Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 53003 del 21/09/2017


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 53003 Anno 2017
Presidente: CONTI GIOVANNI
Relatore: VILLONI ORLANDO

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:

1) D’Alessandro Luigi, n. Roma 5.4.1956
2)

D’Alessandro Gaia, n. Roma 8.7.2005

3) Giuggiolini Fabrizio, n. Roma 2.10.1967
avverso il decreto n. 18/2017 della Corte d’Appello di Roma del 17/11/2016

esaminati gli atti e letti i ricorsi ed il provvedimento decisorio impugnato;
udita in camera di consiglio la relazione del consigliere, dott. O. Villoni;
letta la requisitoria scritta del pubblico ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale, dr. L. Birritteri, che ha concluso per l’annullamento con rinvio
del provvedimento impugnato

RITENUTO IN FATTO

Data Udienza: 21/09/2017

1. Con il decreto impugnato la Corte d’Appello di Roma ha in larga parte confermato quello emesso in data 11/05/2015 dal Tribunale di Roma, Sezione per
l’applicazione delle misure di prevenzione con cui è stata rigettata l’adozione,
richiesta dal PM, della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno nei confronti di Luigi D’Alessandro per assenza di attuale pericolosità sociale ma disposta a suo carico la
confisca di numerosi beni immobili nonché del capitale sociale di tre società, di
rapporti bancari e di utilità varie ritenute a lui riconducibili; diversamente da
quanto stabilito dal Tribunale, la Corte d’Appello ha, però, revocato la confisca

del bene immobile indicato al n. 6 del dispositivo del decreto impugnato, ordinandone la restituzione al legittimo proprietario.
Ricordata la necessità della sussistenza di entrambi i presupposti per l’applicazione della misura patrimoniale, ancorché disgiunta da quella personale – la
pericolosità sociale di cui al cbn. disp. degli artt. 16, 4 lett. c) e 1 d. Igs. n. 159
del 2011 e la sproporzione tra valore dei beni comunque riconducibili alla disponibilità del proposto al reddito dichiarato ai fini delle imposte sul reddito o alla
sua attività economica (art. 24 st. d. Igs.) – la Corte territoriale ha richiamato il
principio, notoriamente sancito da Sez U n. 33541/14, Repaci secondo cui al fine
di escludere la citata sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche
del soggetto, non possono essere valutati i proventi conseguiti in violazione degli
obblighi fiscali che di per sé non possono considerarsi leciti, derivando pur sempre da un’attività costituente reato e quindi confiscabili perché ‘frutto’ o ‘reimpiego’ del reato stesso.
Al tempo stesso la Corte d’Appello ha ricordato la piena legittimità, sancita già
da alcune pronunce di legittimità, dell’applicazione della disciplina della prevenzione ai soggetti che abbiano posto in essere, in maniera abituale e non meramente saltuaria, illeciti fiscali stante l’ampiezza di formulazione dell’art. 1 d. Igs.
n. 159 del 2011 ivi compresi quelli privi di rilevanza penale, purché posti in
essere in maniera non occasionale.
Quanto, infine, ai rapporti tra accertamento tributario e prevenzione e segnatamente con riferimento al tema della preclusione di provvedimenti preventivi
ablatori nei casi di intervenuto pagamento di sanzioni e tributi da parte del proposto in esito ad accertamenti fiscali, la Corte territoriale ha evidenziato i marcati profili di autonomia e specialità tra i due procedimenti (tributario e penale
preventivo) che pur potendo avere elementi di interrelazione (es. l’art. 79 d. Igs.
cit.), seguono regole e perseguono finalità profondamente diverse tra loro, talché l’avere il contribuente conciliato con il Fisco, in base a parametri concordati e
valutazioni proprie di ciascuna parte, non assume alcuna rilevanza nel procedimento di prevenzione né preclude la procedibilità ex art. 24 d. Igs. cit. ovvero

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01-

l’applicabilità di misure di prevenzione patrimoniali, tanto più ove si consideri che
il complessivo arricchimento determinato dalla condotta fiscalmente illecita del
proposto non coincide con quello, ben più limitato, oggetto del procedimento
fiscale e della conciliazione, che fa esclusivo riferimento all’imposta evasa.
All’esito di tale ricognizione di carattere normativo e giurisprudenziale, la Corte
territoriale ha ribadito la valutazione di pericolosità del proposto e la sussistenza
del presupposto della non legittima provenienza dei beni ricadenti nella sua
disponibilità ovvero del fatto che essi posseggono un valore sproporzionato al

costituiscono il reimpiego.
I passaggi argomentativi salienti del ragionamento seguito dalla Corte territoriale possono essere sintetizzati nei termini che seguono.
Pericolosità sociale del proposto.
La Corte romana ha ritenuto irrilevante la sua incensuratezza e il fatto che egli
non sia mai stato condannato in sede penale, attesa la differente natura e le
distinte finalità del procedimento di prevenzione.
Ha, invece, stabilito che in un arco temporale decorrente quanto meno
dall’anno 2005, essendosi la stessa manifestata con specifiche condotte, quali:
gli acquisti eseguiti negli anni 2005 e 2006 di beni immobili di valore assolutamente sproporzionato al reddito dichiarato ai fini delle imposte mediante l’utilizzo
di schermi societari (e in particolare della ST Corporate srl di cui D’Alessandro
era socio occulto) nell’ambito di una sistematica evasione fiscale di elevatissimo
ammontare; l’avere concluso con detta società negli anni 2010, 2011 e 2012
contratti di fornitura di servizi (consistenti nella messa a disposizione dello studio
notarile del proposto di personale di detta società in precedenza alle dirette
dipendenze del notaio) che gli avevano consentito elevati risparmi di imposta;
l’avere stipulato la ST Corporate con l’altra società Ottantotto srl, amministrata
da Fabrizio Giuggiolini, un contratto per la prestazione di servizi a favore dello
studio notarile in forza del quale detta ultima società emetteva fatture a favore
della ST Corporate, che a sua volta le imputava al D’Alessandro che le annotava,
infine, tra le voci di costo, abbattendo in maniera consistente il reddito imponibile, condotte tutte desumibili .
Sproporzione del reddito e/o legittima provenienza dei beni riferibili al proposto.

