Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 52743 del 28/09/2017


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 52743 Anno 2017
Presidente: FUMO MAURIZIO
Relatore: SCOTTI UMBERTO LUIGI

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
AMBROSETTI GIULIO nato il 09/08/1958 a PALERMO

avverso la sentenza del 18/05/2016 del TRIBUNALE di PALERMO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere UMBERTO LUIGI SCOTTI
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale
PASQUALE FIMIANI che ha concluso per l’annullamento con rinvio
udito il difensore presente per il ricorrente, avv. Cristiana Donizetti, che ha
insistito per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 18/5/2016 il Tribunale di Palermo ha dichiarato Giulio
Ambrosetti responsabile del reato di cui agli artt.110 e 595, comma 3, cod.pen.
in danno di Giuseppe Colavecchio e, concessegli le attenuanti generiche, ritenute
equivalenti alla contestata recidiva, lo ha condannato alla pena di C 800,00= di
multa, oltre alle spese processuali, ordinando la sospensione della pena per anni
cinque, subordinata alla prestazione di attività non retribuita presso l’Opera Pia
Telesino per giorni 60, nonché al risarcimento dei danni in favore della parte
civile costituita, liquidati in C 15.000,00= e alla refusione delle spese di
costituzione.

Data Udienza: 28/09/2017

Giulio Ambrosetti era accusato di aver pubblicato, in concorso con l’autore
rimasto ignoto, sul giornale diffuso on line «Link Sicilia», di cui era direttore, un
articolo offensivo e denigratorio della reputazione di Giuseppe Colavecchio,
consigliere della Corte dei Conti di Palermo, dal titolo «Banca Dati Regione, 5
mln euro in fumo», riferendosi alla sentenza n.2881/11 della quale il Consigliere
Colavecchio era stato relatore ed estensore, stigmatizzando condotte negligenti,
omissive e parziali, mediante affermazioni allusive e asserzioni non riscontrate

2. Ha proposto ricorso ex art.569 e 606 cod.proc.pen.

nell’interesse

dell’imputato il difensore di fiducia, avv.Stefano Giordano del Foro di Palermo,
avverso la sentenza del 18/5/2016, nonché avverso la precedente ordinanza del
17/12/2014 con cui era stata respinta la proposta eccezione di nullità del
decreto di citazione a giudizio

ex art.552, comma 1, lett.c), cod.proc.pen.,

svolgendo sei motivi.
2.1. Con il primo motivo, proposto

ex

art.606, comma 1, lett.b),

cod.proc.pen., il ricorrente denuncia violazione della legge penale con riferimento
agli artt.110 e 595 cod.pen., nonché all’art.27, comma 1, Cost. in relazione
all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato.
Mancava qualsiasi elemento per ritenere che l’Ambrosetti, direttore della
pubblicazione

on line, avesse dato il proprio consenso o la propria meditata

adesione al contenuto dello scritto, tanto più che l’articolo era stato pubblicato
proprio il primo giorno di uscita della rivista; inoltre non era stato illustrato il
tema

dell’animus

attribuito a titolo di concorso all’Ambrosetti, neppur

specificando la sua natura morale o materiale.
Il Tribunale, pur ritenendo inapplicabile al direttore di periodico on line la
responsabilità colposa per omesso controllo ex art.57 cod.pen., era andato oltre
il portato di tale norma, finendo con l’attribuire all’Ambrosetti una vera e propria
responsabilità oggettiva in relazione al reato contestato.
2.2. Con il secondo motivo, proposto

ex

art.606, comma 1,1ett.c),

cod.proc.pen. il ricorrente denuncia violazione dell’art.192 cod.proc.pen. in
relazione all’affermazione della penale responsabilità, essendosi il Tribunale
basato solo su petizioni di principio totalmente avulse da qualsiasi fondamento
probatorio.
2.3. Con il terzo motivo, proposto

ex

art.606, comma 1,1ett.b),

cod.proc.pen. il ricorrente denuncia violazione della legge penale con riferimento
agli artt.51 e 59 cod.pen. in relazione all’esercizio, perlomeno putativo, del
diritto di cronaca.

