Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 52765 del 26/05/2017


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 52765 Anno 2017
Presidente: DI TOMASSI MARIASTEFANIA
Relatore: SIANI VINCENZO

SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
MURINA CARMELO CONSOLATO nato il 23/05/1964 a REGGIO CALABRIA
MORABITO GIUSEPPE nato il 11/08/1963 a REGGIO CALABRIA

avverso la sentenza del 04/02/2015 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere VINCENZO STANI
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FRANCA ZACCO
che ha concluso

rbA.

rc,

Il P.G. conclude chiedendo il rigetto del ricorso di MURINA e dichiararsi
inammissibile il ricorso di MORABITO.
Uditici,

4 difensore( •

L’avv. AVERSANO ETTORE conclude chiedendo l’accoglimento del ricorso.
L’avv. POGGIO BRUNO conclude chiedendo l’accoglimento del ricorso.

Data Udienza: 26/05/2017

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza resa il 20 febbraio – 20 maggio 2013 il Tribunale di Reggio
Calabria, aveva giudicato, oltre a Francesco Santo Trimboli (imputato del delitto
di cui all’art. 416-bis, commi primo, secondo, terzo, quarto, quinto, sesto ed
ottavo, cod. pen. per la partecipazione all’associazione di tipo mafioso
denominata cosca Tegano, operante quale articolazione territoriale della più
ampia associazione ‘Ndrangheta nel locale Archi di Reggio Calabria, capo A, e di

capo B) Carmelo Consolato Murina e Giuseppe Morabito.
Il Murina era stato imputato del delitto di cui all’art. 416-bis, commi primo,
secondo, terzo, quarto, quinto, sesto ed ottavo, cod. pen., per la partecipazione
all’associazione di tipo mafioso denominata cosca Tegano, operante quale
articolazione territoriale della più ampia associazione ‘Ndrangheta nel locale Archi
di Reggio Calabria, con inquadramento della sua posizione, ai sensi dell’art. 416-

bis, comma secondo, cit., per essere organizzatore della suddetta articolazione
territoriale dell’associazione armata, a cui erano stati affidati ruoli di gestione
della specifica porzione di territorio, con lo svolgimento del compito di
sovraintendere, per conto della cosca, alle attività criminali consumate nel
quartiere di Santa Caterina di Reggio Calabria, con particolare riferimento alla
riscossione di somme di danaro a titolo di tangente, incarico adempiuto
avvalendosi della collaborazione di altri soggetti, fra cui Donatello Canzonieri, in
Reggio Calabria, dal 20 gennaio 1999 al 30 ottobre 2010, in permanenza (capo

D).
Il Morabito era stato imputato (in concorso con Carmine Polimeni, Giancarlo
Siciliano, Antonino Morabito e Vincenzo Serafino, per i quali si era proceduto
separatamente) del delitto di cui agli artt. 81, comma secondo, 110, 390 cod.
pen. e 7 legge n. 203 del 1991 per avere, al fine di agevolare la succitata cosca
mafiosa Tegano, aiutato Giovanni Tegano, capo indiscusso e riconosciuto della
cosca stessa, a sottrarsi all’esecuzione del provvedimento di esecuzione di pene
concorrenti emesso in data 17 novembre 2003 dalla Procura generale della
Repubblica presso la Corte di appello di Reggio Calabria, con contestuale ordine
di esecuzione n. 239/2003 R.E.S., relativo ad una pena detentiva residua
complessiva da espiare pari all’ergastolo, in particolare Giuseppe Morabito
essendosi occupato di mettere a disposizione del suddetto latitante l’abitazione,
finalizzata a consentirgli di incontrare in modo riservato il genero Carmine
Polimeni e Giancarlo Siciliano, in Reggio Calabria, Terreti e dintorni, fino al 20
aprile 2010 (capo H).
Con la suindicata sentenza il Tribunale aveva assolto il Trimboli dai reati a

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estorsione aggravata in danno degli esponenti della Cooperativa New Labor,

lui ascritti, aveva ritenuto Giuseppe Morabito responsabile del delitto a lui
contestato ed, esclusa la recidiva, lo aveva condannato alla pena di anni cinque,
mesi sei di reclusione, aveva ritenuto il Murina responsabile del delitto a lui
imputato, esclusa l’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma sesto, cod. pen., e,
ritenuta la continuazione fra questo reato e quelli oggetto delle condanne
riportate dal Murina con la sentenza della Corte di appello di Reggio Calabria in
data 21 febbraio 2001 (irrevocabile il 22 maggio 2002) e con la sentenza della
Corte di assise di appello di Reggio Calabria in data 3 aprile 2001 (irrevocabile il

reclusione, con declaratoria di interdizione perpetua del Morabito e del Murina
dai pubblici uffici e di loro interdizione legale durante il periodo di espiazione
della pena, nonché con l’applicazione della misura di sicurezza della libertà
vigilata per un periodo non inferiore ad anni tre per il Murina e ad anni uno per il
Morabito.
Interposto appello avverso questa decisione dal Murina e dal Morabito, la
Corte di appello di Reggio Calabria ha emesso la sentenza del 4 febbraio 2015 l.° febbraio 2016 con cui, in riforma della sentenza impugnata, esclusa per il
Murina l’ipotesi di cui al comma secondo dell’art. 416-bis cod. pen., ha
rideterminato la pena inflitta al Murina, sempre con riferimento al complesso dei
reati posti in continuazione in primo grado, in quella di anni quindici, mesi sei di
reclusione ed ha rideterminato la pena inflitta al Morabito in quella di anni
quattro, mesi otto di reclusione, con revoca per quest’ultimo dell’interdizione
legale e sostituzione dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici con quella della
durata di anni cinque e restituzione all’avente diritto dell’immobile sequestrato il
27 aprile 2010.

2. La sentenza di primo grado, in ordine alla perdurante ed attuale
operatività dell’organizzazione criminale di stampo mafioso denominata “cosca
Tegano”, aveva premesso che essa era stata più volte giudiziariamente ritenuta
una delle più potenti e pericolose associazioni di ‘ndrangheta della provincia
reggina, presente prevalentemente nel locale di Archi di Reggio Calabria ed era
stata osservata nell’ambito dell’attività investigativa definita “Agathos”,
finalizzata alla cattura del latitante Giovanni Tegano (nato il 1939), cattura alfine
conseguita in data 26 aprile 2010.
Questa cattura, per quanto qui primariamente rileva, era avvenuta
nell’abitazione di Giuseppe Morabito, in contrada Badia – località Terreti, nel
corso di una fase volta al perseguimento di uno degli obiettivi rientranti nel suo
programma di controllo delle attività economiche del territorio reggino, ossia il
mantenimento della gestione dell’attività concernente la manutenzione e pulizia

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12 aprile 2002), lo aveva condannato alla complessiva pena di anni diciannove di

dei convogli ferroviari svolta presso la “Platea Lavaggio” della Stazione Centrale
di Reggio Calabria, assunta dalla Cooperativa New Labor (società associata al
Consorzio Kalos), incaricata del relativo servizio da Trenitalia S.p.A., appaltante,
in sostituzione della precedente appaltatrice Ferroser.
Il processo poi vedeva affiancata l’accusa mossa a Carmelo Consolato
Murina di avere assunto una posizione di vertice all’interno e per conto della
predetta cosca per quanto concerneva lo svolgimento delle attività criminali
perpetrate nella specifica articolazione territoriale del quartiere di Santa Caterina
di Reggio Calabria.

2.1. Fra i temi approfonditi dalla sentenza nella ricostruzione della
complessa attività investigativa “Agathos” relativa alla cosca Tegano, notevole
rilievo era dedicato alla cattura del latitante Giovanni Tegano, evento rispetto a
cui era stata elevata l’accusa di favoreggiamento aggravato a carico del
Morabito, riguardo alla cui posizione il Tribunale aveva ritenuto alfine dimostrato
il fatto che l’imputato aveva cooperato a nascondere nella propria abitazione il
latitante (destinatario di condanne definitive per gravi reati, oltre che di
provvedimenti custodiali di natura cautelare) lungamente e vanamente ricercato
dalle Forze di polizia. Per il Tribunale il Morabito aveva consentito al Tegano
anche di incontrarsi in modo riservato con il genero Carmine Polimeni e con
Giancarlo Siciliano, considerando circostanze rilevanti ai fini dimostrativi del fatto
le seguenti: l’imputato era presente all’atto della cattura del latitante, in data 26
aprile 2010, nell’abitazione di sua pertinenza; l’area in cui si trovava il ricercato
risultava ubicata in una zona riservata, posta in località Terreti (contrada Badia,
n. 11, di Reggio Calabria), composta di poche case, appartenenti
sostanzialmente al medesimo nucleo familiare allargato che, per la sua completa
vigilanza, si avvaleva anche di un impianto di videosorveglianza appositamente
allestito; all’atto dell’irruzione della Polizia, il Tegano, che cercava di nascondersi,
si trovava nell’appartamento al piano terreno di uno dei fabbricati frontistanti in
uso a Giuseppe Morabito, intento a discutere con il genero Carmine Polimeni, che
da poco tempo vi aveva fatto ingresso accompagnato dal Siciliano, nella stanza
adibita a salotto e pranzo, mentre in cucina si trovavano proprio Giuseppe e
Antonino Morabito ed il Siciliano, in attesa che l’incontro riservato si
concludesse; dopo che tutti i presenti erano stati tratti in arresto, Antonino
Morabito si era avvalso della facoltà di non rispondere, mentre Giuseppe
Morabito, il Siciliano ed il Polimeni avevano fornito, ciascuno, una versione
diversa in ordine alla presenza del Tegano, tutti accampando comunque
l’occasionalità del fatto e la giustificazione che nessuno dei presenti, salvo il
Polimeni, fosse a conoscenza dell’identità del latitante.
I giudici di primo grado, prese in debita considerazione le discolpe offerte

