Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 53126 del 30/01/2017


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Penale Sent. Sez. 3 Num. 53126 Anno 2017
Presidente: CAVALLO ALDO
Relatore: GENTILI ANDREA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
SOBRINO Roberto, nato a Tivoli (Rm) il 9 aprile 1954;

avverso la sentenza n. 1051/15 del Tribunale di Roma del 26 gennaio 2015;

letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso introduttivo;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Andrea GENTILI;

sentito il PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Giuseppe
CORASANITI, il quale ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio della
sentenza impugnata per prescrizione;

sentito, altresì, per il ricorrente l’avv. Paolo MUNGO, del foro di Roma, che ha
insistito per l’accoglimento del ricorso.
1

Data Udienza: 30/01/2017

RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 26 gennaio 2015 il Tribunale di Roma ha dichiarato la
penale responsabilità, per quanto ora interessa, di Sobrino Roberto per avere,
in qualità di legale rappresentante della Stel Sri, mantenuto in esercizio,
attraverso l’adempimento delle obbligazioni scaturite dal contratto di
consulenza intercorrente fra la predetta società e lui stesso ed altri due
medici, un ambulatorio medico senza la prescritta speciale autorizzazione

regionale di cui all’art. 193 del regio decreto n. 1265 del 1934, e lo ha,
pertanto, condannato alla pena di euro 600,00 di ammenda.
Avverso detta sentenza ha interposto ricorso per cassazione il Sobrino,
articolando a tal fine 4 motivi di impugnazione.
Il primo riguarda la asserita violazione di legge compiuta dal Tribunale di
Roma nel ritenere che la struttura gestita dal Sobrino rientrasse fra quelle che
necessitavano della puntuale autorizzazione per lo svolgimento delle
prestazioni sanitarie ivi somministrate. In particolare il ricorrente ha censurato
la sentenza impugnata nella parte in cui in essa si è ritenuto che la struttura
gestita dalla Stel Srl, della quale il Sobrino era legale rappresentante, fosse
una di quelle per le quali era necessario il rilascio della autorizzazione ai sensi
dell’art. 193 del regio decreto n. 1265 del 1934, sebbene nella stessa non
fossero svolte attività mediche di una qualche complessità.
Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente si è doluto del fatto
che il Tribunale di Roma, con motivazione contraddittoria ed illogica, avrebbe
fatto discendere la necessarietà della predetta autorizzazione dalla asserita
qualificazione della struttura imprenditoriale gestita dal Sobrino come
ambulatorio medico, laddove invece in essa erano somministrati solo
trattamenti estetici.
Il terzo motivo di censura concerne la riferita illogicità della motivazione
della sentenza impugnata nella quale sarebbe stato più volte travisato il
contenuto delle dichiarazioni rese dai testi ascoltati in dibattimento.
Infine con il quarto motivi) di censura si è osservato che il termine
prescrizionale dei reati contestati al Sobrino sarebbe comunque decorso nel
periodo intercorso fra la lettura del dispositivo della sentenza ed il deposito
della relativa motivazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO

2

A-C

Il ricorso è inammissibile.
Con il primo motivo, in sostanza, il ricorrente deduce l’erronea
interpretazione normativa operata dal Tribunale di Roma, laddove ha ritenuto
che la autorizzazione prevista dall’art. 193 del regio decreto n. 1265 del 1934
fosse necessaria per la attivazione di qualsivoglia “ambulatorio medico”,
rimanendo estraneo al campo di operatività della disposizione dianzi citata
solamente l’esercizio della professione sanitaria nell’ambito di uno “studio