2

negli atti.

A fronte del richiamo effettuato dall’articolista a precise fonti informative
(documenti acquisiti dalla Guardia di Finanza e puntuale relazione del P.M.), il
direttore era esonerato dal controllare, ulteriormente e personalmente, le fonti
richiamate, rinnovando la fatica dell’articolista.
2.4. Con il quarto motivo, proposto

ex art.606, comma 1, lett.

c),

cod.proc.pen. il ricorrente denuncia violazione della legge processuale in ragione
dell’erroneo rigetto della proposta eccezione di nullità del decreto di citazione a
giudizio, disposto con ordinanza del 17/12/2014.

esige una informazione dettagliata e precisa della natura e dei motivi dell’accusa
formulata, mentre il capo di imputazione, riportando il contenuto dell’intero
articolo, non specificava le affermazioni concretamente lesive dell’onore e della
reputazione della persona offesa; ne conseguivano genericità e
indeterminazione, lesive del diritto di difesa.
2.5. Con il quinto motivo, proposto

ex art.606, comma 1, lett.

b),

cod.proc.pen. il ricorrente denuncia violazione della legge penale e in particolare
degli artt.135 e 165, comma 1, cod.pen. in relazione alla subordinazione della
sospensione condizionale della pena. La sospensione poteva infatti essere
condizionata alla prestazione di attività non retribuita, ma solo per un tempo non
superiore all’entità della pena sospesa, mentre la pena pecuniaria di C 800, se
debitamente ragguagliata, equivaleva a poco più di tre giorni di pena detentiva.
Il ricorrente opina quindi che il Tribunale sia incorso in clamoroso abbaglio
commisurando la durata della prestazione non retribuita alla conversione
dell’entità della somma liquidata a titolo risarcitorio.
2.6. Con il sesto motivo, proposto ex

art.606, comma 1, lett.b) e c),

cod.proc.pen. il ricorrente denuncia violazione della legge penale sostanziale e
processuale con riferimento agli artt.2697, 2056, 1226 cod.civ. e 192
cod.proc.pen. in relazione alla liquidazione del danno alla parte civile.
Il danno non poteva essere accertato e liquidato

in re ipsa,

ma

presupponeva l’assolvimento da parte del richiedente degli oneri di deduzione e
prova in riferimento al pregiudizio patito; la parte civile nulla aveva allegato e
provato e la liquidazione equitativa presupponeva a priori la prova dell’esistenza
ontologica di un danno, rimasto invece indimostrato nell’an.

3. La parte civile, dott.Giuseppe Colavecchio, a mezzo del difensore e
procuratore speciale avv.Massimo Tricorni, ha depositato il 7/6/2017 una
memoria difensiva, chiedendo il rigetto del ricorso, analiticamente contestato in
tutti i suoi sei motivi, con rifusione delle spese come da notula allegata.

3

L’art.552, comma 1, cod.proc.pen., come del resto l’art.6, comma 3, CEDU,

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.

Il ricorso è proposto

per saltum

ai sensi degli artt.569 e 606

cod.proc.pen.: non sono quindi consentite censure inerenti a vizi motivazionali,
in forza del comma 3 dell’art.569 cod.proc.pen. e del resto il ricorrente deduce
con

i propri motivi solamente violazioni della legge penale sostanziale o

processuale.