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dal Morabito in sede di esame (secondo cui questi avrebbe ricevuto la visita
improvvisa del Siciliano e delle due persone che si accompagnavano a lui senza
avere alcuna contezza di chi fossero e le avrebbe accolte per la conoscenza
pregressa del solo Siciliano, il quale lo avrebbe pregato di consentire al Tegano
ed al Polimeni di parlare in privato per una mezz’oretta in casa sua), ne aveva
ritenuto l’inverosimiglianza ed il contrasto con le altre versioni, per poi
concludere che era acclarato il fatto che quello era da tempo il nascondiglio del
Tegano, essendo del tutto improbabile che qualcuno si facesse accogliere in una

che, peraltro, in relazione alle caratteristiche della zona, avrebbe potuto
svolgersi ancora più occultamente nelle campagne circostanti, né potendo
ragionevolmente ritenersi occasionale un incontro che, nel contesto in cui si era
svolto, appariva essere il frutto di regia e preparazione accurate da parte di tutti
i soggetti coinvolti, come confermava il rilievo che il Tegano era stato trovato in
possesso di una pistola con il colpo in canna ed altro munizionamento, mentre
era intento a nascondersi in una cameretta a luci spente, in una stanza attigua a
quella in cui si era poco prima svolto l’incontro riservato con il genero Carmine
Polimeni, e che erano stati sequestrati vari indumenti nella camera da letto, da
cui poteva desumersi la permanenza da tempo in quel luogo, considerato anche
che il Polimeni era un soggetto con posizione preminente nelle attività estorsive
perpetrate ai danni dei quadri dirigenti della New Labor, sotto la protezione di
altre persone, tra cui Vincenzo Serafino e lo stesso Giuseppe Morabito.
Irrilevante era stato ritenuto il dato che il vano cucina in cui era stato
trovato il Morabito non fosse comunicante internamente con le altre stanze
dell’appartamento, essendo consueto nelle case rurali di quel tipo che diversi
ambienti appartenenti al medesimo immobile fossero collegati da un cortile
esterno comune, ferma restando la disponibilità dell’intero cespite da parte
dell’imputato.
In questa cornice i primi giudici avevano escluso che i presenti potessero
ignorare l’identità del latitante e le sue vicissitudini giudiziarie, notorie e presenti
per anni nelle cronache locali, a causa della sua partecipazione alla seconda
guerra di mafia in alleanza con uno dei cartelli criminali in lotta per il predominio
in città, come risultava confermato dalla deferenza manifestata nei suoi
confronti, consistita non solo nell’averlo ospitato, ma anche nell’avergli dato la
disponibilità del salotto di casa e nell’essersi trasferiti in cucina con il Siciliano in
attesa che egli colloquiasse con il genero, oltre che nell’attenzione prestata a
controllare, sia con le telecamere, sia tramite la personale attivazione del
Serafino, che l’area circostante non fosse raggiunta da sguardi indiscreti, in una
zona che si caratterizzava per essere un nascondiglio ideale, attese la

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casa da uno sconosciuto al solo scopo di intrattenere una conversazione riservata

riservatezza e la controllabilità del sito rispetto al contesto cittadino e la
presenza in loco di un gruppo familiare coeso postosi a disposizione ,copertura e
supporto dell’evento. Circa la significativa dislocazione all’esterno del suddetto
Vincenzo Serafino (cognato di Giuseppe Morabito e zio di Antonino Morabito), era
emerso anche che questi aveva accompagnato il Polinneni e si era, poi, dedicato
a sorvegliare la zona. Dal ché si era tratta la certezza della colpevolezza di
Giuseppe Morabito che aveva cooperato allo svolgimento di una sicura e
tranquilla latitanza di Giovanni Tegano consentendogli di continuare a mantenere

2.2. Con riguardo alla posizione del Murina, il Tribunale aveva ritenuto
acquisita la prova della sua responsabilità penale in ordine al reato associativo a
lui ascritto, dovendo essere attualizzata la sua posizione, già storicamente e
giudiziariamente accertata con le due precedenti sentenze definitive ed ora
evolutasi rispetto a quei periodi passati.
A base di questo convincimento i primi giudici avevano posto, dopo averle
singolarmente analizzate a valutate, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia
Roberto Moio, Consolato Villani, Antonino Lo Giudice, Umberto Munaò, Giacomo
Toscano e Maurizio Lo Giudice, messi in correlazione con le sentenze irrevocabili
che avevano descritto la cosca Tegano, in particolare quelle relative al
procedimento penale a carico di Paolo De Stefano + 59 ed all’operazione
Olimpia.
Dall’esame di queste fonti di prova essi avevano tratto il convincimento della
continuità dell’azione criminale del Murina, il quale aveva mutato in parte il
contesto associativo in cui si era inserito e si era garantito l’ascesa nella scala
gerarchica fino a raggiungere i vertici di una delle più potenti cosche della
provincia reggina, quella definita appunto Tegano, alla quale fin dai tempi della
sentenza Olimpia la cosca Franco, in cui egli militava, era federata. Il quadro
probatorio analizzato aveva condotto il Tribunale a ritenere dimostrata la
continuità criminale tra passato e presente del Murina che aveva iniziato e poi
non aveva cessato di mantenere il proprio status di sodale con funzioni di vertice
all’interno della cosca Tegano, a cui apparteneva sin dai tempi della sentenza
Olimpia 1, essendo stato indicato all’unisono come un soggetto inserito in quel
contesto criminale, accreditato e riconosciuto come tale da altri esponenti di
vertice della stessa associazione e di quelle consorziate, per cui l’indicazione da
parte dei dichiaranti del suo ruolo non era relegabile nel novero delle
affermazioni generiche, senza ulteriori connotazioni obiettive, ma forniva al
contrario la prova del suo contributo causale. D’altro canto, la pervicace azione
esercitata dal Murina nell’individuata parte del territorio reggino, dove ogni
attività era condizionata dai suoi diktat, in particolare per l’imposizione di

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i legami con la cosca.

tangenti a chiunque operasse nella zona, escludeva che il riconoscimento della
qualità di capo dell’organizzatore si limitasse ad un’affermazione di colore, priva
di concreto effetto pratico.

3. La sentenza di appello, circa la posizione del Morabito, per quello che qui
ancora rileva, ha sostanzialmente condiviso l’impianto argomentativo esposto dal
Tribunale soltanto differenziandosi con riferimento alla quantificazione della
pena, diminuita a quella di anni quattro, mesi otto di reclusione, reputata

riferimento alla restituzione dell’immobile in cui era stato sorpreso il Tegano, ad
eccezione dell’impianto di videosorveglianza, restato confiscato.
Anche in ordine alla posizione del Murina la Corte territoriale ha condiviso
per gran parte la motivazione e l’approdo della sentenza di primo grado. L’unico
punto su cui l’impugnazione è stata considerata fondata, con i conseguenti
riflessi sulla pena, ha avuto riguardo al ruolo di organizzatore del Murina nella
cosca indicata, dal momento che, secondo i giudici di appello, il compendio
probatorio non consentiva di affermare con certezza che questi – pur investito
del compito di occuparsi della riscossione dei proventi e di fungere da referente
della cosca – avesse nella consorteria Tegano una funzione di organizzatore di
quel sodalizio ed in quali termini la esercitasse in concreto.

2. Avverso questa decisione ha proposto ricorso il difensore del Murina
chiedendone l’annullamento ed affidando l’impugnazione a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo si lamenta violazione degli artt. 192 cod. proc. pen.
e 416-bis cod. pen., nonché del disposto di cui all’art. 546, lett. e), cod. proc.
pen., e vizio di motivazione, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) c) ed e),
cod. proc. pen.
La Corte territoriale per ritenere accertata la partecipazione del Murina
all’associazione criminale indicata in imputazione aveva valorizzato, oltre alle
dichiarazioni di Moio (intraneo alla consorteria), le precedenti sentenze di
condanna del 1996 e del 1999 che avevano riguardato il ricorrente per il reato di
associazione di stampo mafioso: però in quei processi le condanne avevano
avuto ad oggetto la sua appartenenza alla cosca Franco, non alla cosca Tegano;
e ciò evidenziava nel ragionamento dei giudici di merito l’inserimento di un primo
dato di natura assolutamente congetturale.
Poi, la sentenza impugnata aveva conferito affidabilità alle dichiarazioni dei
collaboratori Moio, Villani, Lo Giudice e Munaò, ritenute convergenti, per
considerare acclarato lo status di sodale del Murina all’interno della cosca
Tegano, pur se i medesimi non avevano indicato alcun reato fine, anche di

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congrua in relazione alla personalità del reo ed alla gravità del fatto, nonché con

carattere estorsivo, ascrivibile all’imputato, né la Corte aveva individuato reati di
tal tipo se non facendo riferimento a vicende delittuose pregresse ed ormai
definite. In realtà i collaboranti non avevano fornito alcuna indicazione di
condotta specifica, anche di carattere conversativo, riferibile all’imputato e
dimostrativa di un suo coinvolgimento nella gestione o partecipazione della
famiglia Tegano, ovvero Franco, considerata la prima come cellula interna alla
seconda. Anche sotto l’aspetto ora indicato il risultato utilizzato avrebbe dovuto
valutarsi come non più che congetturale.

