di gravame può richiedere la produzione di
un particolare sforzo argomentativo per sostenerla, così da esigere
parallelamente un’articolata motivazione per confutarla.
8.2. Consegue pertanto la condanna dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 616 cod.
proc. pen., al pagamento delle spese processuali.
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13
giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi
siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità”, si dispone che i ricorrenti versino la somma, determinata in via
equitativa, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 2000 in favore della cassa delle
ammende.
Così deciso il 28/06/2017

di ricorso, per l’assoluta inconsistenza della premessa che muove

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