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reddito dichiarato o ancora che costituiscono frutto di attività illecite o di queste

Secondo la Corte d’Appello, non v’è alcun dubbio che gran parte dei beni immobili confiscati , sproporzione ben evidenziata in un prospetto redatto dalla
Guardia di Finanza il 01/10/2014 e allegato ad una coeva informativa di reato da
cui emerge una sperequazione tra il valore dei cespiti posseduti (pari ad C
8.958,013,00) e le sue fonti di reddito (C 3.849.354,00) pari ad C 5.108.659,00
riconducibile essenzialmente agli acquisiti di immobili effettuati negli anni 2005 –

dito (liquidità, polizze e varie utilità) di valore complessivo pari ad Euro
4.700.853,62 da ritenere anch’essi frutto di precedenti evasioni fiscali e/o reimpiego di proventi illeciti.

2. Hanno proposto distinti ricorsi avverso il decreto della Corte di Appello, Luigi
D’Alessandro nonché i terzi interessati, Gaia D’Alessandro (figlia minorenne del
proposto) e Fabrizio Giuggiolini, indicati nel decreto quali intestatari fittizi di beni
e valori la cui titolarità effettiva è, invece, riconducibile al proposto per la misura
di sicurezza patrimoniale.

2.1 Luigi D’Alessandro deduce le seguenti doglianze.
Carenza assoluta di motivazione.
La misura di prevenzione è stata applicata nei confronti di soggetto incensurato cui sono stati contestati, in sede di accertamento fiscale, reati tributari che
al vaglio del giudice di merito hanno subìto una netta censura, non solo perché è
cambiata medio tempore la normativa ma anche perché in una fase successiva lo
stesso agente accertatore ha riconosciuto il proprio errore, vicenda di cui non v’è
minima traccia nel provvedimento impugnato.
Al fine di motivare la pericolosità sociale del proposto, inoltre, la Corte territoriale ha fatto ricorso ai processi verbali di constatazione dell’Agenzia delle
Entrate, sostenendo che egli avrebbe nel corso di tutta la sua vita professionale
accumulato ricchezze attraverso l’utilizzo di fatture false, affermazione smentita
successivamente in fase di conciliazione in cui la stessa Agenzia delle Entrate
non ha più ritenuto false quelle stesse fatture, talché il GUP di Roma all’udienza
preliminare del 01/06/2016 ha prosciolto il ricorrente dalle imputazioni di carattere penale (art. 2 d. Igs. n. 74 del 2000, capi A e B), vicenda processuale
anch’essa nemmeno menzionata nel decreto della Corte d’appello.
Erronea applicazione dell’art. 24 d. Igs. n. 159 del 2011
Il presunto curriculum criminale del proposto annovera due procedimenti penali, uno relativo agli anni d’imposta 2008 e 2009 e il secondo agli anni d’impo-

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2012; senza, infine, considerare l’entità dei valori rinvenuti presso istituti di cre-

sta 2010, 2011 e 2012, in quest’ultima occasione il PM avendo riconosciuto la
liceità delle condotte relative ai successivi anni d’imposta 2013 e 2014; per il
primo procedimento, è intervenuta la citata sentenza di proscioglimento (allegata
al ricorso) per cui le relative condotte risultano, perciò, immuni da qualunque
presunzione di illegittimità.
Al fine di verificare la sproporzione tra patrimonio detenuto, direttamente o per
interposta persona, la Corte d’Appello avrebbe, dunque, potuto e dovuto in primo luogo considerare come redditi lecitamente prodotti quelli relativi alle pre-

nella dovuta considerazione le articolate osservazioni del consulente tecnico della
difesa, invece completamente ignorate.
Difetta, inoltre, una motivazione esaustiva e logica concernente le condotte
delittuose che il proposto avrebbe commesso negli anni precedenti al 2008: la
sola circostanza che nel passato egli abbia conferito denaro in alcune società
(Eleonora Boat, Roma srl, ST Servizi Roma srl) a lui stesso riferibili è stato ritenuto elemento di prova per stabilire che egli abbia all’uopo utilizzato fatture false
al fine di abbattere il proprio reddito imponibile.
Erronea applicazione della legge penale in ordine al reato di cui all’art. 2 d. Igs.
n. 74 del 2000.
L’intera vicenda ruota intorno al presupposto, erroneamente ritenuto dalla
Corte d’Appello, che tra il proposto e la società ST Corporate dall’anno 2007
all’anno 2012 siano state confezionate false fatture che egli ha poi utilizzato nelle
proprie dichiarazioni dei redditi nei corrispondenti anni d’imposta per abbassare il
reddito imponibile e pagare meno tasse.
L’assunto, nascente dall’impostazione iniziale del Nucleo Antifrode dell’Agenzia
delle Entrate e fatto proprio in sede penale cautelare, ha però subìto un drastico
arresto, dapprima in fase di conciliazione e poi dinanzi al giudice di merito, che
ha pronunciato sentenza di non luogo a procedere; ciò nonostante, il decreto impugnato si basa unicamente sui provvedimenti emessi in sede cautelare, non
tenendo conto né della novella normativa di cui al d. Igs. n. 128 del 2015 che ha
ridefinito il concetto di abuso del diritto in ambito fiscale né della ricordata decisione del giudice dell’udienza preliminare.
Erronea applicazione della legge penale in ordine al reato di cui all’art. 11 d.
Igs. n. 74 del 2000.
In sede cautelare penale, si era ritenuto ‘pericoloso’ l’atteggiamento del proposto che all’esito dell’accertamento fiscale nei propri confronti aveva trasferito le
proprietà immobiliari a lui riconducibili, ancorché formalmente intestate alle società ST Dream e ST Corporate, alle proprie figlie Eleonora e Gaia D’Alessandro e
alla sorella Maria Cristina D’Alessandro.

