Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 52982 del 16/03/2017


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 52982 Anno 2017
Presidente: BONITO FRANCESCO MARIA SILVIO
Relatore: SANDRINI ENRICO GIUSEPPE

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
DIPARTIMENTO DELL’AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA
DI MAMONE
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA
nei confronti di:
MANCA DAVIDE N. IL 12/02/1993
avverso l’ordinanza n. 1193/2015 TRIB. SORVEGLIANZA di
SASSARI, del 10/12/2015
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ENRICO GIUSEPPE
SANDRINI;
lette4
le conclusioni del PG Dott.
L to ft,0 pt p1/4$ 3
L,

Uditi difensor Avv.;

Data Udienza: 16/03/2017

RITENUTO IN FATTO
1. Con l’ordinanza indicata in rubrica il Tribunale di sorveglianza di Sassari ha
dichiarato inammissibile il reclamo, proposto dalla Direzione della casa
circondariale di Mamone, per conto del Ministero della Giustizia, nei confronti del
provvedimento con cui il magistrato di sorveglianza di Sassari aveva riconosciuto
a Manca Davide, su istanza-reclamo dello stesso ai sensi dell’art. 35-ter
ord.pen., il rimedio consistente nella riduzione nella misura di 5 giorni della pena
detentiva in esecuzione, a titolo compensativo della carcerazione sofferta in
condizioni costituenti violazione dell’art. 3 CEDU.

Il Tribunale di sorveglianza escludeva la legittimazione del reclamante a
impugnare il provvedimento del magistrato di sorveglianza, difettando della
qualità di parte processuale e non essendosi avvalso della rappresentanza
obbligatoria dell’Avvocatura dello Stato.
2. Avverso la suddetta ordinanza hanno proposto ricorso per cassazione la Casa
di reclusione di Mamone, in persona del direttore pro tempore, il Dipartimento
dell’amministrazione penitenziaria e il Ministero della Giustizia, rappresentati e
difesi ex lege dall’Avvocatura distrettuale dello Stato di Cagliari, deducendo:
carenza di motivazione del provvedimento impugnato in ordine all’esclusione
della qualità di parte processuale del reclamante; violazione dell’art. 1 R.D. n.
1611 del 1933 con riguardo al diniego di ius postulandi dell’amministrazione
pubblica, legittimata a difendersi personalmente in virtù del principio di parità
processuale con l’analoga facoltà di difesa personale riconosciuta alla parte
privata; violazione dell’art. 4 T.U. n. 165 del 2001, dell’art. 9 D.Lgs. n. 63 del
2006 e del D.M. 27 settembre 2007, in relazione alla legitimatio ad processum
che doveva riconoscersi alla stregua delle norme citate al direttore del carcere e
al dirigente amministrativo del DAP; violazione degli artt. 35-bis e 69 comma 6
ord.pen., in relazione alla mancata individuazione nell’istituto di detenzione, in
cui si trova il soggetto che agisce ex art. 35-ter ord.pen., dell’amministrazione
interessata a resistere alla relativa pretesa, a fronte della indicazione contenuta
nella legge di ordinamento penitenziario.
3. Il Procuratore Generale presso questa Corte ha rassegnato conclusioni scritte,
chiedendo l’annullamento con rinvio del provvedimento impugnato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Occorre anzitutto rilevare l’inammissibilità delle censure dedotte nel ricorso
nella parte in cui denunciano vizi di motivazione dell’ordinanza impugnata, in
quanto il provvedimento emesso dal Tribunale di sorveglianza in sede di reclamo
giurisdizionale ex art. 35-bis ord.pen. è ricorribile per cassazione solo per
violazione di legge, ai sensi del comma 4-bis della norma.
2. Nel resto, il ricorso è infondato per le ragioni che seguono.
1

