Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 512 del 21/11/2017
Penale Ord. Sez. 7 Num. 512 Anno 2018
Presidente: DE CRESCIENZO UGO
Relatore: DI PAOLA SERGIO
ORDINANZA
sui ricorsi proposti da:
MORANDA VINCENZO nato il 03/01/1960 a CESANO MADERNO
FANARA CAROLA nato il 13/09/1972 a BUSTO ARSIZIO
avverso la sentenza del 06/12/2016 della CORTE APPELLO di MILANO
dato avviso alle parti;
sentita la relazione svolta dal Consigliere SERGIO DI PAOLA;
RITENUTO IN FATTO E IN DIRITTO
La Corte d’Appello di Milano, con sentenza in data 6/12/2016, parzialmente
riformando la sentenza pronunciata dal TRIBUNALE di PAVIA, in data
21/07/2015, nei confronti di MORANDA VINCENZO e FANARA CAROLA,
confermava la condanna degli imputati in relazione al reato di cui alli art. 640
cod. pen.
Propongono ricorso per cassazione gli imputati, deducendo il vizio di
motivazione con riferimento alla ritenuta responsabilità degli imputati, per aver
ritenuto implausibile la versione difensiva degli stessi (secondo i quali
l’alterazione della certificazione sanitaria che attestava il decesso dell’animale utilizzata per ottenere la restituzione del prezzo del cane acquistato – doveva
riferirsi alla persona offesa, che così intendeva metter in cattiva luce l’imputato
in modo da determinarne l’espulsione da un’associazione) senza argomentazioni
logiche e convincenti; censurava, altresì, la motivazione per non essere fondata
Data Udienza: 21/11/2017
su un accertamento tecnico indispensabile per attribuire alle persona degli
imputati la falsificazione del referto medico; aggiungevano i ricorrenti che la tesi
del “tranello” ordito dalla persona offesa, era verosimile anche alla luce delle
indagini difensive che avevano consentito di raccogliere la testimonianza del
fratello della Fanara, il quale aveva riferito della consapevole falsificazione del
referto da parte di entrambi gli imputati.
Il ricorso è inammissibile in quanto assolutamente generico e fondato su
una diversa prospettazione e valutazione dei fatti, rispetto a quella
motivatamente illustrata nella sentenza impugnata, che non consente alcun
intervento in sede di legittimità.
Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, esula dai poteri
della Corte di cassazione quello di una ‘rilettura’ degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al
giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera
prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle
risultanze processuali (per tutte: Sez. Unite, n. 6402 del 30/4/1997, Dessimone,
Rv. 207944; tra le più recenti: Sez. 4, n. 4842 del 02/12/2003, dep. 2004, Elia,
Rv. 229369).
I motivi proposti tendono, appunto, ad ottenere una inammissibile
ricostruzione dei fatti (peraltro meramente ipotetica e congetturale) mediante
criteri di valutazione diversi da quelli adottati dal giudice di merito, il quale, con
motivazione esente da vizi logici e giuridici, ha esplicitato le ragioni del suo
convincimento; del tutto ultronea, del resto, risulta l’ipotizzata necessità di
accertare l’attribuzione della materiale falsificazione del referto, essendo
logicamente già sufficiente il dato dell’uso del documento alterato, con la finalità
propria dell’induzione in errore della vittima, al fine di conseguire l’ingiusto
profitto della restituzione del prezzo di acquisto dell’animale deceduto.
Sulla base delle considerazioni fin qui svolte, il ricorso deve essere
dichiarato inammissibile (il che impedisce, non consentendo il formarsi di un
valido rapporto processuale di impugnazione, di valutare la presenza di eventuali
cause di non punibilità ex articolo 129 cod. proc. pen., quale l’intervenuta
prescrizione del reato: Sez. Unite, n. 12 .602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci,
Rv. 266818); ne consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali, nonché, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., valutati i profili di colpa nella
determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso (Corte Cost.
13 giugno 2000, n. 186), al versamento della somma, che ritiene equa, di euro
tremila a favore della cassa delle ammende.
J9
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali e ciascuno al versamento della somma di tremila euro alla
cassa delle ammende.
Così deciso il 21/11/2017