con riferimento agli artt.110 e 595 cod.pen., nonché all’art.27, comma 1, Cost.,
in relazione all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato.
Secondo il ricorrente mancava qualsiasi elemento per ritenere che Giulio
Ambrosetti, direttore della pubblicazione

on line, avesse dato il proprio consenso

o la propria meditata adesione al contenuto dello scritto, tanto più che l’articolo
era stato pubblicato proprio il primo giorno di uscita della rivista; inoltre non era
stato illustrato adeguatamente il tema dell’animus

attribuito a titolo di

concorso all’Ambrosetti, poiché il Tribunale non aveva neppur specificato la sua
natura morale o materiale.
Il Tribunale, pur ritenendo inapplicabile al direttore di periodico on line la
responsabilità colposa per omesso controllo ex art.57 cod.pen., sarebbe andato
addirittura oltre la severa responsabilità sancita da tale norma, finendo con
l’attribuire all’Ambrosetti una vera e propria responsabilità oggettiva in relazione
al reato contestato.
2.1. Il motivo non coglie il segno, poichè non si confronta con la struttura
portante dell’apparato logico motivazionale della pronuncia impugnata, il cui
fulcro, non sfiorato dalla critica proposta, è costituito dalla natura anonima dello
scritto diffamatorio, pubblicato con attribuzione allo pseudonimo Fiorentino
Arriza, mai disvelato.
Non viene quindi in rilievo la responsabilità del direttore per il reato di
omesso controllo,

ex

art. 57 cod. pen., sistematicamente esclusa dalla

giurisprudenza di questa Corte, orientata in tal senso per la non riconducibilità
dell’attività on-line nel concetto di stampa periodica

ex

art.1 legge 8/2/1948

n.47, nonché, eventualmente, anche per l’impossibilità per il direttore della
testata on-line di impedire le pubblicazioni di contenuti diffamatori «postati»
direttamente dall’utenza (Sez. 5, n. 10594 del 05/11/2013 – dep. 2014,
Montanari e altri, Rv. 259888; Sez. 5, n. 44126 del 28/10/2011, Hamaui ed
altro, Rv. 251132; Sez. 5, n. 35511 del 16/07/2010, Brambilla, Rv. 248507).
Il Tribunale ha invece fondato la responsabilità del direttore Ambrosetti
sulla circostanza della pubblicazione dell’articolo in forma anonima, poiché

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2. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione della legge penale

l’autore dell’articolo ritenuto diffamatorio (con valutazione in questa sede neppur
contestata sotto il profilo oggettivo) si era celato sotto lo pseudonimo «Fiorentino
Arriza» (protagonista de «L’amore ai tempi del colera» di Gabriel Garcia
Marques) ed ha al proposito affermato che l’articolo non firmato, in assenza di
diverse allegazioni, deve considerarsi di produzione redazionale ed è quindi
riferibile al direttore della redazione, nella specie coincidente con il direttore
responsabile del mensile.
2.2. Il direttore del periodico è stato chiamato quindi a rispondere dello

responsabilità concursuale.
Tale responsabilità appare configurabile allorché, sulla base di un complesso
di circostanze esteriori, consti il consenso e la meditata adesione del direttore al
contenuto dello scritto che egli è tenuto a controllare, tanto più allorché la
pubblicazione avvenga in forma anonima o con il ricorso a pseudonimi, e quindi
con artifici oggettivamente idonei a permettere all’autore di sottrarsi alle
conseguenze della propria condotta di carattere diffamatorio.
2.3. L’art.9 del codice civile tutela lo pseudonimo come segno identificativo
della personalità dell’individuo, al pari del nome della persona, a patto che ne
abbia acquisito la medesima importanza.
La disciplina civilistica, contenuta soprattutto nella legge sul diritto d’autore
(legge 22/4/1941 n.633 e successive modifiche e integrazioni), considera la
possibilità che l’opera sia pubblicata in forma anonima o con l’utilizzo di
pseudonimi, distinguendo l’ipotesi dello pseudonimo o nome d’arte notoriamente
conosciuto come equivalente al nome vero (art.8, comma 2) da quella dello
pseudonimo incognito, equivalente all’anonimo (art.9 e 21,27,28), e comunque
riconoscendo all’autore effettivo la titolarità del diritto e la facoltà imprescrittibile
di rivelarsi.
La disciplina civilistica non considera il profilo della responsabilità connessa
alla pubblicazione, che va quindi ricostruita secondo le regole generali, e tuttavia
reca una suggestiva traccia interpretativa, allorché nell’art.9 predetto, quanto
agli pseudonimi anonimizzanti, attribuisce a colui che abbia rappresentato,
eseguito o comunque pubblicato un’opera anonima o pseudonima, la
legittimazione a far valere i diritti dell’autore, finché questi non si sia rivelato,
quale mandatario