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3. Questa Corte ha chiarito, con riguardo alla natura sostanziale della pretesa
fatta valere con lo strumento previsto e disciplinato dall’art. 35-ter ord.pen., che
la norma in oggetto ha introdotto nell’ordinamento un rimedio riparatorio di
natura atipica, avente carattere indennitario più che risarcitorio (Sez. 1 n. 9658
del 19/10/2016, Rv. 269308), funzionale ad apprestare una tutela compensativa
specifica a quella particolare tipologia di violazioni delle condizioni trattannentali
della persona soggetta a restrizione carceraria che sono riconducibili
all’inosservanza dell’art. 3 CEDU in materia di divieto di sottoposizione dei

l’accertamento dei relativi presupposti applicativi e per il riconoscimento delle
conseguenti tutele, da svolgersi nelle forme dell’art. 35-bis ord.pen., si
caratterizza per la celerità, la concentrazione e l’ufficiosità tipiche del
procedimento di sorveglianza (le cui forme sono espressamente richiamate dal
primo comma del citato art. 35-bis), volte ad assicurare col maggior grado di
effettività possibile le tutele (eventualmente) spettanti, che contemplano in via
prioritaria la riduzione della pena detentiva ancora da espiare nella misura
proporzionale stabilita dalla legge, e solo in via succedanea – nel caso di
insufficienza della durata della pena residua a soddisfare il ridetto rapporto
proporzionale – una monetizzazione economica del pregiudizio in termini
prefissati ex lege.
La pretesa sostanziale azionata e il correlato procedimento ex artt. 35-bis e 35ter ord.pen., che presuppongono l’attualità (non del pregiudizio ma) dello stato
di detenzione del soggetto agente, si connotano per la commistione dei profili
pubblicistici involgenti l’esecuzione della pena (e la corretta determinazione della
porzione ancora eseguibile) e dell’interesse di matrice privatistica della persona
detenuta a conseguire tempestivamente i rimedi spettanti, ciò che giustifica
l’attribuzione della competenza a provvedere alla magistratura di sorveglianza, in
coerenza al ruolo istituzionale di giurisdizione c.d. di prossimità naturalmente
preposta all’attuazione di una tutela destinata a incidere immediatamente, se
riconosciuta, sulla durata del rapporto esecutivo.
Ne consegue che, pur dovendo svolgersi il procedimento per l’accertamento della
fondatezza (o meno) della pretesa azionata dal detenuto nel contraddittorio
necessario con l’amministrazione pubblica preposta al trattamento penitenziario
(di cui si assume la violazione in termini riconducibili al mancato rispetto dei
diritti soggettivi trovanti fondamento nell’art. 3 CEDU), in quanto destinataria
diretta, tra l’altro, dell’eventuale pronuncia di condanna alla corresponsione delle
somme di denaro liquidate in via compensativa, il rimedio previsto dall’art. 35ter ord.pen. non appare riconducibile sul piano sistematico – al di là delle formule
letterali utilizzate nei commi 1 e 2 della norma – allo statuto tipico della

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detenuti a trattamenti inumani o degradanti; il procedimento previsto per

responsabilità risarcitoria da fatto illecito di matrice civilistica, così come già
affermato da questa Corte (vedi Sez. 1 n. 11244 del 17.11.2016, depositata il
9/03/2017, in motivazione) con orientamento che deve essere ribadito, sia per
l’evidenziata rilevanza pubblicistica dello strumento riparatorio (destinato a
incidere prioritariamente, e direttamente, sulla misura della pena e sulla durata
della sua esecuzione), sia per la natura indennitaria della somma liquidabile in
via subordinata a titolo di compensazione monetaria, in una misura fissa
predeterminata ex lege per tutte le situazioni che prescinde dall’accertamento

qualsiasi accertamento della natura colposa, o comunque soggettivamente
imputabile, della violazione come elemento fondante dell’effetto riparatorio.
Gli argomenti basati sulla natura di giudizio contenzioso a parti contrapposte poste su un piano di parità processuale e portatrici di interessi reciprocamente
confliggenti – del procedimento ex artt. 35-bis e 35-ter ord.pen., evocati a
sostegno della tesi della titolarità della legittimazione personale
dell’amministrazione penitenziaria a costituirsi e contraddire in giudizio, senza il
patrocinio necessario dell’Avvocatura dello Stato, in entrambe le fasi in cui si
articola il procedimento, inclusa quella di (eventuale) reclamo avverso il
provvedimento di accoglimento della domanda proposta dal detenuto, si rivelano
perciò, quando non infondati, comunque privi di rilevanza decisiva.
4. Questa Corte ha affermato altresì che il modello procedimentale rappresentato
dal reclamo giurisdizionale disciplinato dall’art. 35-bis ord.pen. è strutturato su
un doppio grado di giurisdizione di merito (Sez. 1 n. 34256 del 12/06/2015, Rv.
264237, e Sez. 1 n. 315 del 17/12/2014, depositata V8/01/2015, Rv. 261706,
che su tale presupposto hanno ritenuto applicabile il principio di conservazione
sancito dall’art. 568 comma 5 cod.proc.pen. nel caso di erroneità del mezzo di
impugnazione proposto): il reclamo al tribunale, che la parte soccombente nei
confronti del provvedimento emesso in prima istanza dal magistrato di
sorveglianza è legittimata a proporre ai sensi del comma 4 della norma,
configura, dunque,