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dette annate d’imposta 2008, 2009, 2013 e 2014 e in secondo luogo, prendere

Ciò nonostante il proposto aveva conservato capienza economica tale per poter
soddisfare le pretese economiche erariali, cosa che ha, infatti, realizzato, conciliando e pagando personalmente quanto pattuito con il Fisco, circostanza del
tutto pretermessa nel decreto impugnato, modellato sulle statuizioni della decisione resa in sede di legittimità in ambito cautelare.
Con motivi nuovi formulati con l’atto depositato il 27 giugno 2017, il proposto
deduce, infine, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 d. Igs. n. 159 del 2011 in
applicazione dei principi sanciti dalla Corte EDU con la sentenza 23 febbraio

genericità delle condotte espressive della pericolosità sociale anche alle misure di
sicurezza patrimoniali.

2.2 Gaia D’Alessandro, terza interessata ai sensi degli artt. 10 e 27 d. Igs. n.
159 del 2011, deduce a sua volta le seguenti censure.
Erronea applicazione degli artt. 16, 4 e 1, comma 1 lett. a) e b) d. Igs. n. 159
del 2011 in relazione agli artt. 1, 2 e 11 del d. Igs. n. 74 del 2000.
La pericolosità sociale del proposto è stata affermata in base alla riferibilità al
medesimo di ‘traffici delittuosi’ integrati da fattispecie riconducibili alle figure di
reato di cui agli artt. 2 e 11 d. Igs. n. 159 del 2011, nel primo caso per indicazione nelle dichiarazioni dei redditi 2010, 2011 e 2012 di elementi passivi fittizi
mediate utilizzo di fatture emesse dalla ST Corporate srl e riguardanti operazioni
reputate inesistenti e nel secondo caso per trasferimento di una parte del suo
patrimonio a familiari secondo un deliberato programma finalizzato a sottrarsi al
pagamento delle imposte.
Tanto premesso, la ricorrente contesta che nelle fattispecie considerate ricorrano effettivamente le ipotesi di reato configurate, per le ragioni più dettagliatamente esposte alle pagine da 14 a 20 del ricorso.
Violazione degli artt. 24, 4 e 1, comma 1 lett. a) e b) d. Igs. n. 159 del 2011 in
relazione all’art. 606, comma 1 lett. b) cod. proc. pen.
Ammesso e non concesso che possano ritenersi integrati gli estremi del citato
art. 11 d. Igs. n. 74 del 2000, trattandosi di condotte riferibili agli anni d’imposta
2012 e 2013, la confisca, secondo il quadro normativo disegnato dall’art. 24 d.
Igs. n. 159 del 2011, avrebbe dovuto essere disposta limitatamente ai beni del
proposto e a quelli da quest’ultimo intestati alla ricorrente in quanto acquisiti in
dette due annualità, che segnano il perimetro temporale dell’attività delittuosa e
dunque, l’inizio e la fine della pericolosità generica richiesta dal Codice delle misure di prevenzione, laddove i beni confiscati risultano tutti acquisiti prima del
2012.

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2017, De Tommaso c. Italia, allegando la validità delle statuizioni inerenti la

Violazione dell’art. 125, comma 3 cod. proc. pen. (difetto assoluto di motivazione) in relazione all’art. 606, comma 1 lett. c) cod. proc. pen. con riferimento
sia all’attribuzione al proposto di fatti delittuosi, costituiti da ‘duplicazioni di
costi’, inquadrabili nel reato di dichiarazioni fraudolente mediante false fatture
sia all’estensione temporale della sua pericolosità generica ad anni d’imposta
anteriori al 2007.
Violazione degli artt. 24, 4 e 1, comma 1 lett. a) e b) d. Igs. n. 159 del 2011 in
relazione all’art. 606, comma 1 lett. b) cod. proc. pen. in relazione agli anni dal

La ricorrente deduce che difettano specifici elementi di fatto dimostrativi dei
traffici delittuosi o dell’attività delittuosa di cui il proposto si sarebbe reso responsabile riferiti all’intero periodo di pericolosità scrutinato dal giudice.
Con motivi nuovi, articolati con l’atto depositato il 27 giugno 2017, la ricorrente ribadisce, infine, gli argomenti esposti nel ricorso principale, ampliando in particolare quelli riferiti all’interpretazione che reputa corretta dell’art. 2 d. Igs. n.
159 del 2011.

2.3 L’altro terzo interessato Fabrizio Giuggiolini formula a sua volta le seguenti
censure.
Omessa motivazione in ordine alla rilevanza, ai fini del giudizio di pericolosità
sociale del proposto, della sentenza di non luogo a procedere emessa nel procedimento penale n. 2189/2014 RG NR avente ad oggetto i medesimi fatti di reato
posti a fondamento della presente procedura di prevenzione, benché afferenti a
due diverse annualità tributarie (2008-2009) e violazione di legge in relazione
agli artt. 2 e 8 d. Igs. n. 74 del 2000 poiché le specifiche condotte sussunte nelle
ipotesi di reato contestate appaiono più correttamente riferibili alla figura, penalmente irrilevante, dell’elusione fiscale di cui all’art.