sentenza impugnata per avere appaltato ai collaboratori la valutazione giuridica
dei fatti oggetto di accertamento. La stessa conclusiva determinazione della
Corte territoriale di ritenere insufficiente il quadro probatorio per l’accertamento
dell’ipotesi di cui al comma secondo dell’art. 416-bis cod. pen. aveva dimostrato
l’inadeguatezza delle generiche dichiarazioni dei propalanti in ordine alla sua
partecipazione alla consorteria criminale: e più volte la generica affermazione di
conoscenza dell’appartenenza di un soggetto al sodalizio, pur proveniente da più
collaboratori ritenuti attendibili, era stata ritenuta inadeguata per la formazione
della stessa probatio minor necessaria in sede cautelare, sicché essa non poteva
certo essere sufficiente per il giudizio di merito, occorrendo – al contrario l’emersione di condotte specifiche poste in essere dal soggetto accusato in guisa
tale da assumere rilievo contributivo e dinamico-funzionale.
Mancando in questo caso i riferimenti a condotte di dal tipo, la sentenza
impugnata si era trincerata dietro affermazioni meramente assertive, incongrue
e laconiche per giustificare le conclusioni raggiunte, nonostante il corrispondente
rilievo fosse stato debitamente sviluppato con i motivi di gravame. In definitiva,
la Corte territoriale si era basata su elementi inadeguati valorizzandoli
incongruamente al fine della prova del fatto da provare, enfatizzando i rapporti
frequentazione, i rapporti familiari e addirittura le precedenti assoluzioni ai sensi
dell’art. 530, comma 2, cod. proc. pen., nonché i collegamenti tra correi od
anche massime di esperienza relative alle metodiche di funzionamento delle
consorterie di ‘ndrangheta, utilizzate in prospettiva inevitabilmente
soggettivistica, elementi assolutamente insignificanti.
2.1.1. Particolarmente rilevante era la violazione dei criteri interpretativi
sopra indicati in ordine alla valorizzazione delle precedenti sentenze di condanna
che avevano riconosciuto la sussistenza del sodalizio mafioso in questione.
Posto il tenore della contestazione di cui al capo D della rubrica (che
individuava in senso spazio-temporale la condotta partecipativa del Murina al
clan con riferimento a “Reggio Calabria, provincia ed altre località del territorio
nazionale, dal 20 gennaio 1999 al 30 ottobre 2010, in permanenza”), la sentenza

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Nella stessa traccia era da rilevare l’errore di diritto emergente dalla

impugnata aveva errato lì dove aveva ritenuto di poter utilizzare gli esiti delle
sentenze di condanna che avevano decretato la sussistenza della suddetta
consorteria: infatti queste sentenze avevano riguardato diversi contesti fattuali,
diverse modalità esplicative, diverse strutture soggettive e, soprattutto, un
diverso arco temporale. Così, le sentenze emesse nei procedimenti denominati
“Operazione Olimpia 1” e “Operazione Segugio” erano riferibili ad un contesto
temporale obiettivamente risalente nel tempo. Soprattutto, fra la data
dell’accertamento definitivo operato dalle due indicate sentenze e la data relativa

significativo lasso temporale, senza l’emersione di elementi che consentissero di
ritenere la protrazione delle attività della stessa consorteria. Il ché avrebbe
dovuto precludere la trasposizione degli elementi di accertamento contenuti in
quelle pronunzie all’odierno giudizio, in quanto le sentenze di condanna in tanto
potevano essere utilizzate in quanto esse fossero corredate da idonei elementi di
riscontro ed a condizione che inerissero allo stesso fatto oggetto di
apprezzamento, altrimenti degradando ad elementi di valenza meramente
descrittiva.
2.1.2. Ulteriore, specifica erroneità del giudizio ricostruttivo era quella
relativa all’affermazione secondo cui sarebbe sussistita continuità nella condotta
adesiva del Murina al sodalizio mafioso denominato cosca Tegano, sempre in
virtù della valorizzazione, ex art. 238-bis cod. proc. pen., degli esiti dei
precedenti accertamenti giudiziari.
Non era dato comprendere come la Corte territoriale avesse ritenuto di
poter richiamare (a pagg. 44 e ss. della sentenza) gli esiti dei suddetti precedenti
accertamenti omettendo di considerare che in quei processi il Murina era stato
condannato in quanto partecipe, con ruolo apicale, di una consorteria mafiosa
assolutamente diversa e distinta rispetto a quella oggetto di attuale
contestazione. Si trattava, nell’un caso e nell’altro, dell’adesione dell’imputato
alla cosca Franco, senza che potesse comprendersi da dove in termini logicodeduttivi si fosse tratta la prova della risalente adesione dell’imputato al sodalizio
criminoso denominato cosca Tegano: anche la vicinanza fra le due consorterie
sviluppatasi durante la seconda guerra di mafia non offuscava, ma rendeva
incontestabile l’affermazione della distinzione ontologica tra le cosche stesse.
La censurabilità della non provata conclusione che la cosca Franco si fosse
esaurita in una sorta di articolazione della cosca Tegano era confermata dalla
confusione del rilievo strutturale del sodalizio con quello personologico e
dall’indebita elusione logica consistita nella traslazione valutativa dell’attività
ascritta al Murina da una consorteria all’altra. Anzi, come pure era stato
esplicitamente evidenziato nell’atto di appello, la precedente sentenza relativa al

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alla contestazione formulata nella presente imputazione era intercorso un

procedimento “Olimpia 1” aveva dettagliatamente descritto il ruolo del Murina,
genero di Michele Franco, nella cosca denominata (appunto) Franco: tale tema,
tuttavia, non risultava per nulla affrontato dalla sentenza impugnata che aveva
ritenuto invece di operare indebita e censurata omologazione tra le due diverse
associazioni criminali.
2.1.3. Ulteriore elemento di censurabilità della motivazione offerta dalla
sentenza impugnata afferiva al rilievo di avere completamente ignorato l’esito
negativo dell’accertamento giurisdizionale avente ad oggetto la “operazione

della Cooperativa New Labor e sfociata nella cattura del latitante Giovanni
Tegano – che pure era confluito nel presente processo.
Invero nei confronti degli appartenenti alla cosca Tegano, all’esito appunto
della operazione Agathos, era stata mossa alla contestazione di cui al capo A
della rubrica, con articolazione di ruoli, strutture, componenti e metodi, laddove
con riferimento al solo Murina era stato elevato il separato capo d’accusa sub D
per formulare l’imputazione inerente alla sua appartenenza alla stessa cosca
Tegano. Ed era rilevante sottolineare che tutta l’attività investigativa inerente
alla suddetta operazione Agathos, attività particolarmente penetrante, si era
risolta con l’assoluta assenza di qualsivoglia riferimento alla sfera del Murina,
come risultava con particolare evidenza dalle dichiarazioni dell’inquirente Trotta,
mentre logica avrebbe voluto che la relativa attività, dispiegatasi anche in
ambito intercettivo, facesse emergere una qualche interrelazione con il clan
Tegano che coinvolgesse l’odierno imputato. La questione era stata sviscerata
anche nell’esame dell’inquirente Crucitti, con il medesimo esito negativo.
Tale dato, di notevole rilevanza logica, era stato del tutto trascurato nella
sentenza impugnata che aveva, così, finito per obliterare il principio di diritto che
imponeva di prendere in esame i rilievi difensivi aventi portata decisiva, con
conseguente emersione del correlativo vizio di motivazione.
2.1.4. Un altro punto oggetto di censura riguardava l’erronea applicazione
del principio della frazionabilità nella valutazione delle dichiarazioni, con
particolare riferimento a quelli di Antonino Lo Giudice.
Premesse le pacifiche acquisizioni interpretative sul punto, da cui derivavano
anche i limiti della corrispondente operazione ermeneutica, soprattutto laddove
emergesse un’interferenza fattuale illogica fra la parte delle dichiarazioni ritenuta
inattendibile e la parte fatta salva, tale da impedire di valorizzare in modo isolato
la seconda, nonché qualora si evidenziasse un giudizio di inattendibilità
pervenuto a livello talmente estremo ed esteso da coinvolgere la stessa
attendibilità soggettiva del soggetto dichiarante, la Corte territoriale, nonostante
uno specifico motivo di gravame sull’argomento, non si era avveduta che nel

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Agathos” – relativa al disvelamento di una serie di attività estorsive in danno

caso in esame ricorrevano entrambe le situazioni di fatto ostative alla
valorizzazione del contributo narrativo di Antonino Lo Giudice.
Era risultato, infatti, illogico il percorso che aveva condotto all’utilizzazione
delle affermazioni di questo dichiarante ex art. 210 cod. proc. pen. nella parte in
cui esse collimavano con quelle del collaboratore Villani ed alla qualificazione di
inattendibilità di tutto il restante narrato del Lo Giudice, volto a sottrarsi alle
proprie responsabilità in termini associativi ed anche a negare di aver mai
confidato al Villani le notizie che poi quest’ultimo aveva riferite indicando lui

dichiarazioni del Lo Giudice, sia per la sostanziale valutazione di falsità, più che
di inattendibilità, delle sue affermazioni tendenti a sottrarsi alle proprie
responsabilità, la Corte territoriale avrebbe dovuto necessariamente far
discendere la conclusione di escludere la legittimità dell’utilizzazione frazionata di
queste dichiarazioni ed annettere alla posizione del propalante la valutazione di
complessiva inattendibilità. A conferma postuma dell’erroneità del criterio
valutativo adottato si ponevano infine le vicende successive relative alla
sottrazione del lo Giudice al programma di protezione ed alla sua ritrattazione.
2.2. Con il secondo motivo sono dedotti violazione degli artt. 192 cod. proc.
pen. e 416-bis, commi quarto e quinto, cod. pen. e vizio di motivazione, in
relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen.
Non era risultato affatto dimostrato da alcuna circostanza che il Murina, od
anche altri fra gli appartenenti alla medesima organizzazione, avesse una
qualche disponibilità di armi, così da poter giustificare la configurazione
dell’associazione armata. Certo, non avrebbe potuto valorizzarsi a tal fine la
detenzione da parte di Giovanni Tegano della pistola rinvenuta al/momento del
suo arresto: tuttavia la sentenza impugnata in termini assolutamente
congetturali ed apodittici conduceva alla disponibilità dell’arma all’intero
sodalizio.
Né potevano essere recepiti gli argomenti generalizzanti svolti (a pag. 46)
dalla sentenza stessa allorché aveva utilizzato parametri di ordine prettamente
sociologico, senza agganci probatori di carattere giuridico.
2.3. Con il terzo motivo si prospettano violazione dell’art. 133 cod. pen.,
violazione della disciplina in tema di applicazione della continuazione e vizio di
motivazione, in riferimento all’art. 606, comma 1, lett. c) ed e), cod. proc. pen.
Il riferimento ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen. era stato effettuato dai
giudici di merito in modo generico, senza alcuna motivazione, né valutazione di
alcuno dei parametri dalla norma indicati.
Quanto alla continuazione, non si sarebbe dovuto determinare alcun
aumento per quanto riguardava i delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen. accertati