nel primo di una apprezzabile struttura aziendale, intesa quindi come
complesso di beni organizzati al fine di meglio realizzare l’esercizio della
attività diagnostica o terapeutica, laddove nel secondo non vi è una evidente e
preponderante prevalenza dell’aspetto professionale su quello organizzativo.
Infatti, secondo l’avviso del ricorrente, alla luce della normativa
regionale territorialmente pertinente vigente in materia, normativa che
sarebbe rilevante secondo la stessa giurisprudenza di questa Corte, non è
tanto questo il criterio che deve essere seguito ai fini della distinzione fra
struttura sanitaria il cui esercizio è subordinato al preventivo rilascio della
autorizzazione ai sensi dell’art. 193 del cosiddetto Tu delle leggi sanitarie,
quanto il criterio della attività svolta all’interno della struttura, dovendosi
ritenere soggette alla preventiva autorizzazione le sole strutture all’interno
delle quali siano somministrate prestazioni di chirurgia ambulatoriale ovvero
procedure diagnostiche e terapeutiche di particolare complessità o che
comportino un rischio per la sicurezza del paziente.
Ritiene il Collegio che la tesi del ricorrente sia destituita di ogni
fondamento.
Va precisato, infatti, che secondo la giurisprudenza di questa Corte,
formatasi in un’epoca ampiamente successiva alla riforma del Servizio
sanitario nazionale ed al decentramento in sede regionale della cura della
relativa materia, debbono intendersi per “istituzioni sanitarie private”
svolgenti attività ambulatoriale, soggette all’autorizzazione ex art. 193 Tu
delle leggi sanitarie, gli ambulatori dotati di propria individualità e autonomia
organizzativa o comunque aperti al pubblico, a eccezione degli studi privati
senza dipendenti e che non presentano targhe di pubblicità sanitaria (Corte di
cassazione, Sezione III penale, 9 maggio 2005, n. 17434; nell’occasione la
Corte ebbe a precisare che in pratica sono esclusi dal regime autorizzatorio
solamente quegli studi privati, sovente coincidenti con l’abitazione del
sanitario, dove questi, senza strutture di sorta, riceve i propri pazienti).
3

medico”, dovendo elevarsi a criterio distintivo fra tali due concetti la esistenza

Nello stesso senso sostanziale questa Corte ha ulteriormente
esemplificato, precisando che sono soggette alla autorizzazione di cui sopra
tutte le strutture in cui è possibile individuare una organizzazione di tipo
imprenditoriale, della cui presenza può essere indice ora la utilizzazione di
specifiche apparecchiature (Corte di cassazione, Sezione III penale, 5 giugno
2007, n. 21806), ora la adibizione alla attività diagnostica ed eventualmente
terapeutica di una pluralità di soggetti, pur singolarmente a ciò abilitati, di tal

professionale (Corte di cassazione, Sezione V penale, 22 dicembre 2011, n.
48077).
Nel caso in esame il Tribunale ha avuto cura di chiarire che presso la
struttura dell’imputato operavano, in regime di apparente indifferenziata
promiscuità, ben tre medici, il che porta ad escludere che la struttura stessa
fosse caratterizzata da quei livelli di elementarità organizzativa che avrebbero
potuto giustificare la sua operatività in assenza di apposita autorizzazione
rilasciata dagli organi competenti.
D’altra parte, rileva il Collegio, l’eventuale adesione alla tesi propugnata
dal ricorrente si presterebbe a conseguenze aberranti; dovrebbe essere,
infatti, esclusa la necessità della autorizzazione, ad esempio, per tutte le
strutture preposte alla medicina sportiva ovvero alla medicina legale,
quand’anche siano esse caratterizzate da una complessa organizzazione,
essendo gli atti medici che sono ivi svolti non aventi finalità terapeutiche e
comunque non comport»,di regola,rischi per la salute del soggetto che ad
esse si sottoponga, mentre sarebbe soggetta ad autorizzazione la struttura,
del tutto privata, del medico che, nella propria abitazione tenga un
elettrocardiografo, strumento diagnostico avente una certa complessità
ovvero, radicalizzando il concetto di procedura terapeutica che comporti un
rischio per la sicurezza del paziente, tenga l’ordinario corredo di farmaci
salvavita o antalgici, il cui uso, improprio, ben potrebbe determinare seri
rischi per la integrità fisica dell’individuo ove gli stessi fossero a lui
inadeguatamente somministrati.
Come, è, invece, evidente il riferimento alla necessaria autorizzazione
delle strutture sanitaria private laddove le stesse siano connotate da un profilo
di prevalenza dell’elemento impersonale rispetto a quello legato al rapporto
strettamente personale col soggetto che svolge la prestazione professionale,
sgombera il campo da tali possibili, sia pur diversamente orientati, eccessi.