10-bis I. n. 212 del 2000,

come del resto già sancito dal GUP del Tribunale di Roma nella sentenza di proscioglimento.
Inammissibilità in sede di prevenzione ai sensi dell’art. 79 d. Igs. n. 159 del
2011 dell’accertamento del provento dell’illecito tributario, costituendo non già
reddito tassabile ma al più profitto confiscabile al ricorrere delle condizioni di cui
al d. Igs. n. 74 del 2000 ed inapplicabilità della confisca di prevenzione dal
momento che il procedimento di accertamento di cui al citato art. 79 consente di
giungere all’eliminazione dell’illecito fiscale, elidendo in radice la necessità della
confisca stessa.
Violazione di legge in relazione all’art. 24 d. Igs. n. 159 del 2011.
L’applicazione della confisca dell’intero patrimonio del proposto contravviene ai
principi enucleati dalla giurisprudenza (Sez U n. 33541/14, Repaci) sul tema,

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2000 al 2006 incluso.

atteso che essa avrebbe dovuto essere esclusa quantomeno per quella quota parte del patrimonio, direttamente o indirettamente riconducibile al proposto, di
derivazione lecita, in alcun modo qualificabile quale frutto o reimpiego della ritenuta evasione fiscale.

2.4 Considerazioni svolte dal Procuratore Generale nella requisitoria scritta.
Meritano di essere, infine, riportate le considerazioni formulate dal P.G. nella
sua requisitoria scritta, contribuendo le stesse a delineare il complesso delle rile-

natura dei rapporti intercorrenti tra procedura di prevenzione e procedimento
penale tributario.
Il P.G. pone il tema preliminare, rilevante in termini di rispetto del principio di
legalità, se ed entro quali limiti una condotta, sia pure sistematica e reiterata di
evasione fiscale finalizzata ad occultare al fisco redditi lecitamente prodotti possa
porsi a fondamento della ritenuta pericolosità generica nei termini voluti dal d.
Igs. n. 159 del 2011, allorquando cioè non vengano evidenziati segni ulteriori di
pericolosità sociale, desunti aliunde, rispetto all’evasione tributaria pura e semplice.
Si domanda, inoltre, se sia possibile procedere all’ablazione di redditi e di beni
con essi acquistati nell’ipotesi di adesione da parte del contribuente (come nel
caso di specie, v. supra) a procedure conciliative con cui abbia definito la propria
posizione tributaria mediante assolvimento dell’imposta evasa con aggiunta di
sanzioni ed interessi.
Il P.G. pone, infine, i seguenti quesiti:
– se il reddito lecitamente prodotto ma sottratto sistematicamente al fisco possa essere ritenuto espressione di pericolosità sociale generica ai sensi del vigente
codice antimafia (il P.G. richiama anche il disposto dell’art. 79 d. Igs. n. 159 del
2011 da cui ricava il principio della non applicabilità tout court della procedura di
prevenzione alle ipotesi di evasione fiscale);
– se sia coerente con il principio di unicità e non contraddizione dell’ordinamento giuridico colpire con la confisca un reddito lecitamente prodotto e già purgato
dalla conciliazione fiscale che chiude la vertenza con l’amministrazione finanziaria;
– se possa un post factum quale è certamente l’evasione fiscale tramutare in
illecito un reddito frutto di lecita attività professionale;
– se sia consentito confondere il risultato (l’evasione fiscale) con la natura illecita dell’acquisizione di beni in assenza della dimostrazione della fonte illecita del
reddito in contestazione;

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vanti questioni che il caso presenta, in particolar modo per quel che riguarda la

- se tale conclusione possa considerarsi in linea con il principio di legalità (art.
1 cit.) e con un’interpretazione convenzionalmente orientata della legislazione vigente in materia di prevenzione, tenuto conto della sentenza della Corte EDU, De
Tommaso c. Italia del 23 febbraio 2017 e della recente questione di legittimità
costituzionale sollevata dalla Corte Appello di Napoli riguardo all’intero sistema
della prevenzione concernente la pericolosità non qualificata;
– se possa sostenersi che viva, anche parzialmente, ma abitualmente dei proventi derivanti da attività delittuose il soggetto imputato di mera evasione fiscale

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono fondati e meritano accoglimento.

2.1 II ricorrente principale Luigi D’Alessandro è un notaio, incensurato, nei cui
confronti il PM di Roma ha instaurato due procedimenti penali per violazione, il
primo degli artt. 2 e 8 d. Igs. n. 74 del 2000 (in concorso con il terzo interessato
ricorrente, Fabrizio Giuggiolini) ed il secondo degli artt. 2 e 11 stesso d. Igs.;
contemporaneamente, il PM ha chiesto al Tribunale l’applicazione a suo carico
della misura di prevenzione della confisca (art. 24 d. Igs. n. 159 del 2011), sul
presupposto della sua pericolosità sociale generica in quanto soggetto abitualmente dedito a traffici delittuosi (art. 1 lett. a) e che per condotta e tenore di
vita deve ritenersi, sulla base di elementi di fatto, vivere abitualmente anche in
parte con proventi di attività delittuose (art. 1 lett. b del d. Igs. 159 del 2011).
Deve subito premettersi che, quanto al primo dei procedimenti penali riferito
agli anni d’imposta 2008 e 2009, D’Alessandro è stato, unitamente al Giuggiolini,
prosciolto dal GUP di Roma con sentenza del 01/06/2016 (allegata al ricorso)
perché i fatti non più previsti dalla legge come reato ai sensi dell’art. 10-bis della
I. n. 212 del 2000 come modificato dalla I. n. 128 del 2015.
In sintesi, il GUP ha ritenuto che quelle ascritte agli imputati (l’avere emesso,
Giuggiolini e utilizzato, D’Alessandro, fatture per operazioni inesistenti onde consentire al secondo di corrispondere rilevanti somme a società riferibili di fatto a
sé medesimo a titolo di corresponsione degli stipendi e di pagamento dei servizi
di persone formalmente dipendenti di una di tale società, la ST Corporate srl, ma
in sostanza dello studio notarile) costituiscono condotte certamente elusive delle
imposte dovute, ma che non danno luogo a reato, avendo espressamente esclu-