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come fonte. Sia per la concatenazione fra le parti così enucleate delle

nelle precedenti sentenze e quello oggetto della decisione impugnata: sul punto
la Corte territoriale aveva obliterato il principio di diritto secondo cui, in ipotesi di
reati associativi, la condotta criminosa cessava solo con lo scioglimento del
sodalizio criminale o per effetto di condotte dimostrative dell’avvenuto recesso
volontario.
Nel caso di specie all’imputato era stato contestato il reato di cui all’art.
416-bis cod. pen. per aver fatto parte della cosca Franco affiliata al cartello De
Stefano ed il Murina con le precedenti sentenze era stato condannato per fatti

Calabria, ritenuta protratta fino alla data della seconda sentenza di primo grado.
A fronte di ciò la sentenza impugnata, per escludere che si trattasse di un unico
reato permanente, avrebbe dovuto motivare circa l’avvenuta cessazione della
partecipazione del Murina a quel clan di appartenenza nel gennaio 1999, in
quanto soltanto in caso di cessazione della partecipazione dell’imputato a
quell’associazione mafiosa sarebbe stato possibile ipotizzare il reato continuato
rispetto alla sua partecipazione alla medesima associazione mafiosa contestata in
questo processo e relativa ad epoca immediatamente successiva.
Altrimenti, in assenza di soluzione di continuità, la partecipazione del Murina
al medesimo sodalizio mafioso anche se contestata in tempi diversi, integrava un
unico reato permanente, per il quale non sarebbe stato possibile prefigurare la
continuazione con i reati precedentemente giudicati.

3. Avverso la stessa sentenza ha proposto ricorso il difensore del Morabito
chiedendone l’annullamento e deducendo tre doglianze, con cui si è criticata la
decisione impugnata per contraddittorietà, palese illogicità, carenza ed
apparenza della motivazione nonché violazione di legge in relazione agli artt. 390
cod. pen. e 7 d.l. n. 152 del 1991, in riferimento all’art. 606, comma 1, lett. b)
ed e), cod. proc. pen.
3.1. Con il primo motivo si segnala che dall’esame delle evidenze acquisite
era scaturito il dato che il Morabito aveva ospitato nell’abitazione di sua
pertinenza Giovanni Tegano, latitante da quasi 17 anni, per un tempo di circa
un’ora, senza che in quel brevissimo arco temporale i due avessero alcun
contatto, per essere restati in ambienti diversi, non comunicanti fra loro, mentre
la Polizia controllava la situazione dall’esterno, e senza che nessun indumento
afferente al latitante fosse stato trovato in quella casa, nessuna captazione
avesse lambito il Morabito, nessun appostamento precedente avesse
documentato un contatto fra i coimputati ed il Morabito e nessun altro rapporto
con il Tegano fosse affiorato.
Era, dunque, priva di agganci probatori la conclusione secondo cui gli

12

riferiti all’attività svolta dal clan mafioso nel quartiere di Santa Caterina in Reggio

indumenti trovati nei locali ove era stato sorpreso il Tegano fossero
ragionevolmente da ricondursi a lui, non essendo stato effettuato alcun test su
tali indumenti che potesse ascriverli al suddetto Tegano.
Né era stato considerato il dato per cui il Morabito, prima del 26 aprile 2010,
non conosceva il Tegano, circostanza non smentita da alcun dato processuale,
sicché quando questi si era presentato a casa sua accompagnato da persone di
sua conoscenza il Morabito non aveva consapevolezza alcuna che si trattasse di
un latitante ed, in particolare, del Tegano. Comunque, anche a voler dare per

di 17 anni di latitanza, integrava un intervallo inidoneo a far concludere che
l’imputato avesse fornito supporto al Tegano alla latitanza stessa.
3.2. Con il secondo motivo si adducono la carenza, contraddittorietà e
manifesta illogicità della motivazione e la violazione di legge in riferimento
all’accertamento della circostanza aggravante ex art. 7 d.l. n. 152 del 1991.
Ove mai fosse stata acquisita la prova della responsabilità del Morabito in
ordine al delitto di cui all’art. 390 cod. pen., in ogni caso la sentenza impugnata
non avrebbe dovuto ritenere sussistente la suindicata aggravante, in quanto
l’istruttoria dibattimentale aveva fatto emergere che l’imputato non era mai stato
lambito da alcuna captazione, né era stato mai visto in compagnia dei coimputati
Siciliano e Polimeni, né era stato mai fermato e nemmeno era stato oggetto di
altrui conversazioni; nessuno dei collaboratori (Munaò, Villani, Lo Giudice) lo
aveva indicato; il collaboratore Toscano, in aula, esaminato un album fotografico
in cui il Morabito era effigiato, aveva dichiarato di non conoscerlo.
L’imputato inoltre non aveva mai subito, negli ultimi trent’anni, una
condanna e nemmeno un’imputazione in processi penali istruiti a carico della
‘ndrangheta locale e risultava gravato da un solo precedente penale risalente al
tempo della sua minore età, nell’anno 1963, non essendo sufficiente il generico
riferimento a suoi precedenti penali fatto dall’inquirente Trotta nel corso del
dibattimento.
In tale quadro la Corte di merito aveva erroneamente utilizzato le
dichiarazioni del collaboratore Moio come argomento negativo senza tener conto
che l’unico Morabito di Terreti conosciuto da quel collaboratore era deceduto nei
primi anni ’90, mentre era logicamente evidente che, se il Morabito fosse stato
intraneo o contiguo alla cosca Tegano, il Moio, che del Tegano era parente
stretto, avrebbe dovuto conoscerlo. Pertanto le affermazioni dibattimentali del
Trotta circa la vicinanza della famiglia del Morabito (il cui padre era
soprannominato u’ grillu) alla famiglia Tegano andavano pur sempre valutate
nella prospettiva, resa chiara dallo stesso investigatore, che non sussistevano
dati idonei ad inquadrare il Morabito nell’orbita del Tegano e della sua cosca.

13

dimostrata tale conoscenza, un’ora trascorsa nella medesima abitazione, a fronte

Invece la sentenza impugnata aveva tratto da questa serie di elementi il
fuorviante corollario che i Morabito erano sempre stati vicini ai Tegano.
Quanto alle dichiarazioni del collaboratore Giacomo Toscano la loro valenza
probatoria era stata esclusa già dal Tribunale in primo grado.
Né era stato valutato il rilievo per cui il Morabito il 23 aprile 2010 era
appena uscito da un ricovero ospedaliero di 17 giorni presso il Policlinico di
Reggio Calabria, per la necessità di cura di una grave patologia da cui era
affetto, sicché era logicamente impensabile che subito dopo spendesse le sue

Morabito, sarebbe morto il 5 maggio 2010, nove giorni dopo l’arresto del figlio,
mentre il suocero dell’imputato, Carmelo Serafino, sarebbe deceduto il 2 maggio
2010, ossia soli sei giorni dopo il suo arresto: tale situazione familiare rendeva
illogico supporre che il Morabito potesse dedicarsi a tutelare un latitante che
peraltro non conosceva, mentre rendeva molto più logico concludere che
l’incontro con il Tegano fosse avvenuto in modo casuale, senza alcuna
consapevolezza della sua identità e del suo status da parte dell’imputato.
Infine, la motivazione resa dalla Corte territoriale era gravemente incongrua
per non aver provveduto in nessun modo ad esaminare alcuna ipotesi alternativa
a quella assunta come provata.
3.3. Con il terzo motivo si deduce carenza, contraddittorietà e illogicità della
motivazione violazione di legge in punto di determinazione della pena.
La sentenza impugnata, dopo aver fatto riferimento alla personalità del reo,
aveva irrogato al Morabito la pena di anni quattro, mesi otto di reclusione, ma
non aveva quantificato questa pena commisurandola alla suddetta personalità,
caratterizzata da un unico – e risalente alla minore età – precedente penale,
dall’assenza di precedenti giudiziari, anche in tema di criminalità organizzata, e
dall’estraneità del medesimo a tutta la restante vicenda criminale: posta tale
cornice, i giudici di merito mai avrebbero potuto raggiungere una soglia
sanzionatoria così alta.

4. Il Procuratore generale, all’esito di approfondita discussione, ha chiesto il
rigetto del ricorso formulato dal Murina e la declaratoria di inammissibilità
dell’impugnazione proposta dal Morabito, soffermandosi sulle singole censure
prospettate dalla difesa del Murina e segnalando l’adeguatezza e coerenza della
motivazione della sentenza di appello in relazione ai corrispondenti punti, nonché
sottolineando come il Morabito, con le proposte doglianze, per alcuni aspetti,
sollecitasse una diversa interpretazione delle risultanze probatorie e, per altri
aspetti, formulasse censure generiche, in un caso e nell’altro sottoponendo al
giudice di legittimità questioni inammissibili.

14

poche energie per tutelare un latitante. Inoltre il padre dell’imputato, Pietro

5. Con la discussione svolta innanzi al Collegio i difensori degli imputati
Murina e Morabito hanno illustrato i motivi rispettivamente addotti richiamando e
specificando le relative tematiche e ribadendo le rispettive istanze di
annullamento della sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

2. Muovendo dalla posizione di Carmelo Consolato Murina, è da rilevare che
ogni punto delle censure articolate con il primo motivo di impugnazione (in parte
narrativa complessivamente trattato sub 2.1.) rinviene nella motivazione fornita
dalla Corte territoriale – coordinata con le ragioni esplicate dalla sentenza di
primo grado, per quanto conforme alla seconda – un discorso giustificativo
adeguato in rapporto alle prove esaminate e logicamente coerente, tale da
resistere alle obiezioni sollevate dal ricorrente.
2.1. I giudici di appello hanno specificamente precisato che le svariate fonti
dichiarative poste a base della decisione di primo grado, confermata per la parte
di interesse, erano state adeguatamente sondate con corretti criteri valutativi,
oltre che con riferimento al collaboratore Moio, anche in ordine alle posizioni dei
collaboratori Villani, Munaò e Lo Giudice.
Al riguardo la Corte di merito, in via più generale, ha verificato i criteri
adottati dal primo giudice in materia di apprezzamento degli elementi di prova
ed analizzando i rilievi esposti dalla difesa anche con riferimento ai punti di crisi
di ciascuna propalazione, ed ha concluso per l’infondatezza delle relative
doglianze.
Sono state prese in considerazione e specificamente analizzate le
dichiarazioni di Roberto Moio, molto legato alla famiglia del Tegano (con
intraneità alla stessa giudizialmente accertata fin dal 2011), di Umberto Munaò,
di Consolato Villani, ponendo quelle di quest’ultimo anche a raffronto con il
narrato proveniente dal Lo Giudice ed accedendo alla valutazione frazionata delle
dichiarazioni dello stesso Lo Giudice.
Particolarmente dettagliate sono risultate le propalazioni del Molo il quale,
oltre a riferire in modo specifico dell’operato del Murina all’interno della
consorteria Tegano, ha ricostruito con chiarezza le vicende dei sodalizi criminali
che avevano gestito in modo organizzato le attività illecite nella zona di Archi,
con la conferma del fatto che la cosca Franco si era caratterizzata per essere una
costola della più grande cosca Tegano e che, nell’ambito di quest’ultima

15

1. Le impugnazioni sono entrambe infondate e, pertanto, vanno rigettate.

organizzazione, il Murina aveva avuto ed espletato l’incarico di responsabile per il
territorio di Santa Caterina, in ordine al quale esercitavano influenza e famiglie
Tegano, De Stefano e Condello, fermo restando che il Murina rendeva conto
esclusivamente alla famiglia Tegano.
Anche la prospettazione (già avanzata con l’atto di appello) di genericità
delle indicazioni fornite da tali collaboratori è stata espressamente presa in
considerazione dai giudici di secondo grado che l’hanno disattesa, in quanto dal
complesso delle propalazione, secondo la sentenza impugnata che ha espresso il

sufficientemente congruo e dettagliato gli esiti, è emerso il preciso tratto della
condotta del Murina quale referente della cosca Tegano in un ben definito
contesto territoriale, deputato a sovraintendere alle attività criminali nella parte
del rione Santa Caterina spettante alla relativa consorteria.
I dichiaranti, dunque, dal rispettivo punto di vista (il Villani ed il Lo Giudice
quali appartenenti al clan Lo Giudice, il Munaò quale intraneo allo schieramento
Condello-Rosmini-Serrano, ed il Moio quale partecipe del clan Tegano), lungi dal
riferire elementi superficiali ed indistinti, hanno fatto emergere con nettezza il
ruolo del Murina ed anche i rapporti dell’imputato con gli altri esponenti della
stessa e delle altre cosche interessate.
Il reciproco effetto di riscontro che hanno prodotto le convergenti e
specifiche dichiarazioni dei suddetti collaboratori, nel quadro degli altri elementi
richiamati dai giudici di merito, va d’altronde verificato avendo quale oggetto il
fatto della partecipazione (certo, connotata in modo specifico) dell’imputato
all’associazione di tipo mafioso, non ogni singola condotta riferita da ciascuno al
medesimo nelle rispettive dichiarazioni.
Sul punto, merita di essere quindi ribadito il principio secondo cui, in ordine
alla prova dei reati associativi, la conferma dell’attendibilità di un’accusa mossa
da un collaboratore di giustizia può essere costituita dalla dichiarazione di un
altro collaboratore avente ad oggetto un fatto diverso, sol che sia parimenti
indicativo della partecipazione all’associazione, non rilevando in contrario che il
riscontro attenga ad un accadimento collocabile in un diverso contesto
temporale, se quest’ultimo sia comunque compreso nel periodo di contestazione
del reato, in quanto il factum demonstrandum non si identifica con il singolo
comportamento dell’associato, ma con la sua appartenenza al sodalizio (cfr. in
tal senso Sez. 5, n. 21562 del 03/02/2015, Fiorisi, Rv. 263704; Sez. 1, n. 10734
del 23/01/2013, Marrone, Rv. 254885, in motivazione; Sez. 2, n. 23687 del
03/05/2012, D’Ambrogio, Rv. 253221).
2.2. La Corte di merito, inoltre, ha con ragionamento immune da vizi
reputato non decisivo in senso contrario il fatto della mancata indicazione a

16

suo convincimento dopo aver provveduto ad analizzarne in modo

carico dell’imputato di singoli specifici reati fine, in particolare estorsivi, dal
momento che l’oggetto dell’accertamento era la sola posizione del Murina nel
clan suddetto, con l’emersione del suo rapporto di stabile compenetrazione con il
tessuto organizzativo del sodalizio: e tale posizione (dato particolarmente
valorizzato dai giudici di appello) è stata ben descritta da tutti i collaboratori che,
pur dal rispettivo angolo visuale, hanno individuato concordemente nell’imputato
un soggetto in piena attività per conto della consorteria Tegano, in possesso di
una caratura e di una personalità di natura criminale riconosciute in modo

L’imputato, benvero, non è stato indicato come genericamente operante
nerambito dell’organizzazione malavitosa, bensì è stato indicato come incaricato
di incassare e ripartire con le compagini interessate i proventi delle attività
illecite controllate sul territorio di competenza.
Dunque, la motivazione resa dalla sentenza impugnata sull’enucleazione
delle condotte attivamente dimostrative dell’adesione all’associazione Tegano avendo esposto con precisione gli indicatori fattuali dai quali, sulla base di
attendibili regole di esperienza formate dall’osservazione della criminalità di
stampo mafioso, possa logicamente, è stata desunta la certa appartenenza del
Murina all’indicata cosca, per la quale ha svolto il ruolo di esponente di punta per
la zona di Santa Caterina di Reggio Calabria – è da ritenersi congrua e
rettamente ispirata al principio di diritto secondo cui, in tema di associazione di
tipo mafioso, la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trovi in
rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del
sodalizio, tale da implicare, più che uno

status di appartenenza, un ruolo

dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato “prende parte” al
fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento
dei comuni fini criminosi, non essendo sempre coessenziali ai fini
dell’integrazione della condotta partecipativa tipica l’investitura formale o la
commissione di reati-fine funzionali agli interessi dalla stessa perseguiti, ma
rilevando decisivamente in tal senso l’accertamento della suddetta stabile ed
organica compenetrazione del soggetto rispetto al tessuto organizzativo del
sodalizio (in tal senso v., oltre a Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv.
231670, fra le altre, Sez. 5, n. 4864 del 17/10/2016, dep. 2017, Di Marco, Rv.
269207; Sez. 6, n. 12554 del 01/03/2016, Archinà, Rv. 267418).
Né il ridimensionamento del ruolo del Murina nell’ambito della consorteria
Tegano, che i giudici di appello hanno riqualificato come fatto di mera
partecipazione. indebolisce in una qualche misura la coerenza del ragionamento
che ha condotto all’accertamento della sua penale responsabilità.
Invero, dal più rigoroso vaglio operato dalla Corte territoriale non è risultato

17

unanime, in stretto raccordo con i più importanti esponenti della cosca.

provato che il contributo fornito dal Murina alla consorteria Tegano si fosse
elevato fino alla funzione di organizzatore, promozione e direzione del clan,
proprio in relazione alla notevole articolazione della consorteria ed alla specificità
territoriale del, pur importante, ruolo rivestito dall’imputato, ma è rimasto
accertato al di la di ogni ragionevole dubbio che il sicuro apporto
consapevolmente dato dal Murina al clan Tegano si è manifestato
nell’espletamento del compito a lui affidato di occuparsi della riscossione dei
proventi criminali nel suindicato quartiere e nello svolgimento quella specifica

qualificarlo come membro organico dell’associazione.
2.3. Il richiamato ruolo del Murina, secondo la valutazione compiuta dalla
Corte di merito, si è posto in continuità con gli accertamenti scaturenti dalle
pregresse sentenze irrevocabili sfociate in condanne a carico dello stesso Murina
per il reato di associazione mafiosa, con sfera di operatività in particolare nel
territorio di Santa Caterina.
I giudici di appello hanno contrastato l’inquadramento teso ad enfatizzare
l’estraneità della cosca Franco, a cui il Murina è stato riconosciuto già organico,
alla cosca Tegano.
E’ stato, al riguardo, ricordato l’esito giudiziario costituito dalla sentenza
emessa dalla Corte di appello di Reggio Calabria il 21 febbraio 2001 (irrevocabile
il 22 maggio 2002), accertativa della responsabilità del Murina per il delitto di cui
all’art. 416-bis cod. pen. ed attestativa dell’esistenza della cosca Franco, già
incardinata nella più vasta consorteria dei Lo Giudice e poi passata nell’ambito
dei Destefanesi, che annoveravano fra le loro fila i Tegano.
Altro precedente di rilievo per la definizione dello sfondo in cui si è collocata
la susseguente condotta dell’imputato è la sentenza emessa dalla Corte di assise
di Reggio Calabria il 19 gennaio 1999, irrevocabile il 14 aprile 2002, attestativa
del ruolo direttivo del Murina nella suddetta cosca Franco, già all’epoca inserita
nel cartello De Stefano-Tegano, a cui sono stati collegati i contributi dichiarativi
del collaboratore Scopelliti, nonché di Giovanni Riggio, Adriano Gullì, Antonino
Rodà e Domenico Festa, confermativi della sicura interconnessione fra la cosca
Franco e quella Tegano.
Muovendo da questa base, i giudici di merito hanno rilevato che dai titoli
giudiziari citati e dalle concordi voci delle dichiarazioni acquisite è emerso un
principio di continuità fra le cosche, evincendosi anche da tali elementi che la
consorteria Franco era divenuta un’articolazione della cosca Tegano.
L’utilizzazione – in uno agli altri elementi, soprattutto quelli derivati dai già
indicati contributi dichiarativi – delle sentenze irrevocabili sopra indicate non ha,
peraltro, costituito un’indebita enfatizzazione di quegli arresti, in sostanziale

