Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 51230 del 20/10/2015


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 51230 Anno 2015
Presidente: SIOTTO MARIA CRISTINA
Relatore: ROCCHI GIACOMO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
NASSIRI DRISS N. IL 25/05/1989
avverso l’ordinanza n. 1894/2014 TRIBUNALE di MILANO, del
02/10/2014
lazione fatta dal Consigliere Dott. GIACOMO ROCCHI .
lette/s
sentita;ep
e tele conclusioni del PG Dott.

Q(1)-ecM C9-/WksJP.

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Uditi difen

Avv.;

19\f\fs

Data Udienza: 20/10/2015

RITENUTO IN FATTO

1. Con l’ordinanza indicata in epigrafe il Tribunale di Milano, in funzione di
giudice dell’esecuzione, accoglieva l’istanza proposta da Nassiri Driss di
rideterminazione della pena a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n.
32 del 2014 limitatamente alla pena applicata con sentenza ex art. 444 cod.
proc. pen. del 28/4/2010, riducendola ad un anno, mesi nove e giorni dieci di
reclusione ed euro 4.000 di multa; la rigettava rispetto alla pena applicata con
sentenza dell’11/9/2012.

sentenza della Corte Costituzionale, che aveva fatto rivivere il precedente
articolo 73 d.P.R. 309 del 1990 e le relative tabelle, in quanto mai validamente
abrogate, non conteneva alcun giudizio di contrasto con i valori costituzionali
della forbice di pena che, a suo tempo, aveva vincolato il giudice della
cognizione, individuando, invece, il momento patologico solo in un vizio in
procedendo nell’iter di formazione della legge del 2006; di conseguenza, il
giudice dell’esecuzione non era legittimato a riformulare ex novo il giudizio in
punto di pena al fine di renderla conforme a precisi valori costituzionali, potendo
soltanto svolgere il compito “ragionieristico” di correggere il calcolo della pena,
riconducendo ai limiti edittali della legge Iervolino – Vassalli gli addendi
eventualmente fissati dal giudice della cognizione al di sopra di tali limiti.
Tale impostazione comportava il rigetto della richiesta di rideterminazione
della pena applicata con la sentenza 11/9/2012, avente ad oggetto la detenzione
di un chilogrammo di hashish: la pena base posta alla base del calcolo della pena
– anni sei di reclusione ed euro 27.000 di multa – rientrava nei limiti massimi
edittali previsti dall’art. 73, comma 4 d.P.R. della legge Iervolino Vassalli.
La pena applicata con la seconda sentenza, nella quale era stata
riconosciuta l’ipotesi lieve di cui all’art. 73 comma 5 d.P.R. 309 del 1990 per la
detenzione di grammi 39 di hashish, veniva ricalcolata, fissando la pena
detentiva posta a base del calcolo al massimo edittale in anni quattro di
reclusione (in sede di cognizione, la pena base era stata fissata in anni quattro e
mesi sei di reclusione) e riducendola per le attenuanti generiche e per il rito.

2.

Ricorre per cassazione Driss Nassiri, deducendo violazione di legge

penale.
Il potere del giudice dell’esecuzione è più ampio di quanto ritenuto dal
Tribunale: non è illegittima soltanto la pena superiore al massimo edittale della
norma che ha ripreso efficacia, ma la pena determinata sulla base dei parametri
introdotti illegittimamente dalla riforma del 2006.

2

Richiamando la sentenza delle S.U. Gatto, il Tribunale rilevava che la

Il Giudice avrebbe, quindi, dovuto rideterminare la pena alla luce dei criteri
di cui all’art. 133 cod. pen..

3. Il Procuratore Generale, nella requisitoria scritta, conclude per
l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Sul tema del ricorso – oggetto di disputa teorica e di contrastanti
orientamenti giurisprudenziali – sono di recente intervenute le Sezioni Unite di
questa Corte con sentenza n. 42858 del 29.5.2014 (dep. 14.10.2014) ric. Gatto.
L’opzione interpretativa seguita in detto arresto – cui si presta adesione ritiene superabile il limite del giudicato anche nei casi in cui la declaratoria di
illegittimità costituzionale riguardi una norma incidente sul trattamento
sanzionatorio, senza coinvolgere la rilevanza penale del fatto.
La motivazione si incentra – essenzialmente – sulla diversità ontologica tra
una pronuncia di incostituzionalità e un ‘ordinario’ intervento legislativo basato, il
secondo, sulla rivalutazione – in rapporto al decorso del tempo e a mutate
sensibilità sociali, storiche o culturali – del contenuto di norme penali.
La pronunzia di incostituzionalità, invece, inficia sin dall’origine la
disposizione impugnata e pertanto non è in alcun modo omologabile alla vicenda
della successione di leggi nel tempo: la norma costituzionalmente illegittima
viene espunta dall’ordinamento giuridico e ciò impone e giustifica l’efficacia
«retroattiva» della pronuncia di incostituzionalità sugli effetti ancora in corso di
rapporti giuridici pregressi.
Da ciò deriva che «tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti da una sentenza
penale di condanna fondata, sia pure in parte, sulla norma dichiarata
incostituzionale devono essere rimossi dall’universo giuridico, ovviamente nei
limiti in cui ciò sia possibile, non potendo essere eliminati gli effetti irreversibili
perché già compiuti e del tutto consumati».
La norma regolatrice viene individuata, per l’appunto, nella previsione
dell’art. 30 comma 4 legge n. 87 del 1953 (“quando in applicazione della norma
dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna,
ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”), il cui ambito applicativo non
si limita ad imporre la retroattività delle decisioni aventi ad oggetto la rilevanza
penale del fatto ma si estende al caso di declaratoria di incostituzionalità di
norma penale diversa ed ‘incidente’ sulla determinazione della pena.

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1. Il ricorso è fondato.

Pertanto, la formazione del giudicato e il mancato riferimento, nell’art. 673
cod. proc. pen., all’ipotesi di declaratoria di incostituzionalità di norma penale
incidente sul trattamento sanzionatorio non ostano alla estensione in sede
esecutiva degli effetti di pronunzie di questo tipo.
Il limite per la rilevanza della pronunzia di incostituzionalità rispetto al
giudicato è così individuato dalla citata sentenza delle Sezioni Unite: “… l’aspetto

decisivo, che segna invece il limite non discutibile di impermeabilità e
insensibilità del giudicato anche alla situazione di sopravvenuta declaratoria di

degli effetti, giacché il citato art. 30 impone di rimuovere tutti gli effetti
pregiudizievoli del giudicato non divenuti nel frattempo irreversibili perché già
consumati, come nel caso di condannato che abbia già scontato la pena…;
l’esecuzione della pena implica infatti l’esistenza di un rapporto esecutivo che
nasce dal giudicato e si esaurisce soltanto con la consumazione o l’estinzione
della pena. Sino a quando l’esecuzione della pena è in atto, il rapporto esecutivo
non può dirsi esaurito e gli effetti della norma dichiarata costituzionalmente
illegittima sono ancora perduranti e dunque possono e devono essere rimossi.”
In effetti, “il diritto fondamentale alla libertà personale deve prevalere sul valore

dell’intangibilità del giudicato, sicché devono essere rimossi gli effetti ancora
perduranti della violazione conseguente all’applicazione di tale norma incidente
sulla determinazione della sanzione, dichiarata illegittima dalla Corte
costituzionale dopo la sentenza irrevocabile”.
Il giudice dell’esecuzione, quindi, deve verificare la rilevanza della pronuncia
di illegittimità costituzionale nel caso concreto, non potendo intervenire sul titolo
esecutivo se l’effetto della norma dichiarata incostituzionale sia esaurito per aver
già dato luogo alla esecuzione integrale della pena.

2. La sentenza delle Sezioni Unite verteva sulla valutazione degli effetti della
sentenza della Corte Costituzionale n. 251 del 2012, che aveva dichiarato
l’illegittimità del divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art.
73 comma 5 d.P.R. 309 del 1990 sulla recidiva reiterata.
La Corte ha affermato che, se il mancato esito del giudizio di comparazione
nel senso della prevalenza sia dipeso dal divieto di legge rimosso (art. 69 comma
4 cod. pen.) l’esecuzione della pena deve ritenersi illegittima sia sotto il profilo
oggettivo, in quanto derivante dall’applicazione di una norma di diritto penale
sostanziale dichiarata incostituzionale dopo la sentenza irrevocabile, sia sotto il
profilo soggettivo, in quanto, almeno per una parte, non potrà essere
positivamente finalizzata alla rieducazione del condannato imposta dalla
previsione dell’art. 27, comma 3, Cost.. Infatti, l’illegittimità della pena

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illegittimità costituzionale della norma applicata è costituito dalla non reversibilità

costituisce un ostacolo al perseguimento di tali obiettivi rieducativi, perché sarà
avvertita come ingiusta da chi la sta subendo, per essere stata non già
determinata dal giudice nell’esercizio dei suoi ordinari e legittimi poteri, ma
imposta da un legislatore che ha violato la Costituzione.