ex lege,

e così ascrivendo un ruolo pregnante al soggetto

conosciuto, resosi autore della pubblicazione.
2.4. E’ su tali presupposti che questa Corte, chiamata a valutare l’uso dello
pseudonimo sotto il diverso profilo della responsabilità conseguente alla
pubblicazione dell’opera, ha affermato che la sostituzione nominativa attuata
con il ricorso allo pseudonimo (priva, di regola, di diretta rilevanza penale) la

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scritto diffamatorio, pur predisposto da altri, sulla base del diverso titolo di

può acquisire, nella diffamazione a mezzo stampa, nei confronti della posizione
del direttore responsabile, del direttore editoriale e dell’editore, ove l’alias sia
utilizzato dall’autore per sottrarsi alla negative conseguenze della ideazione e
diffusione di fatti non veri e delle correlate valutazioni, ingiustificatamente
offensive.
La pubblicazione di un articolo senza nome, e quindi senza l’indicazione della
persona che si assume professionalmente la responsabilità delle notizie e delle
valutazioni in esso contenute, comporta l’attribuzione dell’articolo al direttore

diffamatorio.
E’ stato pertanto condivisibilmente osservato che la configurazione del
reato ex artt. 110 e 595 c.p., e non del reato ex art. 57 c.p., corrisponde alla
razionale esigenza di non creare – in sede interpretativa – una sorta di zona
franca e l’abrogazione di fatto dell’art. 595 c.p., nella fattispecie della
diffamazione commessa con nom de piume.
Tale orientamento interpretativo è pienamente conforme non solo ai principi
costituzionali e alla normativa penalistica, ma anche alla specifica disciplina
legislativa e contrattuale secondo cui il direttore responsabile – trait d’union fra
redazione ed editore – ha il diritto di guidare la redazione, in tutta autonomia
rispetto all’editore, e ha la facoltà di operare tagli, modifiche, integrazioni sul
testo scritto del giornalista, salvo il diritto di quest’ultimo di non firmare l’articolo
se non condivide le modifiche apportate.
Di conseguenza, il direttore di un periodico risponde del reato di
diffamazione – e non di quello meno grave di omesso controllo previsto dall’art.
57 c.p. – per la pubblicazione di un articolo lesivo dell’onore e della reputazione
altrui, l’identità del cui autore è rimasta celata dietro lo pseudonimo utilizzato
per firmarlo, qualora da un complesso di circostanze esteriorizzate nella
pubblicazione del testo (come la forma, l’evidenza, la collocazione tipografica, i
titoli, le illustrazioni e la correlazione dello scritto con il contesto culturale che
impegna e caratterizza l’edizione su cui compare l’articolo) possa dedursi il suo
meditato consenso alla pubblicazione dell’articolo medesimo nella consapevole
adesione al suo contenuto, tanto da far ritenere per l’appunto che la suddetta
pubblicazione rappresenti il frutto di una scelta redazionale (Sez. 5, n. 41249 del
26/09/2012, S. e altro, Rv. 253752).
Analogamente è stato affermato che «In tema di diffamazione a mezzo
stampa, è legittima la decisione con cui il giudice di merito dichiari responsabile
di diffamazione il direttore di un mensile a tiratura limitata ed esclusivamente
locale, in ordine alla pubblicazione di un articolo non firmato, in quanto, in
assenza di diversa allegazione, esso deve considerarsi di produzione redazionale,