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connessa a redditi lecitamente prodotti.

so il giudicante che le fatture emesse dalla citata società fossero oggettivamente false (le prestazioni erogate dal notaio alla società erano, cioè, effettive).
Il secondo procedimento, avviato con riferimento a reati in parte diversi (artt.
2 e 11 d. Igs. n. 74 del 2000) e per annualità temporalmente successive (anni
2010, 2011 e 2012) è, invece, ancora sub judice.
Va anche rilevato che per l’evasione contestatagli in relazione alle distinte annualità d’imposta, il ricorrente ha aderito a un concordato fiscale con l’Agenzia
delle Entrate.

poiché il Tribunale di Roma e poi la Corte di Appello ne hanno disposto la confisca di beni immobili e di quote societarie, in genere intestati alle figlie, avendolo
ritenuto soggetto socialmente pericoloso a partire dagli anni 2005 e 2006, epoca
di costituzione della ST Corporate srl, titolare il prestanome Giuggiolini, individuata quale schermo giuridico impiegato per attuare le condotte sopra indicate e
così procedere all’acquisto di beni immobili di ingente valore successivamente
caduti, a prescindere dalla nominale titolarità, nella diretta disponibilità del proposto, operazione secondo l’accusa comportante una sostanziosa sottrazione a
tassazione del reddito professionale prodotto.
L’impianto argomentativo della decisione della Corte d’Appello è il medesimo di
quello proposto dal PM e dall’Agenzia delle Entrate nell’ambito dei citati procedimenti penali secondo il quale, essendo stata acquisita prova delle condotte riferite agli anni d’imposta dal 2008 al 2012, sono tuttavia emersi elementi concreti
da cui desumere che lo stesso modus operandi è stato seguito dal D’Alessandro
fin dalla costituzione della ST Corporate srl e per ritenere che a partire da quegli
anni in avanti egli si è dedicato a condotte illecite di evasione fiscale, vivendone
dei relativi proventi pur disponendo di sostanze economiche sproporzionate alla
sua effettiva capacità di reddito.
Il ragionamento svolto dalla Corte di merito tradisce, tuttavia, un vizio di fondo che nessun ricorrente in maniera specifica e in parte il Procuratore Generale
hanno posto in evidenza e che integra, a parere del Collegio, una violazione di
legge derivante dalla non corretta interpretazione dell’art. 1 lett. a) e b) del d.
Igs. n. 159 del 2011 e che a sua volta comporta un’indebita dilatazione del concetto di pericolosità generica che il citato d. lgs. ha mutuato dalla previgente
disciplina di cui alla I. n. 1423 del 1956.
La distinzione fondamentale tra pericolosità generica e pericolosità qualificata
consiste, infatti, che ai fini di quest’ultima e dell’applicazione dei provvedimenti
previsti nel Capo II del Decreto stesso è sufficiente la qualità di essere indiziati
(anche in veste di istigatori, mandanti e finanziatori) di uno dei reati contemplati
alle lettere a), b), d), f), i) dell’art. 4 d. Igs. n. 159 del 2011; per i reati di cui

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La premessa relativa alle pendenze giudiziarie del D’Alessandro è d’obbligo

alle lettere e) e g), si richiede, invece, una pregressa condanna (per uno dei delitti in materia di armi) o quanto meno un positivo accertamento di avere fatto
parte di associazioni politiche disciolte dalla legge n. 645 del 1952 riferite al
deposto regime fascista.
Evidentemente diversa è, invece, la situazione riguardante i soggetti di cui alla
lett. c) dell’art. 4 che a sua volta rinvia alle ipotesi di cui all’art. 1 del decreto,
dove, tralasciando il caso specifico della lett. c) retaggio della precedente impostazione della normativa di prevenzione incentrata sui soggetti perturbatori dello

e b) postula di necessità pregresse occasioni di accertamento in sede penale
della ripetuta dedizione a determinate condotte (i traffici delittuosi di cui alla lett.
a) o della consumazione di condotte costituenti reato dai quali i soggetti traggano o abbiano tratto, anche in parte, i proventi del loro sostentamento.
Ma che tale accertamento non possa limitarsi alla mera constatazione della condizione di indiziati per uno dei vari delitti da cui i proventi possono derivare, da
un lato lo dimostra la differente struttura del sistema della pericolosità qualificata e dall’altro lo richiede la pressante esigenza di dare contenuto concreto alla
nozione di pericolosità generica, al fine di delimitarne i confini e sottrarla ai rilievi
critici di vaghezza e genericità, come tali suscettibili di attribuire margini di eccessiva discrezionalità ai giudici in violazione del principio di certezza del diritto,
provenienti non solo dalla giurisprudenza sovranazionale (sentenza Corte EDU
De Tommaso c. Italia del 23 febbraio 2017, ric. 43395/09) ma anche da quella
interna (ord. Corte di Appello di Napoli, VIII Sezione del 14 marzo 2017 che ha
posto in dubbio la legittimità costituzionale di tutte le misure di prevenzione, patrimoiniali e personali, fondate sulle fattispecie di pericolosità generica disciplinate dall’art. 1, lett. a) e b) del d. Igs. n. 159 del 2011).
Tutto ciò premesso, l’avere ritenuto sussistente la pericolosità generica del
proposto Luigi D’Alessandro sulla base delle mere risultanze delle indagini afferenti a due procedimenti penali, entrambi pendenti alla data di emissione del
decreto impositivo della misura di primo grado, costituisce applicazione distorta
e perciò erronea del concetto di pericolosità generica, non importa ancora, a
questo stadio del ragionamento, se riferita o meno ai reati di natura tributaria.
Le statuizioni del decreto impugnato comportano, infatti, due tipi di implicazioni
immediatamente rilevabili:
1) pur tenendo nominalmente conto della diversa natura del procedimento
penale tributario rispetto a quello di prevenzione, Tribunale e Corte di Appello
hanno condotto le rispettive valutazioni esclusivamente sulla base del materiale
indiziario proprio del procedimento penale, finendo nella sostanza per equiparare
i reati tributari in rilievo (artt. 2, 8, 11 d. Igs. n. 74 del 2000) a quelli che fun-

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ordine pubblico, il termine ‘abitualmente’ che ricorre nei casi di cui alle lettere a)

gono da presupposto per l’attivazione della procedura di prevenzione per pericolosità specifica;
2) poiché adottate sulla base del medesimo compendio probatorio di procedimenti in itinere, esse hanno di fatto integrato un’indebita attribuzione di funzioni spettanti al giudice penale.
Onde evitare tale ultima implicazione, la Corte d’appello avrebbe dovuto,
infatti, quanto meno considerare che per alcune annualità d’imposta (2008 e
2009) e per i delitti alle stesse riferiti, il proposto è stato prosciolto con sentenza

del tutto ignorata e che di per sé impone l’annullamento con rinvio del decreto
censurato per nuovo giudizio relativo alla sussistenza del presupposto della
pericolosità generica.
Risulta, infatti, non solo manifestamente contraddittorio ma inficiante la stessa
corretta interpretazione dell’art. 1 lett. b) d. Igs. n. 159 del 2011 aver ritenuto
che il proposto abbia vissuto abitualmente dei proventi di evasione fiscale a partire dal 2012 a ritroso fino al 2005, quando la citata pronuncia a lui favorevole ha
stabilito che le condotte riferibili agli anni 2008 e 2009 non costituiscono reato,
incrinando così la tenuta logica dell’argomento secondo cui la verifica, ancorché
non definitiva in sede penale tributaria, di determinate condotte, collegata alla
emergenza di indizi circa la sussistenza di analoghe riferite ad anni precedenti,
sia sufficiente a dimostrarne la pericolosità generica.
E’ evidente, infatti, che il citato proscioglimento avrebbe dovuto indurre la
Corte territoriale perlomeno ad una diversa delimitazione temporale del requisito
della pericolosità, a sua volta incidente sulla verifica del presupposto oggettivo
(epoca di acquisizione dei beni sequestrati a fini di confisca) per disporre la misura ablatoria.
Il concetto di abitualità rilevante ai fini della pericolosità generica non può,
pertanto, a parere di questo Collegio prescindere dal pregresso accertamento in
sede penale – ancorché non definito da una sentenza di condanna ma in ipotesi
mediante applicazione di amnistia, indulto, causa di non punibilità derivante da
collaborazione volontaria di cui all’art. 5-quater della I. n. 227 del 1990, prescrizione, etc. – dell’avvenuta commissione di fatti integranti delitti che danno luogo
a proventi illeciti o implicanti l’esercizio di traffici parimenti connotati da modalità
illecite, sulla scia del resto dei rilievi formulati della citata decisione Corte EDU
De Tommaso c. Italia del 23 febbraio 2017 che ha espressamente posto in risalto la necessità di o la messa in evidenza di delle sue tendenze criminali.

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emessa ai sensi dell’art. 425 cod. proc. pen. non impugnata, circostanza, invece,

Agli stessi fini ora indicati appare, inoltre, necessario riconsiderare l’interpretazione finora data in giurisprudenza della nozione di ‘traffici delittuosi’ di cui allo
art. 1 lett. a) d. Igs. n. 159 del 2011 da cui questo Collegio intende discostarsi.
Secondo il Tribunale e la Corte d’Appello di Roma, infatti, il proposto risulta,
sulla base di elementi di fatto (come già visto desunti unicamente dai procedimenti penali in corso a suo carico) abitualmente dedito a traffici delittuosi, non
fornendo, peraltro, il decreto impugnato alcuna spiegazione del motivo per cui,
pur dando per acclarata la responsabilità in ordine ai delitti tributari in addebito,

E’ vero, infatti, che secondo la non cospicua giurisprudenza di questa Corte di
Cassazione formatasi sull’argomento, il concetto di traffici delittuosi (Sez. 1, sent. n. 19995 del 30/01/2013,
Masotina, Rv. 256160 in fattispecie in cui si è ritenuto applicabile la misura di
prevenzione patrimoniale nei confronti di soggetto gravato da precedenti per
reati contro il patrimonio mediante violenza su cose e persone e per reati contro
la persona).
Ma è proprio per le più volte ricordate esigenza di tipicità e concretezza che
tale affermazione richiede un necessario affinamento concettuale, dovendosi
circoscrivere la nozione di ‘traffici delittuosi’ alle ipotesi di commercio illecito di
beni tanto materiali (in via meramente esemplificativa: di stupefacenti, di armi,
di materiale pedopornografico, di denaro contraffatto, di beni con marchi o segni
distintivi contraffatti, di documenti contraffatti impiegabili a fini fiscali, di proventi di delitti in tutte le ipotesi di riciclaggio) quanto immateriali (di influenze
illecite, di notizie riservate, di dati protetti dalla disciplina in tema di privacy,
etc.) o addirittura concernente esseri viventi (umani, con riferimento ai delitti di
cui al d. Igs. n. 286 del 1998 o di cui agli artt. 600 e segg. cod. pen. ed animali,
con riferimento alla normativa di tutela di particolari specie) nonché a condotte