4

che la prestazione da loro fornita perde il suo carattere di individualità

Riguardo al secondo motivo di impugnazione, rileva la Corte che non è
ravvisabile alcuna contraddizione nella motivazione della sentenza impugnata,
nella quale è, invece, chiaramente precisato, senza alcun contrasto logico con
altri punti della sentenza che, negli stessi locali ove erano ubicati taluni uffici
amministrativi del centro estetico del quale il Sobrino era di fatto ed in parte
anche di diritto il dominus (locali per i quali non vi era stata pacificamente
alcuna autorizzazione ex art. 193 Tu leggi sanitarie), vi erano dei piccoli

dei due sopralluoghi compiuti dal personale della Azienda sanitaria era stata
effettivamente appena fatta una visita medica – da parte dei tre medici il cui
compito era quello di verificare, attraverso attività di consulenza medica, la
propedeutica compatibilità delle condizioni fisiche degli utenti del centro con i
trattamenti eseguiti presso il centro stesso.
Trattandosi, all’evidenza, di atti medici in quanto destinati ad accertare
le condizioni fisiche dei futuri utenti del centro estetico, non vi è dubbio che il
loro svolgimento, stante la palese struttura imprenditoriale dell’ambulatorio
(resa manifesta dalla sua pertinenzialità accessoria e funzionale con il
ricordato centro estetico), necessitava della prescritta autorizzazione, ora
regionale, imposta dalla norma di cui al ricordato art. 193 del regio decreto n.
1265 del 1934.
Il terzo motivo di impugnazione è inammissibile, stante la sua chiara
natura fattuale, essendo esso indirizzato a porre nel dubbio il fatto che
all’interno dei locali privi della prescritta autorizzazione si svolgessero atti a
contenuto medico, circostanza questa invece acclarata in sede di merito sulla
base delle inequivoche risultanze probatorie emerse nel corso della istruttoria
dibattimentale e riferite alla presenza nei locali, nei quali doveva essere svolta
solamente un’attività di tipo amministrativo, sia dei tipici arredi propri di un
ambulatorio medico, sia di strumenti che, per quanto di uso comune come un
fonendoscopio od uno sfigmomanometro, hanno una chiara vocazione e
destinazione ambulatoriale; elementi questi tutti tali da fare legittimamente
inferire che ivi fosse svolta un’attività, quantomeno, diagnostica.
Illazione, peraltro, confermata dal fatto che in un successivo accesso ai
predetti locali, secondo quanto riportato in sentenza a comprova di quanto
accertato, erano state ivi rinvenute alcune persone in attesa di essere visitate
ed uno dei medici, puntualmente identificato, convenzionati con il centro
estetico ebbe, nell’occasione, a riferire di avere ancora indosso il consueto
camice bianco in quanto aveva appena concluso una visita.
5

ambienti ove era svolta attività di tipo diagnostico – tanto che nel corso di uno

Il quarto motivo è del tutto inammissibile, essendo irrilevante
l’eventuale maturazione del termine prescrizionale del reato contestato, ove
tale maturazione intervenga in un momento successivo alla pronunzia della
sentenza di merito e la impugnazione di questa sia stata dichiarata
inammissibile di fronte alla Corte di legittimità, né potendo ritenersi di per sé
ammissibile un’impugnazione di legittimità il cui precipuo scopo sia quello di
far dichiarare la prescrizione intervenuta in un momento successivo alla

penale 23 agosto 2016, n. 35278, in motivazione, ove è anche richiamata
Corte di cassazione, Sezioni unite penali, 21 dicembre 2000, n. 32, ove è
lapidariamente precisato che l’inammissibilità del ricorso per cassazione
dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un
valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare
e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen.,
fra le quali la prescrizione del reato se maturata successivamente alla
sentenza impugnata con il ricorso).
Alla inammissibilità della impugnazione del Sobrino, segue, secondo la
disciplina di cui all’at. 616 cod. proc. pen, la condanna del medesimo al
pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2000,00 in favore
della Cassa delle ammende.

PQM
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 2000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2017
Il Consigliere estensore

Il Presidente

pronunzia della sentenza impugnata (cfr. Corte di cassazione Sezione III

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA