Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 52806 del 10/11/2017


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Penale Sent. Sez. 1 Num. 52806 Anno 2017
Presidente: DI TOMASSI MARIASTEFANIA
Relatore: NOVIK ADET TONI

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
VENOSA ANTONIO nato il 07/11/1973 a NAPOLI

avverso l’ordinanza del 15/12/2016 della CORTE ASSISE APPELLO di NAPOLI
sentita la relazione svolta dal Consigliere ApET TONI NOVIK;
lette/se le conclusioni del PG
Sút„,„t-t.,
atm7,-C1′

d

p.,*)

(14

2JU

O

Ok 14(i2Gtxf.
H,LvdiL

C

132i
) e

Data Udienza: 10/11/2017

RILEVATO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La Corte di assise di Appello di Napoli, con la ordinanza impugnata
emessa il 15 dicembre 2016, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha rigettato
l’istanza presentata da Venosa Antonio volta ad ottenere la sostituzione della
pena dell’ergastolo a lui inflitta con quella di anni 30 di reclusione. Rilevava che:
– Venosa era stato condannato alla pena dell’ergastolo in conseguenza della
scelta di essere giudicato con il giudizio abbreviato;
il giudice di merito aveva applicato detta pena in luogo di quella

dell’ergastolo con isolamento diurno richiamando la giurisprudenza di legittimità
per la quale l’inasprimento dell’isolamento diurno andava disposto quando
l’imputato era condannato per i reati in continuazione ad una pena detentiva
temporanea per un tempo superiore ad anni cinque, da intendere con riferimento
alla pena edittale prevista per i reati;

successivamente nella giurisprudenza di legittimità era prevalso

l’orientamento opposto, per il quale l’inasprimento dell’isolamento diurno
presupponeva per il delitto concorrente l’inflizione in concreto di una pena
superiore a cinque anni di reclusione;
– tuttavia, il mutamento di giurisprudenza non era conseguente ad una
decisione delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, risolutrice del contrasto
ancora attuale, sicché allo stato l’istanza non poteva essere accolta;
– non vi era profilo di illegittimità costituzionale o di contrasto con normativa
europea, perché i diversi indirizzi erano entrambi fondati sull’interpretazione
della normativa nazionale.

2. Avverso la suddetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione, tramite
il difensore di fiducia, Venosa Antonio, il quale formula la censura di violazione
degli artt. 132 cod. pen. e 666 cod. proc. pen.; mancanza e contraddittorietà
della motivazione. Previo richiamo agli atti di parte già depositati, il ricorrente
rileva che la più recente giurisprudenza di legittimità, superando il pregresso
orientamento, interpreta l’art. 72 cod. pen. nel senso che, al fine della
determinazione della pena, occorra fare riferimento a quella da infliggere in
concreto per i reati unificati in continuazione. La stessa corte territoriale, in
casi analoghi a quello di Venosa, aveva applicato la pena di 30 anni di
reclusione. Il ricorrente ritiene quindi, richiamando le sentenze della Corte di
cassazione n. 12.955/2016 e quella della Corte costituzionale n. 210/13, la
necessità di rideterminare la pena inflitta applicando il più favorevole indirizzo
giurisprudenziale. Osserva che il giudice dell’esecuzione,
contraddittoriamente, aveva per implicito affermato l’illegittimità della pena,

2

omettendo di rideterminarla ed invocando l’intervento delle Sezioni Unite.
Conclude, la difesa, chiedendo la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite e,
richiamando i precedenti atti, ripropone l’eccezione di illegittimità
costituzionale degli artt. 630 e/o 673 cod. proc. pen. “nella parte in cui
appunto non è prevista la facoltà per il condannato ad una pena illegittima di
poter chiedere la revisione della pena inflittagli illegittimamente”.
3. Il Procuratore Generale presso questa Corte nella sua requisitoria scritta

memoria difensiva ribadendo gli assunti esposti nel ricorso.

4.

L’impugnazione è basata su motivi manifestamente infondati e va

dichiarata inammissibile, avendo l’ordinanza impugnata correttamente
interpretato e applicato le norme di legge.

5.

Preliminarmente si rileva che nella giurisprudenza di questa Corte

effettivamente si è registrato un contrasto interpretativo in ordine alla
interpretazione di cui all’art. 72, comma secondo, cod. pen. nei termini
riportati nell’ordinanza impugnata. Tuttavia, questo tema non rileva ai fini
voluti dal difensore dovendo, comunque, escludersi che, in sede esecutiva, si
possa rimediare ad eventuali errori di diritto in cui sia incorso il giudice della
cognizione, trattandosi di questioni coperte dal giudicato. Un principio questo
ribadito di recente anche da pronunce delle Sezioni Unite rese anche in
relazione a problematiche esecutive diverse da quelle riguardanti l’art. 673
del codice di rito, essendosi escluso che il giudice dell’esecuzione possa
sostituire -ostandovi l’intangibilità del giudicato- le proprie valutazioni a
quelle espresse in sede di cognizione, e quindi rimediare ad errori di diritto
non eliminati attraverso i mezzi di impugnazione (S.U. n. 6240/14;
37345/15); sia in relazione all’art. 673.
Muovendosi nel solco di quanto affermato dalla Corte costituzionale nella
sentenza 210/2012, secondo cui «Non è fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 673 c.p.p. censurato nella parte in cui non include tra le
ipotesi di revoca della sentenza di condanna anche il mutamento
giurisprudenziale determinato da una decisione delle sezioni unite della Corte di
cassazione in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla
legge come reato, non sussistendo la violazione dell’art. 117, primo
comma Cost. per contrasto con l’art. 7 CEDU, come interpretato dalla
Corte di Strasburgo atteso che questa, pur affermando che la norma
convenzionale sancisce implicitamente il principio di retroattività