Quanto ai poteri del giudice dell’esecuzione, le Sezioni Unite hanno
evidenziato due aspetti di particolare rilievo:
– il limite del «fatto accertato» nella pronunzia di cognizione non può essere

della esecuzione potrà pervenire al giudizio di prevalenza della circostanza
attenuante (prima inibito) sempre che lo stesso non sia stato precedentemente
escluso nel giudizio di cognizione per ragioni di merito (indipendenti dalla
esistenza, allora, del divieto di legge e valorizzate come tali);
– il potere di verifica della legittimità del trattamento sanzionatorio va esteso
agli ulteriori accadimenti

medio tempore

incidenti sulle norme applicate,

all’epoca, dal giudice della cognizione (vi è riferimento espresso alle ricadute
della decisione n. 32 del 2014 sui contenuti della legge n. 49 del 2006, di
conversione del d.l. n. 272 del 2005).
Sulla scorta di questa ricostruzione sistematica, le Sezioni unite hanno
affermato i seguenti principi di diritto:
«successivamente a una sentenza irrevocabile di condanna, la dichiarazione
d’illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla norma
incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento sanzionatorio, comporta la
rideterminazione della pena, che non sia stata interamente espiata, da parte del
giudice dell’esecuzione»;
«per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 251 del 2012 … il
giudice dell’esecuzione potrà affermare la prevalenza della circostanza
attenuante di cui all’art. 73 comma 5 d.P.R. n. 309 del 1990 sempreché una
simile valutazione non sia stata esclusa nel merito dal giudice della cognizione,
secondo quanto risulta dal testo della sentenza irrevocabile».

3. Il giudice dell’esecuzione, in particolare, è tenuto a compiere le seguenti
valutazioni:
a) verifica dell’incidenza concreta della decisione irrevocabile, all’atto della
domanda, sulla libertà personale per essere in effettiva esecuzione la pena
derivante – anche in parte – da norma di diritto sostanziale dichiarata
incostituzionale;
b) in caso positivo, ricostruzione del contenuto della decisione irrevocabile
nel senso della ‘concreta incidenza’ sul trattamento sanzionatorio determinato in

superato, nel senso che – in rapporto al tema oggetto della decisione – il giudice

sede di cognizione della specifica norma (in questo caso l’art. 73 d.P.R. 309 del
1990) dichiarata incostituzionale, con conseguente rideternninazione del
trattamento sanzionatorio, tenendo conto della compiuta ricostruzione del fatto
da parte del giudice della cognizione nonché delle norme applicabili al momento
della decisione in punto di commisurazione della sanzione.
Come è noto, la sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014 ha
dichiarato illegittima la novellazione all’originario testo dell’art. 73 del d.P.R. n.
309 del 1990 apportata con d. I. n. 272 del 30 dicembre 2005 (artt. 4-bis e 4-

L’effetto della pronunzia di incostituzionalità è stato quello di «riespandere»
la previgente disciplina incriminatrice e le correlate diverse sanzioni per i fatti
commessi dal 28 febbraio 2006 al 6 marzo 2014 (fermo restando che per
l’ipotesi di fatto di lieve entità il limite temporale finale va anticipato al 23
dicembre 2013, essendo il giorno seguente entrata in vigore diversa e autonoma
disciplina normativa introdotta dal decreto legge n. 146 del 2013).

Pertanto, se il soggetto destinatario della esecuzione è stato condannato per
fatto rientrante in detto intervallo temporale, sono applicabili i principi affermati
dalla sentenza delle Sezioni Unite prima ricordata, trattandosi di pronuncia che
riguarda la legittimità del trattamento sanzionatorio vigente all’epoca della
decisione del giudice della cognizione.
In particolare, risulta in ogni caso “illegale” il trattamento sanzionatorio delle
condotte illecite concernenti le droghe cd. ‘leggere’ (ossia le sostanze rientranti
nelle tabelle II e IV allegate al d.P.R. del 1990), atteso che, in relazione a tali
sostanze, l’intervento normativo dichiarato illegittimo aveva comportato (a
differenza di quanto previsto per le altre sostanze) un massiccio incremento dei
limiti edittali della sanzione detentiva: il mimino edittale della condotta ordinaria
era stato innalzato da 2 a 6 anni di reclusione, quello della condotta attenuata da
sei mesi a un anno di reclusione; il massimo edittale era stato innalzato da 6 a
20 anni di reclusione nell’ipotesi ordinaria e da 4 a 6 anni di reclusione per
l’ipotesi attenuata.

