Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 52950 del 13/10/2017


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 52950 Anno 2017
Presidente: DIOTALLEVI GIOVANNI
Relatore: IASILLO ADRIANO

SENTENZA
Sul ricorso proposto da PALMIERI STEFANO (n. il 12/05/1958),
avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano, IV Sezione penale, in data
18/05/2016.
Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal Consigliere Adriano
Iasillo.
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, dottoressa Delia Cardia,
che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.

OSSERVA:

Con sentenza del 05/12/2014, il Tribunale di Busto Arsizio dichiarò
Palnnieri Stefano responsabile dei reati di introduzione nel territorio dello Stato
di prodotti con segni falsi e ricettazione e – ritenuta la continuazione e

Data Udienza: 13/10/2017

riconosciuta l’attenuante di cui all’art. 648, comma 2, del c.p. – lo condannò alla
pena di mesi 6 di reclusione ed Euro 400,00 di multa.
Avverso tale pronunzia l’imputato propose impugnazione, ma la Corte di
appello di Milano, con sentenza del 18/05/2016, confermò la sentenza di primo
grado.
Ricorre per cassazione l’imputato Palmieri Stefano, difeso dall’Avvocato
Alfonso Di Benedetto, che deduce: 1) vizi motivazionali in ordine alla ritenuta

motivazionali in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del
reato di cui all’art. 474 del c.p.; 3) vizi motivazionali in ordine alla ritenuta
sussistenza del reato di cui all’art. 648 del c.p.; 4) vizi motivazionali in ordine
alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 648 del
c.p.; 5) vizi motivazionali in ordine alla mancata applicazione dell’art. 712 del
c.p.; 6) vizi motivazionali in ordine alla mancata configurazione del tentativo di
ricettazione; 7) vizi motivazionali in ordine al diniego delle attenuanti generiche.
Il difensore dell’imputato conclude, pertanto, per l’annullamento
dell’impugnata sentenza.

motivi della decisione

1. Il ricorso è inammissibile. Invero, l’imputato reitera le stesse doglianze
correttamente affrontate e rigettate dai giudici di merito.
1,1. Infatti, è evidente che avendo il Palmieri acquistato per corrispondenza
all’estero i beni con marchio contraffatto e avendoli ricevuti, poi, nel territorio
dello Stato ha concorso inevitabilmente nella loro introduzione nello stesso
territorio; e quindi ha commesso il reato previsto dall’art. 474, comma 1, c.p. (si
veda sul punto quanto conformemente viene affermato nella motivazione della
sentenza Sez. 5, Sentenza n. 6354 del 09/02/2016 Ud. – dep. 16/02/2016 – Rv.
266010).
1,2. Il difensore dell’imputato si duole, poi, del fatto che il Palmieri sia
stato ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 474 del c.p. e non già
dell’illecito amministrativo di cui all’art. 1, comma 7, L. 80/2005; evoca a
sostegno della sua tesi la sentenza delle Sezioni Unite 22225/2012. Si deve a tal
proposito rilevare che il giudice di merito ha evidenziato – con motivazione
incensurabile in questa sede di legittimità – che l’imputato è titolare
dell’omonima ditta individuale avente ad oggetto

“attività al dettaglio di

commercio ambulante di tessuti ed articoli tessili”

(si veda pagina 3

dell’impugnata sentenza). Dunque, correttamente, è stato escluso che il Palmieri
fosse acquirente finale, essendo con evidenza acquirente professionale. Pertanto

sussistenza dell’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 474 del c.p.; 2) vizi

come ben evidenziato alla pagina 3 dell’impugnata sentenza nel caso di
acquirente professionale, non sarà mai applicabile l’illecito amministrativo che
prevede quale soggetto attivo solo l’acquirente finale. La sentenza delle S.U.
richiamata dal ricorrente si occupa, poi, di un caso in cui è stata contestata la
ricettazione e non il reato di cui all’art. 474 c.p., tanto è vero che a pagina 7
della predetta sentenza si evidenzia che “la questione di diritto per la quale il
ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite è la seguente: «Se possa configurarsi
una responsabilità a titolo di ricettazione per l’acquirente finale di un prodotto