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responsabile, per la sua consapevole condotta volta a diffondere lo scritto

riferibile al direttore redazionale, nella specie, investito anche della funzione di
direttore responsabile del mensile.» (Sez. 5, n. 43084 del 10/10/2008, Rv.
242598, Monaco e altro; nella citata pronuncia, significativamente, si attribuisce
in tale prospettiva rilievo dirimente al possesso da parte dell’imputato della
qualità di direttore redazionale e non solo di direttore responsabile della
pubblicazione, così motivando la diversa soluzione accolta rispetto alla
precedente sentenza della Sez. 5, n. 29410 del 09/05/2007, Rinaldi Tufi, che,
riferendosi invece al direttore di un settimanale nazionale a larghissima tiratura,

Non sussiste alcuna incertezza sul titolo della responsabilità concorsuale,
inequivocabilmente fondata sul concorso materiale nella pubblicazione
dell’articolo, avvenuta in forma sostanzialmente anonima, per una precisa
scelta redazionale avallata consapevolmente dal direttore.
Non può essere accolta infine la richiesta della Procura generale, che , senza
contestare in linea di diritto i principi giuridici sopra ricordati e applicati dal
Tribunale palermitano, ravvisa inadeguatezza della motivazione in punto
adesione del direttore al contenuto dell’articolo, da valutarsi in concreto in
relazione al contesto operativo e allo “spessore” della comunicazione censurata:
da un lato, e in via di per sé assorbente, l’impugnazione è stata proposta
saltum

per

per denunciare violazione di legge e non vizio motivazionale, dall’altro

dall’esame complessivo della motivazione della sentenza impugnata emergono
significativi elementi che colorano e qualificano la condotta del direttore
Ambrosetti (si trattava della prima uscita della pubblicazione; l’autore
dell’articolo si proteggeva dietro ad uno pseudonimo; lo scritto attaccava
pesantemente, accusandolo di faziosa partigianeria e di grave scorrettezza
professionale, un magistrato della Corte dei Conti nell’esercizio delle sue
funzioni; le fonti, citate nell’articolo, da cui era stata erroneamente la notizia
diffamatoria erano agevolmente controllabili).

3. Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia violazione della legge
processuale penale e in particolare dell’art.192 cod.proc.pen. in relazione
all’affermazione della penale responsabilità, rimproverando
essersi

al Tribunale di

basato solo su petizioni di principio totalmente avulse da qualsiasi

fondamento probatorio.
La doglianza è assolutamente generica e, sotto il sembiante di una censura
attinente ad un preteso error in procedendo,

si risolve in una recriminazione,

comunque del tutto a-specifica, diretta contro l’apparato motivazionale della
sentenza impugnata, non consentita in caso di ricorso immediato in Cassazione.

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non consentiva l’operare di analoga presunzione).

E’ infatti inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che censura
l’erronea applicazione dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. se è fondato su
argomentazioni che si pongono in confronto diretto con il materiale probatorio, e
non, invece, sulla denuncia di uno dei vizi logici, tassativamente previsti dall’art.
606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., riguardanti la motivazione della
sentenza di merito in ordine alla ricostruzione del fatto. (Sez. 6, n. 13442 del
08/03/2016, De Angelis e altro, Rv. 266924; Sez. 6, n. 43963 del 30/09/2013,
P.C., Basile e altri, Rv. 258153).

per cassazione al fine di definirne l’ammissibilità per ragioni connesse alla
motivazione, esclude che tale norma possa essere dilatata per effetto delle
regole processuali concernenti la motivazione, attraverso l’utilizzazione del vizio
di violazione di legge di cui alla lettera c)- dello stesso articolo. E ciò, sia perché
la deducibilità per cassazione è ammessa solo per la violazione di norme
processuali stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o
decadenza, sia perché la puntuale indicazione di cui al punto e) ricollega ai limiti
in questo indicati ogni vizio motivazionale; sicché il concetto di mancanza di
motivazione non può essere utilizzato sino a ricomprendere ogni omissione od
errore che concernano l’analisi di determinati, specifici elementi probatori. (Sez.
1, n. 1088 del 26/11/1998 – dep. 1999, Condello e altri, Rv. 212248).

4. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione della legge penale
con riferimento agli artt.51 e 59 cod.pen. in relazione all’esercizio, perlomeno
putativo del diritto di cronaca.
4.1. In linea pregiudiziale occorre ricordare che, secondo la giurisprudenza
di questa Corte in tema di diffamazione a mezzo stampa, le esimenti del diritto
di critica e del diritto di cronaca, non possono essere invocate dall’autore di uno
scritto anonimo (o sotto pseudonimo, se resti non identificabile l’effettivo
autore), in quanto l’anonimato non consente di verificare la necessaria
correlazione tra l’esercizio d’un diritto ed il soggetto che di quel diritto è titolare.
(Cassazione civile, sez. VI, 10/10/2013, n. 23042).
4.2. Il ricorrente sostiene che a fronte del richiamo effettuato dall’articolista
a precise fonti informative (documenti acquisiti dalla Guardia di Finanza e
puntuale relazione del P.M.) il direttore sarebbe stato esonerato dal controllare,
ulteriormente e personalmente, le fonti richiamate, rinnovando la fatica
dell’articolista.
In ogni caso, anche a prescinder da quanto rilevato sub § 4.1., l’esclusione
della scriminante del diritto di cronaca è stata ampiamente motivata nella
sentenza impugnata sulla base del fatto che le circostanze esposte nell’articolo,

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La specificità dell’art. 606, lett. e) cod. proc. pen., dettato in tema di ricorso

oltretutto in modo allusivo e denigratorio, erano risultate totalmente prive di
fondamento, poiché il dott.Colavecchio aveva redatto la sentenza in questione
sulla base degli elementi contenuti nel fascicolo processuale a sua disposizione.
L’esimente a titolo putativo non può essere riconosciuta sia per il tono
dell’articolo, ritenuto dal Giudice del merito di per sé allusivo e insinuante, sia
soprattutto per il fatto che l’Ambrosetti riconosce di non aver esercitato alcun
controllo sul contenuto di un articolo recante. pesanti insinuazioni
comportamento professionale di un magistrato contabile, pubblicato

sul
sotto

trincerare sull’esistenza, solo genericamente indicata di fonti informative,
rivelatesi del tutto inconsistenti in rapporto alla notizia pubblicata e ai suoi
commenti.
L’esimente putativa del diritto di cronaca giudiziaria può essere invocata in
caso di affidamento del giornalista su quanto riferito dalle sue fonti informative,
non solo se egli abbia provveduto comunque a verificare i fatti narrati, ma abbia
altresì offerto la prova della cura posta negli accertamenti svolti per stabilire la
veridicità dei fatti (Sez. 5, n. 27106 del 09/04/2010, Ciolina, Rv. 248032).
Infatti, l’esimente putativa del diritto di cronaca giudiziaria non può essere
affermata in ragione del presunto elevato livello di attendibilità della fonte se il
giornalista non ha provveduto a sottoporre al dovuto controllo la notizia (Sez. 5,
n. 23695 del 05/03/2010, Brancato, Rv. 247524).
La scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca è configurabile
quando, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il cronista abbia
assolto l’onere di esaminare, controllare e verificare la notizia, in modo da
superare ogni dubbio, non essendo, a tal fine, sufficiente l’affidamento ritenuto
in buona fede sulla fonte. Specificamente in tema di cronaca giudiziaria è stata
affermata la liceità della diffusione della notizia di un provvedimento giudiziario,
ma non l’utilizzazione delle informazioni da esso desumibili per effettuare
ricostruzioni o ipotesi giornalistiche autonomamente offensive, giacché, in tal
caso, il giornalista deve assumersi direttamente l’onere di verificare le notizie e
non può certo esibire il provvedimento giudiziario quale unica fonte di
informazione e di legittimazione dei fatti riferiti (Sez. 5, n. 15643 del
11/03/2005, Scalfari ed altro, Rv. 232134).
4.3. Nella specie la notizia posta a fondamento dell’articolo era
obiettivamente falsa; il direttore che ha pubblicato la notizia, consentendo
all’autore di celarsi dietro lo pseudonimo, non ha dimostrato, né allegato di aver
effettuato alcuna verifica o controllo; non è dimostrato neppure che i controlli li
abbia eseguiti l’ignoto articolista, che mostra di basarsi su tutti i documenti
acquisiti dalla Guardia di Finanza, comunque indicati in modo sommamente