3

ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile. Il ricorrente ha depositato

della

lex mitior,

non ha mai riferito tale principio ai mutamenti di

giurisprudenza ed ha escluso che esso possa operare oltre il limite
del giudicato», le Sezioni Unite n. 26259/16, Mraidi, hanno condiviso e fatto
proprio «l’esclusione che l’abrogazione di una legge possa essere determinata da
un mutamento giurisprudenziale, anche se consacrato da una pronuncia delle
Sezioni Unite, non potendosi a tale mutamento conferirsi autonomo rilievo ai fini
della revoca di una sentenza di condanna». Si è osservato che le decisioni del
massimo consesso della cassazione sono suscettibili di essere disattese da

qualunque giudice della Repubblica, sia pure con onere di adeguata motivazione
e le stesse Sezioni Unite possono rivedere le proprie posizioni, su impulso delle
Sezioni semplici. Il mutamento giurisprudenziale favorevole «non può travolgere
il principio di intangibilità della res iudicata, espressivo dell’esigenza di certezza
dei rapporti giuridici esauriti; anche in presenza di un orientamento
giurisprudenziale che abbia acquisito i caratteri del “diritto vivente”, come già
affermato nella sentenza n. 91 del 2004, il giudice rimettente ha soltanto la
facoltà, e non già l’obbligo, di uniformarsi ad esso; la richiesta pronuncia additiva
comporterebbe una vera e propria sovversione “di sistema”»; le Sezioni Unite
hanno quindi chiarito la portata dell’art. 673 cod. proc. pen. e, richiamando i
precedenti delle Sezioni Unite Ercolano e Gatto, hanno affermato che
«quest’ultima disposizione completa la disciplina generale sostanziale in tema di
successione della legge penale nel tempo […] prende chiaramente in
considerazione i fenomeni della depenalizzazione e della incostituzionalità di una
determinata fattispecie penale, oggetto della pronuncia irrevocabile, e incide
direttamente su questa, cancellandola radicalmente o limitatamente alla parte
corrispondente». Osserva la sentenza Mraidi che «In un sistema nel quale il
precedente non ha carattere vincolante il mancato adeguamento ai principi di
diritto enunciati dalla Corte di cassazione, anche se espressi nelle sentenze delle
Sezioni Unite, non costituisce quindi di per sé un errore di diritto, essendo
consentito al giudice che non ritiene di conformarsi a detti principi di deliberare
autonomamente, motivando tuttavia le ragioni del suo diverso convincimento».

7. Alla luce di questi indiscussi principi deve quindi escludersi che sia
possibile nella sede esecutiva procedere a modificare quanto statuito nella fase
di cognizione. Frutto di equivoco, che va qui corretto, è l’interpretazione che
nell’ordinanza impugnata si è fatta della sentenza di questa Corte Sez. 1, n.
12955 del 12/02/2016, Buscaglia, Rv. 267287. In tale decisione non si è affatto
affermato che la pronuncia delle Sezioni Unite è idonea a incidere sul giudicato,
bensì che essa è un elemento idoneo a superare la preclusione posta dall’art.
666, secondo comma, cod. proc. pen. alla presentazione in sede esecutiva di
4

f

un’istanza in precedenza rigettata, fermo restando che, nel caso preso in
considerazione in quell’arresto, l’effetto demolitorio del giudicato andava
riconosciuto alla sentenza della Corte costituzionale n. 32/2014.
Va da sé l’impossibilità di considerare come pena illegale quella irrogata in
base ad un indirizzo giurisprudenziale minoritario: le Sezioni Unite di questa
Corte hanno precisato che l’ambito dell’illegalità della pena si riferisce ai «classici
casi di illegalità

ab origine,

costituiti, ad esempio, dalla determinazione in

concreto di una pena diversa, per specie, da quella che la legge stabilisce per

edittali» (Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015 – dep. 28/07/2015, 3azouli). Nella
medesima prospettiva, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che è
rilevabile di ufficio dalla Corte di Cassazione l’illegalità della pena solo quando la
stessa, così come indicata nel dispositivo, non sia per legge irrogabile, ma non
anche quando il trattamento sanzionatorio sia di per sé complessivamente
legittimo ed il vizio attenga al percorso argomentativo attraverso il quale il
giudice è giunto alla conclusiva determinazione dell’entità della condanna (Sez.
2, n. 22136 del 19/02/2013 – dep. 23/05/2013, Nisi e altro, Rv. 255729), o sia
frutto di errori macroscopici.

8. All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese del procedimento nonché al versamento in favore
della Cassa delle Ammende, di una somma determinata, equamente, in Euro
2000,00, tenuto conto del fatto che non sussistono elementi per ritenere che
“la parte abbia proposto ricorso senza versare in colpa nella determinazione
della causa di inammissibilità”. (Corte Cost. 186/2000).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese del procedimento e di Euro 2000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma il 10 novembre 2017

/,

Il Consigliere estensore
ie Tonii
N i

Il Presidente
Mariastefani

Tomassi

quel certo reato, ovvero inferiore o superiore, per quantità, ai relativi limiti

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA