Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 53106 del 27/10/2017


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 53106 Anno 2017
Presidente: CAVALLO ALDO
Relatore: MENGONI ENRICO

ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
LILLO MARIA CATERINA nato il 05/05/1939 a COPERTINO

avverso la sentenza del 14/11/2016 della CORTE APPELLO di LECCE
dato avviso alle parti;
sentita la relazione svolta dal Consigliere ENRICO MENGONI;

Data Udienza: 27/10/2017

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 14/11/2016, la Corte di appello di Lecce, in riforma
della pronuncia emessa il 28/10/2014 dal locale Tribunale, eliminava le
statuizioni civili disposte a carico di Maria Caterina Lillo, e confermava la
condanna della stessa alla pena di quattro mesi di arresto e 33.000,00 euro di
ammenda con riguardo alla violazione dell’art. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. 9
giugno 2001, n. 380.

pronuncia. La Corte di appello, al pari del primo Giudice, avrebbe dichiarato la
responsabilità della ricorrente anche con riguardo ad un’opera – una scala
esterna – estranea al capo di imputazione e mai inserita nella rubrica; opera,
dunque, sulla quale la Lillo non avrebbe svolto alcuna difesa, così patendo la
lesione evidente di diritti costituzionali e convenzionali, oltre che dell’art. 521,
comma 2, cod. proc. pen.. Con riferimento allo stesso intervento, inoltre, la
motivazione risulterebbe viziata, specie laddove richiama l’assenza di elementi
probatori di segno contrario; e fermo restando, da ultimo sul punto, che la scala
in oggetto risulterebbe comunque precedente alle altre opere. Il Collegio di
merito, inoltre, non avrebbe risposto all’eccezione di inutilizzabilità di una
relazione tecnica postuma, redatta dal teste De Benedittis ed inviata al Giudice di
primo grado sei mesi dopo la propria deposizione; relazione acquisita in difetto di
ogni contraddittorio sul punto, con grave lesione del diritto di difesa. Con
riguardo, ancora, all’epoca di realizzazione delle opere, la sentenza non avrebbe
preso in considerazione i testi a difesa, né avrebbe verificato che le ortofoto in
atti non avevano constatato la presenza dell’immobile ancora nel 2010.
Le stesse doglianze sono state poi confermate con successiva memoria.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso risulta manifestamente infondato.
Con riferimento, innanzitutto, all’oggetto della contestazione, rileva la Corte
che lo stesso concerne esclusivamente la realizzazione di “una sopraelevazione a
piano primo di una abitazione già oggetto di sanatoria”; rubrica mai modificata,
riportata in modo espresso nell’incipit della motivazione in esame e materia di
testimonianze ed acquisizioni probatorie nel corso del giudizio. Con la
conseguenza che il richiamo alla scala esterna del fabbricato, in effetti contenuto
nella sentenza d’appello (ma mai in quella di prime cure), deve ritenersi
tamquam non esset, atteso che l’intera istruttoria – al pari della declaratoria di
condanna – ha riguardato la sola sopraelevazione del fabbricato, unica condotta
materia di contestazione. Quel che, peraltro, ben emerge anche dai motivi di

2. Propone ricorso per cassazione la Lillo, chiedendo l’annullamento della

appello, con i quali – per la prima volta – viene citata questa scala, lamentando
che la disposta demolizione avrebbe dovuto coinvolgere solo la sopraelevazione
di cui alla rubrica (questione, peraltro, da devolvere alla sede esecutiva). Con
ogni conseguenza, quindi, anche sul secondo profilo della doglianza, attinente al
vizio di motivazione sul punto; nessuna censura, infatti, può esser rilevata al
riguardo, atteso che – si ribadisce – la scala non formava oggetto di alcuna
contestazione, così come di alcuna pronuncia di condanna.
4. Alle medesime conclusioni, poi, perviene la Corte anche quanto alla

redatta da teste De Benedittis ed acquisita agli atti. Rileva il Collegio, infatti, che
la doglianza medesima risulta formulata in termini generici, quindi inammissibili,
non specificando quale sarebbe l’oggetto di questo documento ed in quali termini
lo stesso avrebbe inciso sulla decisione assunta, orientando il Giudice per la
declaratoria di condanna. E con la precisazione che, quand’anche si intendesse
far riferimento alle ortofoto citate nel primo capoverso di pag. 3, sarebbe
agevole rilevare che le stesse sono state utilizzate dalla Corte soltanto

ad

abundantiam, risultando già agli atti – come da fotografie scattate al momento
del sequestro, richiamate in sentenza appena prima – l’epoca di realizzazione
dell’abuso in esame, non ancora ultimato alla data del 10/6/2011, come da
materiale edilizio rinvenuto (blocchetti di tufo incolonnati, sacchi di cemento,
scale, ponteggi), assenza di intonaci, impianti ed infissi.
5. Con riguardo, di seguito, alle deposizioni indicate nella terza doglianza,
occorre innanzitutto ribadire che il controllo del Giudice di legittimità sui vizi della
motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia
l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo, restando preclusa la
rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma
adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra
le varie, Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 3, n. 12110
del 19/3/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247).
In tal modo individuato il perimetro di giudizio proprio della Suprema Corte,
osserva allora il Collegio che le censure mosse dalla ricorrente al provvedimento
impugnato si evidenziano come inammissibili; ed invero, dietro la parvenza di
una violazione di legge o di un vizio motivazionale, la stessa di fatto tende ad
ottenere in questa sede una nuova ed alternativa lettura delle medesime
emergenze istruttorie già esaminate dai Giudici di merito, sollecitandone una
valutazione diversa e più favorevole.
Il che, come riportato, non è consentito.
6. La doglianza, inoltre, oblitera che la Corte di appello ha steso una
motivazione del tutto congrua, fondata su oggettive risultanze dibattimentali e

2

seconda censura, concernente la “relazione tecnica postuma” che si assume

non manifestamente illogica; come tale, quindi, non censurabile. In particolare,
ha sottolineato che 1) la sopraelevazione in esame era priva di permesso di
costruire e di autorizzazione paesaggistica; 2) la sua esecuzione doveva per
certo esser riferita alla ricorrente; 3) la stessa opera non risultava ancora
ultimata al giugno 2011. Ancora, e contrariamente all’assunto di cui al ricorso, la
sentenza ha preso in esame anche le testimonianze a difesa, evidenziando che le
stesse non avevano fornito alcuna indicazione in punto di epoca di realizzazione
dell’abuso, riferendo soltanto del periodo in cui la sopraelevazione era divenuta

medesimo motivo – non possono esser dunque soggette a nuovo esame in
questa sede, attesa la riferibilità di una tale operazione alla sola fase di merito.
7. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della
sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a
norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché
quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende,
equitativamente fissata in euro 2.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, il 27 ottobre 2017

igliere estensore

Il Presidente

visibile. Testimonianze che – al pari della documentazione richiamata nel

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