latu sensu negoziali ed intrinsecamente illecite (usura, corruzione) ma comunque
evitando che essa si confonda con la mera nozione di delitto (anche se non di
contravvenzione, v. Sez. 2, sent. n. 16348 del 23/03/2012, P.G. in proc. Crea,
Rv. 252240) da cui sia derivato una qualche forma di provento.
Nel senso comune della lingua italiana, infatti, trafficare significa in primo luogo commerciare, poi anche ‘darsi da fare, affaccendarsi, occuparsi in una serie di
operazioni, di lavori, in modo affannoso, disordinato, talvolta inutile’ e infine, in
ambito marinaresco, maneggiare ma non può fondatamente estendersi al significato di delinquere con finalità di arricchimento.

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l’averli perpetrati implichi, altresì, la dedizione ai suddetti traffici.

2.2 Fatte tali considerazioni di carattere generale circa i presupposti oggettivi
della pericolosità generica, riguardante com’è noto ogni categoria di reato diversa da quelle suscettibili di fungere da presupposto di quella specifica, viene
ora in esame il tema peculiare della pericolosità (generica) dell’evasore fiscale.
A tale riguardo, va subito sgombrato il campo da possibili equivoci ed affermato a chiare lettere che è priva di fondamento la tesi, propugnata in alcuni ricorsi nonché dallo stesso P.G., secondo cui i delitti tributari non consentirebbero
di per sé l’applicazione delle misure di prevenzione di natura patrimoniale e

Non è dato, in realtà, ricavare l’esistenza di tale ipotetica preclusione in alcuno
degli articoli del Codice della prevenzione del 2011 e in particolare del suo art.
79, neppure se letto in connessione con l’art. 14, comma 4 della legge n. 537 del
1993 richiamato dal P.G.
La prima di dette previsioni si limita, infatti, a contemplare la possibilità di
esperire accertamenti di carattere fiscale, economico e patrimoniale a carico dei
soggetti nei cui confronti sia stata disposta, con provvedimento anche non
definitivo, una misura di prevenzione, nei casi in cui ciò si renda evidentemente
necessario e vale a dire quando la misura stessa (in ipotesi di natura ablatoría)
non abbia già comportato l’effettuazione di quelle stesse verifiche; la seconda
impone a sua volta di riconnprendere nel reddito imponibile i proventi ‘derivanti
da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo’,
facendo salvi quelli ‘già sottoposti a sequestro o confisca penale’ per la semplice
ragione che è illogico sottoporre a prelievo fiscale redditi già acquisiti al patrimonio dello Stato (confiscati) o anche solo gravati da vincolo d’indisponibilità in
vista di quella destinazione (sequestro).
E’ vero che il sistema originario della prevenzione da pericolosità generica,
inaugurato dalla legge n. 1423 del 1956, si fondava sull’assunto implicito che il
legislatore fosse sostanzialmente incapace di individuare i proventi dell’attività
delittuosa tant’è che lo stesso art. 240, comma 1 cod. pen., rimasto inalterato fin
dalla sua introduzione, ne stabilisce come facoltativa la confisca, né erano alla
epoca immaginabili sistemi di ablazione patrimoniale anticipata mediante sequestro preventivo anche per equivalente.
Ciò non significa, tuttavia, che le nuove possibilità di aggressione ai patrimoni
di origine illecita (i sequestri e le confische per equivalente, quelli per sproporzione ex art. 12-sexies I. n. 356 del 1992, l’art. 1, comma 143 della I. n. 244 del
2007 per la materia tributaria) abbiano necessariamente ristretto l’ambito di
applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali, come del resto lo stesso
art. 24 del d. Igs. n. 2011 sta a dimostrare, richiedendosi unicamente una più
attenta delimitazione delle rispettive aree di operatività delle diverse discipline.
14

segnatamente la confisca.

2.3 Tanto premesso è, invece, utile tentare di dare un significato più concreto
alla nozione di evasore fiscale seriale rilevante a fini di prevenzione, nozione
invero di per sé generica atteso che il fenomeno della sottrazione agli adempimenti tributari è indubbiamente illecito in tutte le sue forme ma dà luogo a risposte differenziate da parte dell’ordinamento, che affianca ipotesi di illecito di
carattere penale, in genere di natura delittuosa ancorché punite con la sola
multa (come ad es. in gran parte dei delitti di cui al d.P.R. n. 43 del 1973 T.U.