con marchio contraffatto o comunque di origine e provenienza diversa da quella
indicata». Le S.U. del 2012 risolvono la predetta questione affermando che
l’acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di origine
e provenienza diversa da quella indicata risponde dell’illecito amministrativo
previsto dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in I. 14 maggio 2005, n. 80, nella
versione modificata dalla I. 23 luglio 2009, n. 99, e non di ricettazione (art. 648
cod. pen.) o di acquisto di cose di sospetta provenienza (art. 712 cod. pen.),
attesa la prevalenza del primo rispetto ai predetti reati alla luce del rapporto di
specialità desumibile, oltre che dall’avvenuta eliminazione della clausola di
riserva “salvo che il fatto non costituisca reato”, dalla precisa individuazione del
soggetto agente e dell’oggetto della condotta nonchè dalla rinuncia legislativa
alla formula “senza averne accertata la legittima provenienza”, il cui venir meno
consente di ammettere indifferentemente dolo o colpa (Sez. U, Sentenza n.
22225 del 19/01/2012 Ud. – dep. 08/06/2012 – Rv. 252453).
1,3. La stessa Corte di merito richiama, poi, correttamente la sentenza di
questa Corte n. 6354 del 2016 che esclude ogni rapporto di specialità tra il reato
di cui all’art. 474 del c.p. e l’illecito amministrativo di cui all’art. 1, comma 7,
della L. 80/2005. Dunque, anche qualora l’introduzione nello Stato avvenisse per
opera di un acquirente finale questi risponderebbe del reato di cui all’art. 474 e
non già dell’illecito amministrativo. Nella sentenza di cui sopra, questa Corte
conferma la giustezza della condanna di un acquirente finale per il reato di cui
all’art. 474 del c.p. proprio in base al principio di cui sopra. Poichè tale sentenza
conferma e specifica la decisione delle Sezioni Unite già richiamata si ritiene
opportuno riportarne la motivazione: “L’art. 1 comma 7 della I. n. 80/2005 (così
come modificato dalla I. n. 99/2009) punisce con la sanzione amministrativa
pecuniaria l’acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose che, per la loro
qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a
ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei
prodotti ed in materia di proprietà industriale. Come ricordato dal ricorrente, le
Sezioni Unite hanno stabilito come l’illecito amministrativo sopra menzionato si
ponga in rapporto di specialità rispetto ai reati di ricettazione (art. 648 c.p.) e di

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acquisto di cose di sospetta provenienza (art. 712 c.p.), precisando altresì come,
per acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto o comunque di
origine e provenienza diversa da quella indicata, debba intendersi colui che non
partecipa in alcun modo alla catena di produzione o di distribuzione e diffusione
dei prodotti contraffatti, ma si limita ad acquistarli per uso personale (Sez. Un.,
n. 22225 del 19 gennaio 2012, Micheli, Rv. 252453 – 252455). Il ricorrente
sostiene che gli illustrati principi debbano applicarsi anche alla fattispecie di cui
al primo comma dell’art. 474 c.p., rilevando la sostanziale omogeneità della

situazione in cui si viene a trovare colui che, avendo acquistato per
corrispondenza all’estero il bene con marchio contraffatto, lo riceva nel territorio
dello Stato concorrendo inevitabilmente nella sua introduzione nello stesso
territorio. Nessun dubbio sussisterebbe, infatti, in merito all’attribuibilità al
soggetto in questione della qualifica di “acquirente finale”, dovendosi per altro
verso considerare come le Sezioni Unite abbiano pronunziato i suddetti principi
proprio in relazione ad un caso di acquisto per corrispondenza all’estero di un
orologio e cioè esattamente la fattispecie concreta in contestazione nel presente
procedimento. Come accennato si tratta di tesi infondata in diritto. Innanzi tutto
è necessario precisare come nel caso deciso dalle Sezioni Unite Micheli era stato
contestato esclusivamente il reato di ricettazione, talchè dall’apparente
sovrapponibilità delle fattispecie non discende la pretesa specialità tra l’illecito
amministrativo e quello penale configurato dall’art. 474 c.p. Ed infatti il Supremo
Collegio, facendo applicazione dei consolidati criteri individuati a tal fine dalla
giurisprudenza di legittimità, ha affermato il principio ricordato in precedenza
all’esito del confronto strutturale tra le fattispecie astratte previste,
rispettivamente, dall’art. 1 comma 7 I. n. 80/2005 e dagli artt. 648 e 712 c.p.,
rinvenendo nella prima tutti gli elementi delle seconde con l’aggiunta di alcuni
elementi effettivamente specializzanti, tra i quali, per l’appunto, la specifica
qualifica dell’agente. In altri termini le Sezioni Unite non hanno inteso affermare
la specialità dell’illecito amministrativo rispetto a qualsiasi condotta penalmente
rilevante avente ad oggetto prodotti contraffatti qualora autore della medesima
sia l’acquirente finale dello stesso, bensì, più semplicemente, la specialità dello
stesso illecito rispetto alle due figure di reato espressamente menzionate, i cui
elementi costitutivi sono stati riscontrati nella fattispecie configurata dalla norma
ritenuta speciale. In definitiva, il principio applicato è quello per cui il
presupposto della convergenza di norme – necessario perché risulti applicabile la
regola sull’individuazione della disposizione prevalente posta dall’art. 9 I. n.
689/1981 – può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza
strutturale tra le stesse, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto
strutturale tra le fattispecie astratte rispettivamente configurate. In tal senso il