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pseudonimo, accettando il rischio di lederne la reputazione, non potendosi

generico, e sulla «puntuale relazione » del P.M. Gianluca Albo, atti che invece,
stando a quanto accertato dal giudice del merito e neppur contestato
specificamente dal ricorrente, non contenevano affatto quel nominativo del figlio
del Presidente Brancato, che, secondo l’ignoto articolista, il Consigliere
Colavecchio avrebbe maliziosamente omesso.
I controlli e le verifiche labilmente assunti, quindi, non sono stati eseguiti né
dal direttore Ambrosetti, né dall’ignoto «Fiorentino Arriza».

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia

violazione della legge

processuale in ragione dell’erroneo rigetto della proposta eccezione di nullità del
decreto di citazione a giudizio, disposto con ordinanza del 17/12/2014.
Secondo il ricorrente, l’art.552, comma 1, cod.proc.pen. e l’art.6, comma 3,
CEDU esigono una informazione dettagliata e precisa della natura e dei motivi
dell’accusa formulata, mentre il capo di imputazione, riportando il contenuto
dell’intero articolo, non specificava le affermazioni concretamente lesive
dell’onore e della reputazione della persona offesa; di qui genericità e
indeterminazione dell’imputazione, lesive del diritto di difesa.
La doglianza è manifestamente infondata: il capo di imputazione trascrive
buona parte dell’articolo ritenuto diffamatorio, riportando anche una serie di
affermazioni e notizie preliminari, utili a calare il lettore nel contesto dell’accusa,
non troppo velata, di partigiano favoritismo mossa al Consigliere Colavecchio per
aver volutamente «censurato» il nominativo del figlio di un presidente di sezione
della stessa Corte dei Conti dall’elenco dei soggetti formati e poi coinvolti nella
attività della banca dati interessata dalla vicenda.
La completezza (e semmai la parziale ridondanza, comunque del tutto
relativa) della contestazione non può risolversi in indeterminazione e genericità
dell’addebito, per di più pregiudizievole del diritto di difesa, non essendo per
nulla disagevole cogliere nel complesso dell’articolo trascritto i passaggi relativi
alla persona del consigliere Giuseppe Colavecchio, espressamente indicati come
lesivi della sua reputazione.

6. Con il quinto motivo il ricorrente denuncia violazione della legge penale e
in particolare degli artt.135 e 165, comma 1, cod.pen. in relazione al
provvedimento di subordinazione della sospensione condizionale della pena.
A suo dire, infatti, la sospensione avrebbe potuto essere condizionata alla
prestazione di attività non retribuita da parte dell’imputato, ma solo per un
tempo non superiore all’entità della pena sospesa, mentre la pena pecuniaria di
C 800,00=, debitamente ragguagliata

ex

più di tre giorni di pena detentiva.

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art.135 cod.pen., equivaleva a poco

5.