quanto d’interesse soddisfano evidentemente il requisito posto dall’art. 1 lett. a)
e b) del Codice del 2011 – ad altre di natura amministrativa (si pensi per rimanere al solo d. Igs. n. 74 del 2000 ai casi di mancato superamento delle soglie di
rilevanza quantitativa contemplati in pressoché tutte le ipotesi di reato, art. 4
comma 1, lett. a] e b] e comma 1-ter; art. 5, commi 1 e 1-bis; art. 10-bis; art.
10-ter; art. 10-quater; art. 11).
Inoltre, anche a voler considerare soltanto le ipotesi delittuose di cui al d. Igs
n. 74 del 2000, esse risultano di struttura molto variegata, costituendo espressioni di devianza penale sensibilmente diversi.
L’art. 2 contempla ad es. il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di
fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, mentre l’art. 3 quello di
dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici.
Le condotte fraudolente ivi previste possono in effetti costituire (e sovente lo
sono) la manifestazione di gravi perturbamenti e/o alterazioni del mercato dei
beni e dei servizi; è noto ad es. che con le truffe in materia di IVA che avvengono nel commercio intra comunitario (cd. frodi carosello), i soggetti coinvolti
locupletano non solo il mancato versamento dell’imposta ma anche maggiori
ricavi derivanti dalla possibilità di vendere i beni a prezzi più bassi dei concorrenti.
Ebbene, positivi accertamenti dell’avvenuta reiterazione di tali condotte possono in linea astratta e sempre in relazione alla specificità della fattispecie far
ritenere che il soggetto responsabile viva abitualmente dei relativi proventi, complessivamente considerati, determinandosi quella sorta di tendenziale confusione tra patrimonio di origine lecita e incrementi derivanti da condotte illecite di
evasione tributaria che sta alla base del principio affermato da Sez. U, sent. n.
33451 del 29/05/2014, Repaci e altri, Rv. 260244 nonché, per l’evasione contributiva, da Sez. 1 sent. n. 32032 del 10/06/2013, De Angelis, Rv. 256450.
Di diversa natura, sono, invece, i fenomeni che stanno alla base di altre figure
di reato.

15

leggi doganali o al d. Igs. n. 504 del 1995 in materia di accise) – e che per

L’art. 4 del d. Igs. n. 74 del 2000 contempla la dichiarazione infedele, ma non
fraudolenta, che vuol dire che il reddito prodotto dall’autore del reato è e rimane
di origine lecita, mentre è l’autoliquidazione delle imposte ad essere infedele;
tale figura di illecito penale pone, quindi, la necessità di focalizzare l’attenzione
su temi molto rilevanti quali i rapporti intercorrenti tra frazione lecita del patrimonio e importo dell’imposta evasa e l’incidenza dei meccanismi conciliativi con
l’amministrazione fiscale, evocati sia dal P.G. che in alcuni dei ricorsi proposti (v.
infra), che finiscono inevitabilmente per scalfire la solidità dell’argomento della

citate pronunce.
Trattasi di temi di riflessione che ricorrono, inoltre, anche con riferimento ad
altre figure di reato contemplate nel Decreto n. 74 del 2000 come quella di cui
all’art. 5 (omessa dichiarazione in misura superiore alla soglia di reddito ivi prevista), all’art. 10-bis (omesso versamento di ritenute dovute o certificate), allo
art. 10-ter (omesso versamento di IVA), all’art. 10-quater (indebita compensazione), all’art. 11 (sottrazione fraudolenta di beni al pagamento di imposte) in
cui la determinazione dell’imposta è già avvenuta e l’autore del reato attua le
condotte nell’imminenza o a procedura di riscossione coattiva in corso o durante
quella di transazione fiscale.
Discorso diverso vale, invece, per i cd. reati ostacolo rappresentati dall’art. 8
(emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) e dall’art. 10
(occultamento o distruzione di documenti contabili), che in quanto commessi
reiteratamente, professionalmente e comunque dietro remunerazione, possono
dar luogo, ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione da pericolosità generica, a considerazioni analoghe a quelle condotte per i delitti a struttura fraudolenta (artt. 2 e 4).
Gli esempi fatti servono per ribadire che i reati di natura tributaria possono
certamente fungere da presupposto di operatività della cd. pericolosità generica
a condizione, tuttavia, che vi sia consapevolezza dei problemi il relativo accertamento comporta.
Come sopra accennato, un elemento da considerare necessariamente al fine
di stabilire se l’evasore fiscale seriale, nei termini variegati in cui la nozione può
essere declinata, possa ritenersi vivere abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose è ad es. l’intervenuta o meno sua adesione nei periodi
di tempo considerati a meccanismi di conciliazione con l’amministrazione fiscale.
Si deve, infatti, tenere nel debito conto il fatto che l’eventuale recupero della
imposta evasa sottrae per definizione all’evasore la frazione illecita di redditi con
cui ha arricchito il suo patrimonio e salva la dimostrazione di un reinvestimento
della quota parte di imposta evasa comunque indebitamente trattenuta (ne parla

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confusione tra patrimonio lecito ed incrementi di origine illecita che ispira le

espressamente la citata n. 32032/13, De Angelis), diventa problematico sostenere che anche il residuo reddito, ove lecitamente prodotto, finisca per risultare
contaminato dalla condotta (certamente) illecita di sottrazione alla tassazione.
Il problema consiste, semmai, nel verificare se in occasione del procedimento
penale o a seguito della procedura conciliativa, l’imposta evasa o il suo importo
equivalente siano stati comunque (sequestro preventivo e confisca, versamento
volontario, etc.), effettivamente recuperati, in caso negativo non ricorrendo perciò tale ostacolo concettuale alla possibilità di ritenere l’evasore fiscale seriale

Conserva, dunque, validità la non cospicua giurisprudenza di questa Corte di
legittimità formatasi sul tema di cui è espressione Sez. 5, sent. n. 6067 del
06/12/2016, dep. 2017, Malara, Rv. 269026 (), pur dovendo essere necessariamente integrata con le precisazioni
sopra indicate.

3. Per il complesso delle argomentazioni svolte, il decreto impugnato deve
essere annullato con rinvio degli atti ad altra sezione della Corte d’Appello di
Roma per nuovo giudizio; risultano assorbite tutte le altre censure mosse al
provvedimento.
P. Q. M.

annulla il decreto impugnato e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della
Corte d’Appello di Roma.

Così deciso, 21/09/2017

socialmente pericoloso ai sensi dell’art. 1 lett. b) d. Igs. n. 159 del 2011.

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