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fatto punito cui si riferisce la disposizione menzionata non è quello in concreto
realizzato dall’agente, bensì quello oggetto di incriminazione e pertanto per
accertare se norma penale e norma sanzionatoria amministrativa effettivamente
interferiscono deve esclusivamente effettuarsi la comparazione degli elementi
costitutivi che concorrono a definire le fattispecie tipiche dalle stesse configurate.
Ed allora, proprio facendo ricorso ai principi dispiegati dalle Sezioni Unite Micheli,
deve giungersi alla conclusione che il rapporto tra la fattispecie di introduzione
nel territorio dello Stato di prodotti con segni falsi e quella di ricettazione o

incauto acquisto da parte dell’acquirente finale dei medesimi prodotti (punita per
l’appunto con la sola sanzione amministrativa) sia di reciproca indifferenza.
Infatti la condotta tipizzata dal primo comma dell’art. 474 c.p. non presuppone
necessariamente l’acquisto del bene e non trova in ogni caso alcun riscontro
nella fattispecie configurata dalla norma incriminatrice amministrativa. Né per
acquistare un prodotto contraffatto è necessario introdurlo illecitamente nel
territorio dello Stato, condotta che conserva dunque la sua autonomia
strutturale, integrando un diverso illecito eventualmente strumentale alla
consumazione del primo, ma per l’appunto distinto ed autonomo. Non di meno la
circostanza che entrambe le fattispecie siano caratterizzate dal fine di profitto
(elemento implicito nell’illecito amministrativo ed invece espressamente previsto
per la sussistenza del reato di cui si tratta) non può ritenersi interferenza da sola
idonea ad evocare un rapporto di continenza strutturale tra le due norme
incriminatrici. Conclusioni queste che sono asseverate dal consolidato
insegnamento di questa Corte per cui il delitto di ricettazione e quelli previsti
dall’art. 474 c.p. possono concorrere, atteso che le fattispecie incriminatrici
descrivono condotte diverse sotto il profilo strutturale e cronologico, tra le quali
non può configurarsi un rapporto di specialità, e che non risulta dal sistema una
diversa volontà espressa o implicita del legislatore (ex multis Sez. Un., n. 23427
del 9 maggio 2001, P.M. in proc. Ndiaye, Rv. 218771). Principio che ovviamente
rimane inalterato laddove voglia sostituirsi al delitto di ricettazione l’illecito
amministrativo menzionato, che, come più volte ribadito, deve considerarsi
speciale rispetto alla menzionata fattispecie penale qualora commesso
dall’acquirente finale. E nello stesso senso non è ultroneo ricordare altresì come
il vigente testo dell’art. 1 comma 7 della I. n. 80/2005 sia stato introdotto dalla
L. n. 99/2009 e cioè il medesimo provvedimento legislativo che ha
contestualmente ricon figurato l’art. 474 c.p. – tra l’altro isolando rispetto a quella
di commercio e punendo più severamente proprio l’ipotesi di introduzione nel
territorio dello Stato di prodotti contraffatti – talchè appare quantomeno
inverosimile che la mancata riproduzione nella norma amministrativa di elementi

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idonei ad evocare in maniera esplicita la fattispecie penale di cui si tratta non sia
stata oggetto di una scelta consapevole e intenzionale da parte del legislatore”.
1,4. Per tutto quanto sopra esposto, è evidente la manifesta infondatezza
anche del motivo di ricorso n. 3 con il quale si contesta la ritenuta responsabilità
dell’imputato per il reato di ricettazione e non già dell’illecito amministrativo
sempre sulla base del principio di specialità riconosciuto nella sentenza delle S.U.
n. 22225 del 2012. Infatti, come si è già detto il ricorrente non è un acquirente
finale, ma un acquirente professionale e come tale non rientra nella previsione