4. Ora, posto che l’operazione di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen. commisurazione della pena – è frutto di una scelta che il giudice della cognizione
compie, con discrezionalità guidata, in un ambito legislativamente definito tra il
minimo e il massimo edittale, il profondo mutamento di «cornice» derivante dalla
declaratoria di incostituzionalità rende necessaria – in ipotesi di condanna per
‘droghe leggere’ – una rivalutazione piena di tale aspetto in sede esecutiva, che il
giudice dell’esecuzione deve compiere tenendo conto del «fatto», così come

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vides ter) convertito in legge n. 49 del 21 febbraio 2006.

accertato da quello della cognizione, ma non anche dei termini matematici
espressi da tale giudice – in rapporto alla scelta tra minimo e massimo edittale trattandosi di scelte operate in un quadro normativo alterato dal criterio
legislativo (legge del 2006) teso a «parificare» il disvalore di condotte tra loro
diverse (in rapporto alla tipologia di sostanze oggetto delle condotte).
In altre parole, che se da un lato risulta doverosa ed obbligatoria, alla luce
di quanto sopra, la rideterminazione in sede esecutiva della pena inflitta in
rapporto ad una squilibrata (e costituzionalmente illegittima) cornice edittale,

«fatto accertato» – il giudice dell’esecuzione possa rivalutarne la valenza in
rapporto ai «nuovi» e profondamente diversi parametri edittali, ovviamente
dando conto (ex artt. 132 e 133 cod. pen.) delle modalità di esercizio del potere
commisurativo e tenendo conto dei principi generali del sistema sanzionatorio
(tra cui quello per cui non può essere aumentata l’afflittività della pena stabilita
nella sentenza di condanna).

Va precisato, inoltre che la decisione emessa dal giudice della esecuzione, in
ipotesi di accoglimento dell’istanza e rideterrninazione del trattamento
sanzionatorio, assume una valenza sostitutiva di un titolo esecutivo (la
precedente decisione irrevocabile) solo in tale parte non più eseguibile, che
andrà pertanto integrato, in punto di entità della pena, dalla decisione emessa in
sede esecutiva (peraltro anch’essa ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 666
comma 6 cod. proc. pen.) secondo uno schema procedimentale non estraneo al
procedimento di esecuzione (si pensi a quanto previsto e regolamentato dall’art.
671 cod. proc. pen., norma che – a diverso fine – consente la modifica in
esecuzione dell’entità del trattamento sanzionatorio correlato a decisioni
parimenti irrevocabili circa l’an della responsabilità).
Non si tratta, pertanto, di una revoca del precedente titolo (non versandosi
in ipotesi applicativa dell’art. 673 cod. proc. pen.) ma di una sua parziale
rinnovazione e integrazione per quanto concerne l’entità della pena, con ogni
conseguenza di legge.

5. Le Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza n. 37107 del 26/2/2015,
hanno successivamente affermato i medesimi principi con riferimento alla pena
applicata su richiesta delle parti ex art. 444 cod. proc. pen., stabilendo che “La
pena applicata con la sentenza di patteggiamento avente ad oggetto uno o più
delitti previsti dall’art. 73 d.P.R. 309 del 1990, relativi alle droghe c.d. leggere,
divenuta irrevocabile prima della sentenza n. 32 del 2014 della Corte
costituzionale, può essere rideterminata in sede di esecuzione in quanto pena

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dall’altro non può escludersi che – con valutazione in concreto e rispettosa del

illegale”; “la rideterminazione avviene ad iniziativa delle parti, con le modalità di
cui al procedimento previsto dall’art. 188 disp. att. cod. proc. pen., sottoponendo
al giudice dell’esecuzione una nuova pena su cui è stato raggiunto l’accordo”; “in
caso di mancato accordo o di pena concordata ritenuta non congrua il giudice
dell’esecuzione provvede autonomamente alla rideterminazione della pena ai
sensi degli artt. 132 e 133 cod. pen.”.

6. L’ordinanza impugnata deve, quindi, essere annullata con rinvio al

disp. att. cod. proc. pen., rideterminerà le pene applicate con le due sentenze
seguendo i principi fin qui enunciati.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di
Milano.

Così deciso il 20 ottobre 2015

Il Consigliere estensore

Il Presidente

Tribunale di Milano che, previa applicazione della procedura dettata dall’art. 188

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