Il ricorrente congettura inoltre che il Tribunale sia incorso in clamoroso
abbaglio commisurando la durata della prestazione non retribuita alla
conversione dell’entità della somma liquidata a titolo risarcitorio.
La censura è infondata: il parametro di conversione di cui all’art.135
cod.pen. fra pene detentive e pene pecuniarie non viene in considerazione ai fini
dell’art.165 cod.pen., come modificato dall’art.2, comma 1, lett. a),

della legge

11/6/2004 n.145.
Vale infatti in proposito il disposto dell’art. 18 bis del r.d. 28/5/1931 n.601

inserito nel corpo del decreto dall’art.5 della stessa legge 145/2004, che impone
l’applicazione, ove compatibili, delle disposizioni di cui agli art.44,54, commi
2,3,4,6, e 59 del d.lgs. 28/8/2000 n.274.
La regola di cui al novellato art.165 cod.pen., secondo cui la prestazione
non retribuita non può aver durata superiore alla pena sospesa, vale solo per le
pene detentive e non già per le pene pecuniarie, per cui operano i parametri
quantitativi fissati dall’art.54 d.lgs.274/2000.
E’ quindi superfluo osservare che l’accoglimento dell’infondata tesi del
ricorrente porterebbe semplicemente a rendere inapplicabile la sospensione
condizionale in tutti i casi in cui la pena pecuniaria è inferiore ai 2.500 C (pari
alla conversione in 10 giorni di pena detentiva), visto il disposto del comma 2 del
citato art.54 d.lgs.274/2000 (per il quale il lavoro di pubblica utilità non può
essere inferiore a 10 giorni, né superiore a 6 mesi), e comunque a renderla
inapplicabile nel caso di specie, con il conseguente difetto di interesse ad
impugnare sul punto del ricorrente.

7. Con il sesto motivo il ricorrente denuncia violazione della legge penale
sostanziale e processuale con riferimento agli artt.2697,2056, 1226 cod.civ. e
192 cod.proc.pen. in relazione alla liquidazione del danno alla parte civile.
Il ricorrente puntualizza che il danno non avrebbe potuto essere accertato
e liquidato

in re ipsa e presupponeva l’assolvimento da parte del richiedente

degli oneri di deduzione e prova in riferimento al pregiudizio patito; la parte
civile nulla aveva allegato e provato e la liquidazione equitativa presupponeva a
priori la prova dell’esistenza ontologica di un danno, rimasto invece indimostrato
nell’an.
Il motivo è infondato.
Come ricorda la parte civile nella sua memoria difensiva, il dott.Colavecchio
non si era sottratto all’onere di allegazione del pregiudizio che gli incombeva,
prospettando sia l’immediata diffusione della notizia nel suo ambiente lavorativo
e professionale, sia l’impossibilità di ottenere una tempestiva rettifica in difetto di

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(recante Disposizioni di coordinamento e transitorie per il Codice penale),

indicazioni di qualsiasi genere sul sito ove era stato pubblicato l’articolo
incriminato.
Inoltre lo scritto diffamatorio era stato diffuso presso una serie
indeterminata di soggetti, stante la sua divulgazione via Internet.
La parte civile aveva infine allegato sia lo screditamento della persona
offesa, con l’accusa di parzialità e negligenza, sia la lesione della sua immagine
sociale e professionale.
A fronte di questi elementi, puntualmente dedotti dalla parte civile e

economici è stata effettuata legittimamente dal giudice, avvalendosi del potere di
liquidazione equitativa prevista dalla legge, per sua natura discrezionale,
insindacabile in sede di legittimità, per giunta con ricorso immediato per
violazione di legge.

8. Il ricorso va quindi respinto; ne consegue la condanna del ricorrente ai
sensi dell’art.616 cod.proc.pen. al pagamento delle spese del procedimento, oltre
al rimborso delle spese in favore della parte civile Giuseppe Colavecchio,
liquidate in complessivi C 1.800,00=, oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali, oltre al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile che liquida
in complessivi C 1.800,00=, oltre accessori come per legge.

Così deciso il 28/9/2017
,- –

comunque desumibili dagli atti, la quantificazione del pregiudizio in termini

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