2.

dell’illecito amministrativo di cui all’art. l, comma 7, L. 35/2005.
Entrambi i giudici di merito ben evidenziano perché ritengono

sussistenti gli elementi oggettivi e soggettivi dei reati e le ragioni per le quali il
ricorrente – acquirente professionale – fosse pienamente consapevole di aver
acquistato prodotti con marchio contraffatto e perché tali prodotti fossero
destinati alla vendita (si veda ad esempio pagina 4 dell’impugnata sentenza).
Data questa consapevolezza non ha ovviamente alcun rilievo che i prodotti
fossero stati bloccati alla dogana e non fossero stati visionati dal Palmieri che
sapeva perfettamente ciò che aveva acquistato. A tal proposito si deve ricordare
che questa Corte ha più volte affermato che integra gli estremi del reato di
ricettazione la ricezione o l’acquisto, al fine di trarne profitto, di un oggetto con il
marchio contraffatto da parte di chi abbia consapevolezza dell’apposizione su di
esso di un falso segno distintivo della sua provenienza (Sez. 7, Ordinanza n.
23818 del 10/01/2017 Cc. – dep. 15/05/2017 – Rv. 270456).
2,1. Dall’avvenuto acquisto da parte del Palmieri della merce, con marchio
contraffatto, bloccata in dogana e a lui indirizzata discende anche che il reato di
ricettazione sia consumato e non tentato. Invero a proposito di quanto sopra
questa Suprema Corte ha affermato che ai fini della consumazione del delitto di
ricettazione non è necessario che all’acquisto, perfezionatosi in virtù dell’accordo
intervenuto tra le parti, segua materialmente la consegna della “res”, poiché
l’art. 648 cod. pen. distingue l’ipotesi dell’acquisto da quella della ricezione
(Fattispecie in cui il fermo della merce di provenienza delittuosa presso la
Dogana, ne aveva impedito la ricezione da parte dell’imputato Sez. 2, Sentenza
n. 40382 del 12/06/2015 Ud. – dep. 08/10/2015 – Rv. 264559; conforme Sez. 2,
Sentenza n. 33957 del 14/06/2017 Cc. – dep. 12/07/2017 – Rv. 270734). Si
deve osservare che sul punto nel ricorso si richiama – a sostegno della tesi della
sussistenza del reato tentato – una decisione di questa Corte nella quale si
afferma che il delitto di ricettazione ha carattere istantaneo e si consuma nel
momento in cui l’agente ottiene il possesso della cosa, non rilevando, a tal fine, il
mero accordo tra le parti per la consegna della stessa (la Corte ha precisato che
in caso di accordo tra le parti, a cui non segua la “traditio” della “res”, l’agente

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risponde di tentativo di ricettazione; Sez. 2, Sentenza n. 19644 del 08/04/2008
Ud. – dep. 16/05/2008 – Rv. 240406). Orbene a prescindere dalla particolarità
del caso trattato nella sentenza di cui sopra, si deve rilevare che dopo la datata
decisione di cui sopra la costante e condivisa giurisprudenza di questa Corte ha
affermato il principio che ai fini della consumazione del delitto di ricettazione non
è necessario che all’acquisto, perfezionatosi in virtù dell’accordo intervenuto tra
le parti, segua materialmente la consegna della “res”, poiché l’art. 648 cod. pen.
distingue l’ipotesi dell’acquisto da quella della ricezione (Sez. 2, Sentenza n.