18

zona quale referente di quella stessa cosca, ruolo senz’altro sufficiente a

violazione degli artt. 238-bis e 192 cod. proc. pen.
Non è discutibile, invero, che l’acquisizione agli atti del procedimento, ai
sensi dell’art. 238-bis cod. proc. pen., di sentenze divenute irrevocabili non
comporta, per il giudice di detto procedimento, alcun automatismo nel
recepimento e nell’utilizzazione a fini decisori dei fatti e dei relativi giudizi
contenuti nei passaggi argomentativi della motivazione delle suddette sentenze,
dovendosi ritenere che quel giudice conservi l’autonomia e la libertà delle
operazioni logiche di accertamento e formulazione di giudizio a lui

valutazione secondo la regola probatoria di cui all’art. 192, comma 3, cod. proc.
pen., ossia come elemento di prova la cui valenza, per legge non autosufficiente,
deve essere corroborata da altri elementi di prova che lo confermino (v. sul
punto Sez. 1, n. 11140 del 15/12/2015, dep. 2016, Daccò, Rv. 266338; Sez. 1,
n. 4704 del 08/01/2014, Adamo, Rv. 259414).
Ed, in effetti, la valutazione delle precedenti condanne inflitte al Murina
quale appartenente alla cosca Franco è stata funzionalizzata dalla sentenza
impugnata alla compiuta conoscenza della situazione di fatto in cui sono stati
calati, con adeguato grado di convergenza, i contributi dichiarativi che hanno
fornito gli elementi di prova dimostrativi della concreta e diretta partecipazione
dell’imputato alla cosca Tegano a cui la prima era federata, con lo specifico ruolo
di responsabile della consorteria per il quartiere di Santa Caterina.
Quindi, le precedenti pronunzie, nella motivata valutazione datane dalla
Corte di merito, hanno contribuito a gettare luce completa sulla situazione
antisociale pregressa, anch’essa di matrice associativa, in cui si era calato il
Murina contribuendo a tracciare la corrispondente linea di continuità nel percorso
criminale dell’imputato, essendo state pur sempre – le suindicate sentenze incastonate nel quadro degli apporti probatori autonomi acquisiti in questo
processo.
In siffatta cornice i giudici di merito, con argomentazioni adeguate, hanno
ritenuto provato che, nel tempo successivo ai pregressi accertamenti, dal 20
gennaio 1999 al 30 ottobre 2010, il Murina aveva conservato un ruolo di spicco
in quel territorio ma lo aveva fatto nell’ambito del sodalizio di riferimento a cui
rendeva direttamente conto, ossia la consorteria Tegano.
2.4. Inoltre, non possono, sotto il profilo logico, ritenersi insuperabili
elementi di contrasto quelli citati dal ricorrente in ordine al fatto che il Murina,
secondo le riferite risultanze della sentenza inerente al procedimento “Olimpia
1”, aveva, quale genero di Michele Franco, un ruolo specifico e rilevante nella
cosca denominata Franco: proprio perché l’accertamento dei giudici di merito in
questo processo ha stabilito la continuità e la convergenza dell’attività

19

istituzionalmente riservate considerando le relative risultanze quale oggetto di

associativa svolta dal Murina nella cosca Franco e poi in quella Tegano (a cui la
prima era federata) tale tema non evidenzia alcuna contraddizione nel discorso
giustificativo svolto dalla sentenza impugnata.
Specularmente, il rilievo articolato dal ricorrente, secondo cui l’attività
investigativa inerente all’operazione Agathos non aveva evidenziato alcun
riferimento alla sfera del Murina in relazione all’attività della cosca Tegano,
nemmeno riveste una portata logica idonea a destrutturare ex se la congrua
motivazione resa nella sentenza impugnata.

investigative seguite per gli accertamenti compiuti nel corso di quella operazione
siano collidenti sotto il profilo storico con le emergenze processuali che sono
state acquisite dai giudici di merito del presente processo e che hanno
concretato il compendio probatorio contenente la prova piena della responsabilità
dell’imputato quale appartenente alla cosca Tegano.
2.5. Va disattesa anche la censura relativa alla valutazione di attendibilità
frazionata delle dichiarazioni del collaboratore Antonino Lo Giudice.
In ordine a questo argomento va, in premessa, rilevato che non risulta
specificamente censurata la prova di resistenza, svolta con argomento

ad

abundantiam dalla Corte territoriale, quando, dopo aver operato la valutazione
suddetta, ha specificato (a pag. 43) che, ove pure si fosse pervenuti ad una
differente conclusione circa l’attendibilità del Lo Giudice (nel senso della radicale
esclusione del suo contributo dichiarativo per generalizzata ed irrecuperabile
inattendibilità del suo narrato), il residuo compendio probatorio di natura
dichiarativa, rappresentato dai contributi del Villani, del Munaò e del Moio,
sarebbe risultato comunque idoneo a supportare l’affermazione di responsabilità
del Murina in ordine al reato ascrittogli.
Per il resto, le notazioni sull’argomento dell’attendibilità frazionata delle
dichiarazioni del Lo Giudice svolte dalla Corte di appello (a pagg. 40 e ss. della
sentenza impugnata), anche in rapporto alla richiamata analisi compiuta sul
tema dal Tribunale (a pagg. 399-401 della sentenza di primo grado), non
evidenziano i denunciati vizi giuridici e logici.
I giudici di merito hanno fatto retta applicazione del principio di diritto, che
qui si ribadisce, secondo cui l’esclusione dell’attendibilità per una parte del
racconto non implica, per il principio della cosiddetta frazionabilità della
valutazione, un giudizio di inattendibilità con riferimento alle altre parti
intrinsecamente attendibili e adeguatamente riscontrate, sempre che, per un
verso, non sussista un’interferenza fattuale e logica tra la parte del narrato
ritenuta falsa e le rimanenti parti e, per altro verso, l’inattendibilità non sia
talmente macroscopica, per conclamato contrasto con altre sicure emergenze

20

L’argomento, invero, prova troppo: non è emerso, infatti, che le linee

probatorie, da compromettere la stessa credibilità del dichiarante, sempre che,
infine, in ordine al contributo dichiarativo in discussione venga data una
spiegazione alla parte della narrazione risultata smentita in modo che possa,
comunque, formularsi un giudizio positivo sull’attendibilità soggettiva del
dichiarante (v. sull’argomento anche Sez. 6, n. 25266 del 03/04/2017, Polimeni,
Rv. 270153; Sez. 1, n. 40000 del 10/07/2013, Pompita, Rv. 256917).
La sentenza di appello ha analizzato partitamente i fattori che, in via
generale, deponevano per la credibilità del Lo Giudice, il quale si era, fra l’altro,

rivestito una posizione di rilievo nella famiglia mafiosa di appartenenza. La
decisione, fermo il rilievo di notevoli consonanze con le affermazioni degli altri
collaboratori sui fatti oggetto di accertamento, ha focalizzato nel difficile rapporto
del Lo Giudice con il cugino Consolato Villani, altro collaboratore, la genesi della
porzione di dichiarazioni ritenute in modo argomentato da disattendere.
Tali dichiarazioni, volte nella sostanza a svalutare la figura del Villani, invece
motivatamente ritenuto pienamente attenibile dalla stessa Corte territoriale,
sono state considerate frutto dell’atteggiamento di notevole ostilità del Lo
Giudice nei riguardi del Villani, in pari tempo, però, essendosi evidenziato che,
quanto alle propalazioni sui numerosi e rilevanti accadimenti oggetto di
accertamento, le dichiarazioni dei due collaboratori erano risultate pienamente
convergenti con le altre.
Anzi, lo stesso Lo Giudice, al di là dell’ostilità manifestata verso il Villani, non
ha potuto alfine negare che quest’ultimo fornisse dichiarazioni veridiche, pur
tenendo comunque a sottolineare, nel quadro di quel rapporto travagliato, di non
essere stato lui ad aver confidato al Villani il contenuto delle propalazioni:
essendosi concentrata in tale ambito la valutazione della sua carenza specifica di
attendibilità, il frazionamento operato dai giudici di merito nella complessiva
considerazione del contributo narrativo del Lo Giudice non appare aver violato i
canoni testé esposti.
La parte disattesa ha riguardato essenzialmente il rapporto con un altro dei
dichiaranti, non ha determinato una stridente interferenza fattuale e logica tra la
parte del narrato ritenuta falsa e le rimanenti parti, non ha assunto profili
eclatanti, in relazione alla sua focalizzazione sul rapporto con l’altro, ed ha
trovato la sua scaturigine nell’idiosincrasia manifestata dal propalante nei
riguardi del cugino Consolato Villani, di cui ha finito per confermare l’oggetto del
corrispondente contributo narrativo.

3. Passando al secondo motivo del ricorso del Murina, con cui si censura la
sentenza impugnata per aver ritenuto che l’associazione Tegano, la

21

autoaccusato di reati di particolare gravità (fra cui anche omicidi), aveva

partecipazione alla quale è stata ascritta all’imputato, era di carattere armato,
per gli effetti di cui all’art. 416-bis, comma quarto, cod. pen., tale carattere della
cosca Tegano è stato affermato dalla sentenza impugnata richiamando la storica
conformazione della consorteria, come accertata già dalle citate sentenze
definitive, ed è stato considerato confermato dal fatto che lo stesso capoclan
Giovanni Tegano, al momento della cessazione della latitanza, il 26 aprile 2010,
era stato sorpreso in possesso di una pistola con matricola punzonata ed il colpo
in canna, così come il Murina, in passato, era stato condannato per reati relativi

un componente essendo idoneo a corroborare il convincimento del carattere
armato della cosca, già storicamente armata.
Il ricorrente contesta il ragionamento svolto dalla Corte territoriale in
particolare stigmatizzando il fatto che non avrebbe potuto valorizzarsi al fine
indicato la detenzione da parte di Giovanni Tegano della pistola rinvenuta
al/momento del suo arresto, essendo un argomento che riconduceva in termini
assolutamente congetturali ed apodittici alla disponibilità dell’arma all’intero
sodalizio.
L’obiezione però è stata efficacemente confutata dalla Corte di appello la
quale ha valutato unitariamente gli accertamenti del carattere armato della cosca
Tegano contenuti nelle precedenti sentenze, quelli relativi alla personale
disponibilità di armi da parte del Murina ed il riscontro di notevole spessore
costituito dal possesso dell’arma, con il colpo in canna, da parte del capoclan
Giovanni Tegano al momento della sua cattura nel 2010.
Neanche tale ultima argomentazione è passibile di critica fondata, essendo
principio già assodato quello secondo cui, in tema di reati di criminalità
organizzata, la prova della disponibilità di armi da parte di un solo appartenente
ad un sodalizio mafioso è idonea a fornire dimostrazione della sussistenza della
circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis, quarto comma, cod. pen. nei
confronti degli altri soggetti che partecipano alla consorteria, in quanto la
dotazione di strumenti di offesa è connaturata al perseguimento degli scopi di un
sodalizio di tipo mafioso ed è quindi ragionevole presumere la conoscenza di tale
disponibilità anche in capo agli altri associati (arg. ex Sez. 6, n. 36198 del
03/07/2014, Ancora, Rv. 260272; Sez. 5, n. 18837 del 05/11/2013, dep. 2014,
Corso, Rv. 260919; Sez. 6, n. 11194 del 08/03/2012, Lupo, Rv. 252177).
Tale conclusione trova conforto poi nell’esperienza storica e giudiziaria che
consentono di ritenere il carattere armato di detta organizzazione criminale,
tenendo conto del fatto che la norma richiede la semplice disponibilità di armi da
parte dell’associazione, e non necessariamente l’effettiva utilizzazione delle
stesse.

22

alla detenzione ed al porto abusivo di armi, anche il possesso di armi da parte di

Nella chiave analizzata, non appare fuori luogo lo stesso dato di fatto della
pregressa disponibilità di armi da parte della stessa cosca, come accertato dai
titoli giudiziari indicati, trattandosi di elemento suscettibile di valutazione per il
tempo successivo, al pari del pure accertato possesso di armi da parte dello
stesso Murina.
In prospettiva più generale, per l’aspetto valutativo dei fatti acclarati in
contesti giudiziari pregressi, merita di essere richiamato e condiviso il principio
secondo cui, sempre in riferimento ad associazione per delinquere di stampo

ne bis in idem

quando la

partecipazione all’associazione venga desunta anche dalla commissione di altro
reato per il quale sia già intervenuta condanna definitiva, poiché l’inammissibilità
di un secondo giudizio impedisce al giudice di procedere contro lo stesso
imputato per il medesimo fatto, già giudicato con sentenza irrevocabile, ma non
gli preclude di prendere in esame lo stesso fatto storico e di valutarlo
liberamente ai fini della prova di un diverso reato (Sez. 2, n. 26725 del
01/03/2013, Natale, Rv. 256724; Sez. 2, n. 6482 del 13/01/2011, Buonincontri,
Rv. 249467).

4. In ordine al terzo motivo dell’impugnazione del Murina, la doglianza relativa alla contestazione dell’avvenuta applicazione della continuazione fra i
reati associativi ascritti all’imputato con riguardo a periodi di tempo antecedenti
e quello ascrittogli in questa sede, per la sua partecipazione alla cosca Tegano
dal 20 gennaio 1999 al 30 ottobre 2010, con la previsione del relativo aumento si risolve, nella sostanza, nel dedurre la permanenza dell’appartenenza del
Murina al contesto associativo oggetto degli accertamenti giudiziari pregressi e,
in definitiva, nell’addurre il ne bis in idem per quanto concerne la condotta
criminosa susseguente a quegli accertamenti.
Questa prospettazione, oltre a non essere stata formulata nei citati termini
nel giudizio di appello, cozza inevitabilmente con le conclusioni raggiunte, sulla
scorta di adeguata motivazione, dai giudici di merito che hanno ritenuto che
l’imputato ha perpetrato un delitto autonomo – ed inerente a tempo successivo
alla consumazione dei precedenti reati associativi – con la partecipazione alla
cosca Tegano, dal 20 gennaio 1999 in poi.
Assodato tale dato di fatto, essi hanno considerato sussistente l’identità del
disegno criminoso alla base di tale reato e dei precedenti reati associativi
(avendo così ravvisato il vincolo della continuazione tra i reati associativi; il ché,
in via generale, si ritiene possibile soltanto a seguito di una specifica indagine
sulla natura dei vari sodalizi, sulla loro concreta operatività e sulla loro continuità
nel tempo, avuto riguardo ai profili della contiguità temporale, dei programmi

23

mafioso, non può invocarsi il principio del

operativi perseguiti e del tipo di compagine che concorre alla loro formazione,
non essendo a tal fine sufficiente la valutazione della natura permanente del
reato associativo e dell’omogeneità del titolo di reato e delle condotte criminose:
cfr. Sez. 4, n. 3337 del 22/12/2016, dep. 2017, Napolitano, Rv. 268786).
Non sussistendo spazio concreto per qualsivoglia contestazione basata sul

ne bis in idem, il ricorrente non può fondatamente dedurre come indebita
l’applicazione della disciplina (di favore per la sua posizione) del reato
continuato.
Infine, le altre censure che, nell’ambito dei motivi finora scrutinati, hanno
preso in esame gli aspetti della ricostruzione in fatto compiuta dalla Corte
territoriale non possono ricevere ammissibile vaglio in questa sede, a fronte
dell’adeguata analisi del compendio probatorio e della coerenza

dell’iter logico

che caratterizza la motivazione della sentenza impugnata.

5. Per ciò che concerne l’impugnazione proposta dal Morabito, quanto al
primo motivo, si rileva che la sentenza impugnata ha esaurientemente e senza
crepe logiche esaminato tutti gli argomenti, già dedotti con l’appello
dall’imputato, fornendo risposte congrue e coerenti.
In particolare, la Corte di merito ha evidenziato che risultava del tutto in
contrasto con le emergenze processuali la ricostruzione prospettata dalla difesa
circa il fatto che l’imputato avrebbe ospitato il Tegano solo per un’ora
ignorandone l’identità e la condizione, trattandosi di ricostruzione del tutto
inverosimile – la quale presupponeva che il Siciliano e il Polimeni, pur
consapevoli di essere monitorati alle Forze dell’ordine, avessero organizzato
l’incontro a casa di un soggetto sconosciuto a tutti, se non al Siciliano, senza
metterlo al corrente di nulla – e clamorosamente smentita dagli operanti, oltre
che contraddetta dalle dichiarazioni degli altri interessati, e resa vieppiù
inverosimile dalla configurazione dei luoghi, con particolare riguardo all’impianto
di videosorveglianza di cui era dotato (in modo significativamente occulto)
l’immobile.
E’ stato, su quest’ultimo punto, evidenziato che l’installazione dell’impianto,
spiegata in modo incongruo dallo stesso Morabito (che aveva fornito
giustificazioni scarsamente sensate e del tutto insoddisfacenti), si era, all’esito
della verifica da parte degli inquirenti (atteso che le videocamere erano
abilmente occultate e quindi non allestite a fini dissuasivi), palesata come
finalizzata a preservare la permanenza del latitante mentre questi si trovava
nell’abitazione dell’imputato, essendosi, a conforto, rilevato che, al momento
dell’intervento, nell’impianto non era in funzione la registrazione, mentre era in
piena efficienza il sistema di ripresa diretta dell’esterno dell’edificio.

24

In definitiva, il compendio delle risultanze istruttorie analizzate rende del
tutto giustificata e consequenziale la conclusione che il Morabito, il quale era il
soggetto che aveva la diretta disponibilità degli immobili, aveva
consapevolmente aderito all’utilizzazione di quella casa da parte del latitante
Giovanni Tegano affinché vi trovasse rifugio e vi organizzasse anche incontri di
rilievo per la gestione della cosca da lui capeggiata.
I giudici di appello hanno adeguatamente risposto anche sulla questione
inerente alla dedotta assenza di dimostrati contatti antecedenti tra il Morabito e

Tegano nel gestire la sua condizione di latitante, il collaboratore Moio aveva
segnalato come i Morabito fossero stati sempre vicino ai Tegano schierandosi con
loro durante la guerra di mafia.
A ragione, poi, sono state ritenute prive di rilevante significato le condizioni
di salute dell’imputato, da poco dimesso dall’ospedale, e di suo padre, che
sarebbe morto dopo pochi giorni, poiché tali circostanze, da valutarsi nel quadro
dell’organizzazione certo non improvvisabile della latitanza di un capoclan
ricercato da tempo, non costituiscono elementi, neppure sul piano logico, idonei
a confutare l’accusa.
Quanto poi agli indumenti ritrovati nei locali ove era stato sorpreso il
Tegano, attesa la loro allocazione, i giudici di merito hanno valutato che essi
erano ragionevolmente riconducibili al latitante ed, in ogni caso, anche a voler
depurare questo elemento per la mancanza di accertamenti sul punto, hanno
ritenuto che il restante quadro di elementi acquisiti, come sopra richiamato,
fornisse comunque la certezza che il Morabito aveva ospitato per un tempo
certamente non irrilevante il latitante e gli aveva consentito anche di incontrarsi
con appartenenti alla cosca da lui capeggiata, così integrando il delitto di cui
all’art. 390 cod. pen.
Le ragioni giustificative della condanna del Morabito appaiono, quindi,
sostenute in modo adeguato dal discorso argomentativo reso dalla sentenza
impugnata, la quale ha proceduto ad una valutazione analitica e completa degli
elementi posti a carico del Morabito, saggiando con congrue considerazioni la
fondatezza dell’impianto probatorio.
L’iter motivazionale offerto dalla Corte di appello sui ricordati aspetti di
decisiva importanza non risulta posto in crisi dalle prospettazioni del ricorrente,
le quali, una volta puntualizzati gli snodi sopra indicati, paiono esaurirsi, nel
resto, in una diversa lettura delle risultanze investigative, inidonea, quando
(come è nel caso di specie) si riferisca ad una motivazione congrua e coerente, a
veicolare censure ammissibili in questa sede.