un’impugnazione in senso proprio, soggetta alle norme

generali in materia.
La coerenza sistematica della

conclusione

raggiunta si appalesa,

in modo

particolare, proprio in riferimento al reclamo al Tribunale in materia di rimedio
compensativo ex art. 35-ter ord.pen., avente per oggetto non già un semplice
effetto esecutivo della condanna, ma l’autonomo accertamento della violazione di
una specifica posizione di diritto soggettivo della persona detenuta, che giustifica
la scelta legislativa di prevedere la rivalutazione giudiziale della prima decisione
ad iniziativa della parte soccombente (Sez. 1 n. 11244 del 2016, sopra citata).
5. L’art. 35-bis, comma 1, ord.pen. riconosce testualmente “all’amministrazione!

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delle concrete condizioni di detenzione del singolo soggetto, sia per l’assenza di

interessata”, vale a dire all’amministrazione penitenziaria, e dunque al Ministero
della Giustizia, il diritto di partecipare e contraddire direttamente in persona dei
propri funzionari, comparendo ovvero facendo pervenire osservazioni e richieste
in forma cartolare, all’udienza fissata dal magistrato di sorveglianza per la
trattazione del reclamo giurisdizionale proposto dalla persona detenuta che
lamenti, nei confronti dell’amministrazione stessa, la lesione di una posizione di
diritto soggettivo, anche riconducibile alla violazione dell’art. 3 CEDU: tale diritto
di difesa personale, che trova fondamento inequivoco nel dato testuale della

inderogabile applicazione le norme generali sulla rappresentanza e assistenza in
giudizio delle amministrazioni dello Stato nei successivi gradi di impugnazione, di
merito e di legittimità.
La ratio sottesa alla previsione di tale intervento personale nel procedimento di
primo grado (che peraltro non preclude la facoltà generale dell’amministrazione
di avvalersi ab initio della rappresentanza istituzionale dell’Avvocatura dello
Stato) è ragionevolmente individuabile nella evidenziata veste di contraddittore
prioritario e diretto della pretesa fatta valere dal soggetto al cui trattamento
l’amministrazione penitenziaria è preposta, in grado perciò non solo di fornire in
tempi celeri, e senza intermediazioni, al magistrato di sorveglianza informazioni
utili alla delibazione della domanda del detenuto, ma anche di intervenire
immediatamente e direttamente a far cessare o rimuovere il pregiudizio
lamentato, ove sussistente, nell’ambito di un procedimento scevro da particolari
formalità e connotato da obiettive finalità di urgenza, effettività e adeguatezza
della tutela che deve essere assicurata, in caso di accertata violazione dei diritti
della persona detenuta.
6. Proprio per tali motivi – oltre che in forza dei principi e delle norme che
disciplinano la titolarità del diritto di impugnazione, di cui subito si dirà – la ratio
suddetta non trova (più) ragion d’essere nel procedimento d’impugnazione
avverso il provvedimento che abbia accordato al detenuto la tutela richiesta, e
che deve seguire perciò le regole ordinarie per quanto riguarda l’osservanza del
modello legale di azione e rappresentanza in giudizio delle Amministrazioni dello
Stato, il quale prevede che le stesse, anche se organizzate ad ordinamento
autonomo, stanno in giudizio con la rappresentanza, il patrocinio e l’assistenza
dell’Avvocatura dello Stato (art. 1 Regio Decreto n. 1611 del 1933).
L’art. 100 cod.proc.pen. prevede, con norma di portata generale applicabile a
tutti i procedimenti disciplinati dal codice di rito penale, tra i quali deve
annoverarsi anche il procedimento di sorveglianza disciplinato dagli artt. 678 e
seguenti, che le parti lato sensu private – diverse dall’imputato, dal condannato e
dalla persona detenuta o internata – devono stare in giudizio, in via di principio,
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norma, è peraltro limitato al giudizio di prima istanza, dovendo trovare invece

col ministero di un difensore, munito di procura speciale.
Con specifico riguardo alla materia delle impugnazioni, l’art. 571 cod.proc.pen.
riconosce la legittimazione generale a proporle, personalmente o a mezzo di
procuratore speciale, all’imputato, mentre il difensore di quest’ultimo è titolare di
un’autonoma, e concorrente, legittimazione ad impugnare, allorchè si tratti del
difensore che assisteva l’imputato al momento del deposito del provvedimento
suscettibile di impugnazione o che sia stato nominato a tal fine, e sempre che
l’imputato non ritenga (insindacabilmente) di togliere efficacia all’impugnazione
proposta dal suo difensore.

Dal sistema è dunque ricavabile il principio per cui, con la sola eccezione
dell’imputato (oltre che, ovviamente, del pubblico ministero), le altre parti
interessate, coinvolte nel processo o nel procedimento, possono impugnare i
provvedimenti che le riguardano – nei limiti, naturalmente, in cui il diritto di
impugnazione sia loro riconosciuto dalla legge – soltanto col ministero della
difesa tecnica, essendo il difensore l’unico soggetto legittimato a esercitare lo ius
impugnandi per conto e nell’interesse della parte da lui rappresentata, rispetto
alla quale non è configurabile quello “sdoppiamento” di legittimazione che
l’ordinamento riconosce eccezionalmente solo all’imputato e al suo difensore.
Il diritto di impugnazione personale dell’imputato costituisce un’espressione della
componente di autodifesa riconosciuta alla persona accusata, nonché – in virtù
del rinvio generale alla disciplina delle impugnazioni operato dall’art. 666 comma
6 cod.proc.pen. con riferimento al procedimento di esecuzione, ulteriormente
esteso, in forza del rinvio per relationem contenuto nell’art. 678, al procedimento
di sorveglianza – alla persona condannata o in espiazione pena; si tratta di una
facoltà e di una legittimazione di natura eccezionale, che non può essere estesa,
salva l’esistenza di una norma speciale che espressamente lo preveda, alle altre
parti del processo (diverse dal pubblico ministero), nei confronti delle quali
l’esigenza di autodifesa dalla comminazione, dall’esecuzione o dall’espiazione di
una sanzione di natura penale neppure si pone.
Una norma analoga a quella dell’art. 571 cod.proc.pen., che attribuisca alle
Amministrazioni dello Stato un’autonoma facoltà di impugnare direttamente i
provvedimenti giudiziali, in particolare quelli emessi (come nella specie) in sede
di reclamo giurisdizionale ex art. 35-bis ord.pen., non è rinvenibile
nell’ordinamento, con la conseguenza che deve trovare inderogabile applicazione
nei loro confronti la norma generale dell’art. 1 Regio Decreto n. 1611 del 1933,
che stabilisce l’obbligo di avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato.
Un preciso dato testuale a supporto della conclusione così raggiunta è, del resto,
rinvenibile nel rinvio normativo operato dal comma 1 dell’art. 35-bis ord.pen.,
per tutto quanto in esso non diversamente disposto, alla disciplina generale degli
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(,

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artt. 666 e 678 cod.proc.pen., che include, dunque, anche il richiamo, contenuto
nel comma 6 dell’art. 666, delle “disposizioni sulle impugnazioni”, che non
prevedono alcuna deroga – per le parti del procedimento diverse dall’imputato e
dal condannato (e dal pubblico ministero) – all’obbligo di proporre impugnazione
col patrocinio di un difensore tecnico.
7. Il Ministero della Giustizia, e a maggior ragione il DAP e il direttore della casa
di reclusione di appartenenza del detenuto, non erano dunque legittimati a
impugnare autonomamente, senza il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, il

reclamo-istanza ex art. 35-ter ord.pen. del Manca, così che correttamente il
Tribunale di sorveglianza di Sassari ha dichiarato inammissibile – sotto tale
assorbente profilo – il reclamo-impugnazione proposto ex art. 35-bis comma 4
ord.pen., senza incorrere nelle violazioni di legge lamentate nel ricorso.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato, senza che a ciò consegua, tuttavia, la
condanna dell’amministrazione pubblica ricorrente al pagamento delle spese del
procedimento, non ricorrendo in capo alla stessa la qualità di “parte privata”
richiesta dall’art. 616 del codice di rito.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso il 16/03/2017

Il Consigliere estensore

Il Presidente

Enrico Giuseppe Sandrini

Francesco Maria Silvio Bonito

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provvedimento con cui il magistrato di sorveglianza di Sassari aveva accolto il

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