17821 del 15/04/2009 Ud. – dep. 27/04/2009 – Rv. 243954; Sez. 2, Sentenza n.
46899 del 07/12/2011 Ud. – dep. 20/12/2011 – Rv. 251454; Sez. 4, Sentenza
n. 14424 del 02/02/2012 Ud. – dep. 16/04/2012 – Rv. 253302; Sez. 2,
Sentenza n. 31023 del 25/06/2013 Ud. – dep. 19/07/2013 – Rv. 256843; Sez. 2,
Sentenza n. 40382 del 12/06/2015 Ud. – dep. 08/10/2015 – Rv. 264559; Sez. 2,
Sentenza n. 33957 del 14/06/2017 Cc. – dep. 12/07/2017 – Rv. 270734). Né
incide negativamente su quanto sopra la circostanza che nella sentenza delle
S.U. n. 22225 del 2012 il caso trattato – simile a quello di cui ci si occupa
nell’odierno processo – fosse stato qualificato come tentata ricettazione. Invero,
come si è già detto, le S.U. erano state chiamate a risolvere la questione se vi
fosse un rapporto di specialità tra l’illecito amministrativo di cui all’arti., comma
7, L. 35/2005 e il reato di ricettazione. Dunque avendo le Sezioni Unite
affermato che “non può configurarsi una responsabilità penale per l’acquirente
finale di cose in relazione alle quali siano state violate le norme in materia di
origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale” e
avendo, in applicazione di tale principio, annullata senza rinvio la sentenza
impugnata è chiaro che non era affatto necessario che le S.U. affrontassero la
questione dell’esatta qualificazione del fatto (reato contestato quale tentata
ricettazione anziché ricettazione consumata).
3.

A proposito della dissertazione del difensore del ricorrente sul dolo

eventuale si rammenta – in conformità a precedenti arresti di questa sezione che si configura il reato di ricettazione, sotto il profilo del dolo eventuale,
ogniqualvolta l’agente si è posto il quesito circa la legittima provenienza della
“res” risolvendolo nel senso dell’indifferenza della soluzione; si configura invece
l’ipotesi di cui all’art. 712 c.p. quando il soggetto ha agito con negligenza nel
senso che, pur sussistendo oggettivamente il dovere di sospettare circa l’illecita
provenienza dell’oggetto, egli non si è posto il problema ed ha, quindi,
colposamente realizzato la condotta vietata (Sez. 2, Sentenza n. 14170 del
15/01/2001 Ud. – dep. 06/04/2001 – Rv. 218494). In sostanza nel delitto di
ricettazione è ravvisabile il dolo eventuale quando la situazione fattuale – nella
valutazione operata dal giudice di merito in conformità alle regole della logica e

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dell’esperienza – sia tale da far ragionevolmente ritenere che non vi sia stata una
semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della “res”, ma una
consapevole accettazione del rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di
illecita provenienza (Sez. 2, Sentenza n. 45256 del 22/11/2007 Ud. – dep.
05/12/2007 – Rv. 238515; Sez. Un. Sentenza n. 12433 del 26/11/2009 Ud. dep. 30/03/2010 – Rv. 246324; si veda anche Sez. U, Sentenza n. 38343 del
24/04/2014 Ud. – dep. 18/09/2014 – Rv. 261104).
3,1. Ciò premesso, occorre osservare che la Corte di appello ha ravvisato il

dolo diretto tenendo conto proprio della “accertata consapevolezza dell’imputato
della contraffazione”. Si osserva, in proposito, che le valutazioni di merito sono
insindacabili nel giudizio di legittimità, quando il metodo di valutazione delle
prove sia conforme ai principi giurisprudenziali e l’argomentare scevro da vizi
logici, come nel caso di specie. (Sez. U, Sentenza n. 24 del 24/11/1999 Ud. dep. 16/12/1999 – Rv. 214794; si veda anche Sez. 1, Sentenza n. 41738 del
19/10/2011 Cc. – dep. 15/11/2011 – Rv. 251516).
3,2. Quanto sopra spiega, con evidenza, anche perché la Corte territoriale
non abbia ravvisato il reato di cui all’articolo 712 del c.p. e perché non vi sia la
necessità di ulteriore spiegazione sul punto, oltre a quella esaustiva fornita dal
Giudice di merito (si veda pagina 4 dell’impugnata sentenza). Infatti, tale
deduzione difensiva è logicamente incompatibile con la decisione adottata e
pertanto non era neppure necessario che fosse confutata esplicitamente (Sez. 4,
Sentenza n. 1149 del 24/10/2005 Ud. – dep. 13/01/2006 – Rv. 233187). A tal
proposito questa Suprema Corte ha, infatti, più volte, affermato il principio condiviso dal Collegio – che la regola della “concisa esposizione dei motivi di
fatto e di diritto su cui la decisione è fondata”, enunciata dall’art. 546, comma
primo, lettera e), cod. proc. pen., rende non configurabile il vizio di legittimità
allorquando nella motivazione il giudice abbia dato conto soltanto delle ragioni in
fatto e in diritto che sorreggono il suo convincimento, in quanto quelle contrarie
devono considerarsi implicitamente disattese perché del tutto incompatibili con la
ricostruzione del fatto recepita e con le valutazioni giuridiche sviluppate. (Sez. 4,
Sentenza n. 36757 del 04/06/2004 Ud. – dep. 17/09/2004 – Rv. 229688).
4. Infine, è incensurabile la motivazione con la quale la Corte di merito
alle pagine 4 e 5 dell’impugnata sentenza nega il riconoscimento delle attenuanti
generiche.
4,1. Invero, questa Corte di Cassazione ha stabilito il principio – condiviso
dal Collegio – che in tema di attenuanti generiche, posto che la ragion d’essere
della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un
adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla
legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto

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quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva che la
meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per
presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di
escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza.
Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se
ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo,
gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del

adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica
richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi
delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò
comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione
degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda (Sez. 1, Sentenza n. 11361
del 19/10/1992 Ud. – dep. 25/11/1992 – Rv. 192381; Sez. 2, Sentenza n. 2769
del 02/12/2008 Ud. – dep. 21/01/2009 – Rv. 242709; Sez. 5, Sentenza n. 7562
del 17/01/2013 Ud. – dep. 15/02/2013 – Rv. 254716). Per di più, l’obbligo di
motivazione in materia di circostanze attenuanti generiche qualifica la decisione
circa la sussistenza delle condizioni per concederle e non anche la decisione
opposta (Sez. 2, Sentenza n. 38383 del 10/07/2009 Ud. – dep. 01/10/2009 – Rv.
245241). Infine, le circostanze attenuanti generiche hanno lo scopo di estendere
le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole all’imputato in
considerazione di situazioni e circostanze che effettivamente incidano
sull’apprezzamento dell’entità del reato e della capacità a delinquere dello
stesso, sicché il riconoscimento di esse richiede la dimostrazione di elementi di
segno positivo (Sez. 3, Sentenza n. 19639 del 27/01/2012 Ud. – dep.
24/05/2012 – Rv. 252900; Sez. 2, Sentenza n. 30228 del 05/06/2014 Ud. – dep.
10/07/2014 – Rv. 260054). Nel caso di specie la Corte di appello dopo aver
evidenziato le ragioni per le quali esclude la sussistenza delle condizioni per
concedere le attenuanti generiche, non solo rileva la congruità della pena inflitta,
ma sottolinea, anche, come la stessa sia stata per errore irrogata in misura di
molto inferiore a quella che si sarebbe dovuta correttamente applicare. Infatti il
Tribunale ha ritenuto più grave il reato di ricettazione di cui al secondo comma
dell’art. 648 del c.p. ed ha individuato quale pena base quella di mesi 5 di
reclusione. Il giudice di primo grado non ha, però, tenuto conto che la pena
minima per il reato satellite di cui all’art. 474 del c.p. è pari ad anni 1 di
reclusione e che in tema di concorso di reati puniti con sanzioni omogenee sia
nel genere che nella specie per i quali sia riconosciuto il vincolo della
continuazione, l’individuazione del concreto trattamento sanzionatorio per il
reato ritenuto dal giudice più grave non può comportare l’irrogazione di una pena

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trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso,

inferiore nel minimo a quella prevista per uno dei reati satellite (Sez. U,
Sentenza n. 25939 del 28/02/2013 Cc. – dep. 13/06/2013 – Rv. 255348).
5.

In relazione a quanto sopra evidenziato questa Corte Suprema ha più

volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che sono inammissibili i motivi
di ricorso per Cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le
ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento
dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del
provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, ex

veda fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 – dep. 11.10.2004 – rv
230634; Sez. 4, Sentenza n. 18826 del 09/02/2012 Ud. – dep. 16/05/2012 Rv. 253849; Sez. 5, Sentenza n. 28011 del 15/02/2013 Ud. – dep. 26/06/2013 Rv. 255568; Sez. 2, Sentenza n. 11951 del 29/01/2014 Ud. – dep. 13/03/2014 Rv. 259425). Inoltre, in tema di giudizio di Cassazione, sono precluse al giudice
di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente
plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal
giudice del merito (Sez. 6, Sentenza n. 47204 del 07/10/2015 Ud. – dep.
27/11/2015 – Rv. 265482).
6.

Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che

dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere
condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi
profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al
pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di 1.500,00 euro,
così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 a favore della Cassa delle
ammende.

Così deciso in Roma, il 13/10/2017.

art. 591, comma primo, lett. c), cod. proc. pen. all’inammissibilità del ricorso (Si

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