25

le altre persone sorprese nella sua casa, ricordando che, a parte la prudenza del

6. Quanto al secondo motivo del ricorso proposto dal Morabito, contestativo
della sussistenza della circostanza aggravante ex art. 7 d.l. n. 152 del 1991, la
doglianza, incentrata su elementi dedotti come dimostrativi dell’estraneità
dell’imputato sia al clan Tegano, sia a contesti criminali, associati e non, finisce
per non affrontare il punto logico-giuridico valorizzato dalla motivazione resa
dalla Corte territoriale lì dove ha ritenuto raggiunta la prova piena anche della
suddetta aggravante,

sub specie

di agevolazione dell’attività della cosca

capeggiata dal latitante che la consumazione del delitto di cui all’art. 390 cod.

I giudici di merito, infatti, hanno evidenziato il ruolo apicale del Tegano nella
cosca di riferimento (ruolo la cui evenienza non è stata in alcun modo
contrastata dal ricorrente): il fatto di proteggerne la latitanza e, così, procurargli
l’inosservanza dell’esecuzione della pena a lui irrogata, riferito ad un esponente
notoriamente di primissimo piano della consorteria criminale – ossia di soggetto
dalle cui determinazioni e, quindi, dall’estrinsecazione della cui libertà di
movimento, di azione e contatto con i sodali dipendono in modo evidente la
direzione, la gestione e, in definitiva, la stessa continuità operativa
dell’organizzazione – determina come ineludibile effetto l’integrazione di una
condotta obiettivamente agevolatrice dell’attività del clan.
Il rilievo che la condotta in concreto verificata sia consistita nell’essersi
l’imputato attivato per la tutela di quell’esponente apicale mediante la messa a
disposizione sua e dei sodali a suo più immediato contatto di un immobile ove lo
stesso si trovava nascosto ed incontrava i complici più fidati (immobile dotato
degli opportuni presidi di sorveglianza e ritenuto dal Tegano nascondiglio
affidabile), è stato, poi, congruamente valutato dai giudici di merito alla stregua
di indicatore univoco della consapevolezza dell’imputato della succitata finalità
agevolatrice del clan.
E’ stato, in tale prospettiva, logicamente corretto ritenere rilevante nella
ricognizione delle connotazioni del reato ascritto all’imputato l’elemento
concretato dal fatto che il Morabito aveva consentito al capomafia anche di
tenere importanti contatti con gli altri esponenti della cosca nella sua abitazione,
sicché il reato di cui all’art. 390 cod. pen. è stato perpetrato in senso
oggettivamente e soggettivamente funzionale all’agevolazione dell’attività posta
in essere dall’organizzazione criminale.
Il ragionamento sviluppato dai giudici di merito, dunque, si inserisce in
modo coerente nel già sedimentato alveo interpretativo, che va di certo
condiviso, secondo cui, in tema di procurata inosservanza di pena, per la
configurabilità della circostanza aggravante prevista dall’art. 7 d.l. n. 152 del
1991, è necessario – quale che sia la posizione associativa del favorito – che la

26

pen. ha determinato.

condotta valga oggettivamente, oltre che a favorire il soggetto beneficiato
direttamente dalla condotta protettiva dell’agente, (net anche ad agevolare
l’attività dell’associazione mafiosa di riferimento e che di tale obiettiva
funzionalità l’agente sia consapevole (cfr.. Sez. 2, n. 4386 del 27/01/2015,
Belcastro, Rv. 262380; arg. in modo corrispondente ex Sez. 2, n. 37762 del
12/05/2016, Viglianisi, Rv. 268237, la quale ha condivisibilmente affermato, in
ordine a fattispecie relativa a favoreggiamento personale, la configurabilità
dell’aggravante in questione nella condotta di chi consapevolmente aiuti il

aiuto all’associazione – la cui operatività sarebbe compromessa dall’arresto del
vertice associativo, cui l’ausilio prestato consente di svolgere il proprio ruolo
dirigenziale – e determina un rafforzamento del potere non solo del capo mafia
ma anche dell’intero sodalizio criminale).
Resta, dunque, indiscusso che l’integrazione della circostanza aggravante in
parola esige che la condotta di agevolazione sia finalizzata a far sì che
l’associazione mafiosa nel suo insieme tragga beneficio dall’attività svolta, non
essendo sufficiente che serva i soli interessi dei singoli associati, pur se collocati
ai vertici del sodalizio criminale (così, con riferimento ad altro ambito, Sez. 5, n.
28648 del 17/03/2016, Zindato, Rv. 267300). Tuttavia, quando si determini la
coincidenza tra interessi del capo, beneficiario della condotta, e quelli
dell’associazione, l’attività compiuta in favore dell’esponente di vertice
dell’associazione di tipo mafioso si traduce in un ausilio al sodalizio criminale nel
suo complesso, così da integrare la circostanza aggravante in parola (arg. pure
ex Sez. 5, n. 36842 del 10/06/2016, Arecchi, Rv. 268018).
La situazione accertata, con motivazione esaustiva e senza lacune di ordine
logico, dalla Corte di appello ha fatto emergere la chiara coincidenza tra interessi
del Tegano ed interessi della cosca da lui comandata nel preservare, con
l’accertato contributo del Morabito, la procurata inosservanza di pena, conseguita
dal suddetto soggetto attraverso la poliennale latitanza di cui aveva goduto e
stava godendo.
A fronte di questa accertata situazione di fatto la Corte di merito ha,
pertanto, confermato l’evenienza della circostanza aggravante in modo
incensurabile, irrilevante restando rispetto al nucleo decisivo del thema il corteo
di elementi di fatto (quali, fra gli altri, la sua estraneità alla criminalità
organizzata, il pregresso ricovero in ospedale, il decesso del padre, dopo pochi
giorni dall’accertamento del reato) addotti dal Morabito già in sede di appello,
adeguatamente confutati dalla sentenza impugnata e dal ricorrente riproposti in
questa sede, però in senso puramente rotatorio, con la prospettazione di un
inquadramento di fatto già disatteso dai giudici del gravame con ragionamento

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capoclan a sottrarsi alle ricerche dell’autorità, in quanto essa si concretizza in un

adeguato e logico.

7. In ordine alla doglianza, contenuta nel terzo motivo, inerente
all’eccessività della pena lamentata dal Morabito, occorre innanzi tutto ribadire
che la Corte di appello, a fronte della condanna alla pena di anni cinque, mesi sei
di reclusione, irrogata all’imputato dal Tribunale, ha ridotto tale sanzione
rideterminando la pena della reclusione in quella di anni quattro, mesi otto di
reclusione.

della gravità del fatto e degli elementi connotanti la personalità del Morabito,
fosse equo muovere da una pena base di anni tre, mesi sei di reclusione, a cui
hanno apportato l’aumento di anni uno, mesi due di reclusione, in relazione alla
ritenuta aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, con conseguente
sostituzione della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici
a quella perpetua.
La doglianza svolta dal ricorrente in merito a tale trattamento sanzionatorio,
censurato come sproporzionato per eccesso a quella che era l’effettiva
personalità del Morabito, non tiene conto del riferimento operato dai giudici di
appello, che pure hanno ridotto la sanzione penale irrogata, ai parametri della
gravità del reato, senza dubbio allarmante, e della personalità dell’autore di
esso.
Non poteva, invero, la Corte territoriale, obliterare che l’imputato non aveva
esitato a mettere a disposizione il proprio immobile per garantire l’impunità
dell’indicato capomafia, contribuendo anche ad organizzare un dettagliato
sistema di vigilanza (come risulta dalle diffuse notazioni svolte sull’argomento
dai giudici di merito, con particolare riguardo alla significativa dislocazione
all’esterno di Vincenzo Serafino, cognato dell’imputato, sia al concorso di altri
soggetti e del sistema di telecamere per sorvegliare la zona), mentre il Tegano si
tratteneva ed operava all’interno dell’abitazione, armato di pistola con il colpo in
canna: e ciò aveva determinato una situazione di sicura e protetta prosecuzione
della latitanza di Giovanni Tegano che poteva così continuare a mantenere i
legami con la cosca ed a governarne le azioni.
Posto ciò e ribadito che, in tema di determinazione della pena, quanto più il
giudice si determini a discostarsi dal minimo edittale, tanto più ha il dovere di
dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale, indicando
specificamente, fra i criteri oggettivi e soggettivi enunciati dall’art. 133 cod.
pen., quelli ritenuti rilevanti ai fini di tale giudizio (cfr. Sez. 3, n. 24577 del
25/01/2017, Di Lanno, n. m.; Sez. 1, n. 24213 del 13/03/2013, Pacchiarotti,
Rv. 255825), l’opzione effettuata dai giudici di appello, consistita nell’individuare,

I giudici di appello hanno ritenuto che, all’esito della congrua valutazione

in relazione alla descritta situazione ed agli indicati parametri estimativi, la pena
base in misura superiore a quella intermedia, ma distante dalla pena edittale
massima, e poi nell’applicare l’aumento ex art. 7 d.l. n. 152 del 1991 nella
misura, minima, di un terzo, integra l’esito della corrispondente valutazione di
merito, sufficientemente motivata e non illogica, come tale non censurabile in
sede di legittimità.

8. Corollario delle considerazioni svolte è il rigetto di entrambi i ricorsi.

pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 26 maggio 2017

Consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al

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