Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 51051 del 13/11/2015


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 51051 Anno 2015
Presidente: CONTI GIOVANNI
Relatore: SCALIA LAURA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
ARAGONA ANDREA N. IL 12/11/1964
avverso la sentenza n. 262/2010 CORTE APPELLO di MESSINA, del
16/03/2015
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 13/11/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. LAURA SCALIA
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per J»

Pap.-4,. -17(1fr/

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 13/11/2015

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza pronunciata in data 16.03.2015, la Corte di Appello di Messina,
confermando la sentenza del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto del 26.11.2009, ha
condannato l’appellante, Andrea Aragona, alla pena di quattro mesi di reclusione oltre
al pagamento delle spese processuali.
L’Aragona è stato, in tal modo, ritenuto colpevole del reato di rifiuto, integrato da

nominato consulente tecnico d’ufficio all’udienza del 27 ottobre 2005, nell’ambito di un
giudizio civile contenzioso, diffidato a depositare la relazione integrativa con ordinanza
emessa in data 18 settembre 2007, notificatagli il successivo 24 ottobre, nonché a
comparire personalmente in udienza con provvedimento emesso in data 19 febbraio
2008, notificatogli il successivo 10 marzo, e, ancora, con provvedimento del 25
settembre 2008, notificatogli il successivo 9 ottobre, rifiutava un atto del proprio ufficio
che, per ragioni di giustizia, doveva invece compiere senza ritardo.
Condotta contestata come tenuta sino al 12 febbraio 2009, data del provvedimento
di sostituzione dell’ausiliare.
La Corte territoriale ha formulato giudizio di responsabilità, ritenendo, quanto
all’elemento oggettivo della contestata fattispecie, come ai fini della configurabilità del
reato di rifiuto di un atto di ufficio, l’indifferibilità dell’atto debba essere accertata in
base all’esigenza di garantire il perseguimento dello scopo cui l’atto è preordinato.
L’ assenza di termini di legge espliciti o la presenza di termini meramente ordinatori
non esclude infatti, rileva la Corte, il dovere di compiere l’atto in un ristretto margine
temporale quando ciò sia necessario per evitare un sostanziale aumento del rischio per
gli interessi tutelati dalla norma incriminatrice.
Quanto poi ali’ elemento soggettivo del reato, la Corte territoriale ne ha affermato
altresì l’integrazione perché il prevenuto, sollecitato in più occasioni ad adempiere, non
avrebbe mai addotto argomento ostativo all’adempimento stesso, in tal modo
comprovando di avere consapevolezza della necessità dell’adempimento dell’incarico
assunto, in tal modo escludendosi l’incidenza di qualsiasi causa di forza maggiore.

2. Avverso l’indicata sentenza la difesa propone ricorso per l’imputato, articolando
quattro motivi che possono, in via riassuntiva, riportarsi nei termini che seguono.

2.1. La difesa denuncia violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità
(art, 606, comma 1, lett. c) cod. proc. pen.; in relazione all’art. 157 cod. pen. ed agli
artt.129, 529 e 531 cod. proc. pen. ed all’art. 6 CEDU).
Il reato, deduce il ricorrente, si è estinto per prescrizione dopo la pronuncia del
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condotta omissiva, di atti di ufficio (art. 328, comma primo, cod. pen.), perché,

Tribunale e prima di quella della Corte di appello.
Rileverebbe, in tal senso, la natura di reato di pericolo, a consumazione istantanea,
della fattispecie contestata che individuerebbe alla data del 18 ottobre 2013 il momento
di maturata prescrizione, essendo il termine di deposito della relazione tecnica – fissato
in 120 giorni dall’assunzione dell’incarico – spirato il 18 aprile 2006, e non al tempo in
cui la prestazione è divenuta ineseguibile con il provvedimento di sostituzione del c.t.u.,
e quindi al 12 febbraio 2009, come invece contestato e ritenuto dalla Corte di appello.

posto al consulente d’ufficio, interesse espressivo del principio di ragionevole durata del
processo (art. 6 CEDU) e del buon andamento dell’Amministrazione, non avrebbe infatti
consentito di rimettere ad un terzo la fissazione del “dies a quo” della prescrizione,
dovendosi comunque preferire, quale ultimo criterio ermeneutico, tra le varie opzioni
interpretative, quello più favorevole al reo.

2.2.

Violazione di norma penale (art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., in

relazione all’art. 328, comma primo, cod. pen.) per dedotta inesistenza dell’elemento
oggettivo del reato, in difetto sia dell’antidoverosità del rifiuto, non integrato dalla
mera inerzia riscontrabile, invece, nella specie, quanto dell’indifferibilità dell’atto
omesso.
L’ indifferibilità, da valutarsi in concreto, nella specie non sarebbe stata presente,
inserendosi la condotta del c.t.u. in un calendario di udienze che, fissato dal Giudice
civile secondo dilatate cadenze, avrebbe registrato la sostituzione del primo consulente
con altro a distanza di tre anni e quattro mesi dall’accettazione della iniziale nomina.

2.3.

Carenza di motivazione e nullità della sentenza (art. 606, comma 1, lett. e)

cod. proc. pen., in relazione agli artt. 125, comma 3, cod. proc. pen. nonché dell’art.
111, comma 6, Cost.), non avendo la Corte di appello motivato in ordine alla
indifferibilità dell’atto.

2.4. Erronea applicazione della norma penale (art. 606, comma 1, lett. b) cod.
proc. pen., in relazione all’art. 328, comma primo, e 43 cod. pen.), dovendo l’imputato
andare assolto perché il fatto contestato non costituisce reato in difetto dell’elemento
soggettivo, avendo l’Aragona tenuto un comportamento connotato da negligenza, ma
non da dolo.

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L’interesse, tutelato dalla norma, ad ottenere una celere risposta tecnica al quesito

CONSIDERATO IN DIRITTO
1.

Il primo motivo di ricorso è infondato.

1.1. Al tema della prescrizione, è connesso quello della struttura e della
consumazione del reato.
Il reato di rifiuto di atti di ufficio (art. 328, primo comma, cod. pen.) è reato
istantaneo ad effetti permanenti (Sez. 6, 14/02/2012, n. 6903, Belardinelli).

alla misura di lesione del bene protetto che sia integrativa della consumazione (art.
158, comma primo, cod. pen.).
Ai fini della prescrizione non viene quindi in considerazione la cessazione della
situazione dannosa o pericolosa che venga mantenuta dal successivo, rispetto alla
consumazione stessa, volontario atteggiarsi della condotta dell’agente, in ragione di
quella che è la struttura propria del reato permanente.
Alla consumazione del reato consegue infatti un protrarsi degli effetti dannosi,
protrazione che, non derivando dalla volontaria condotta dell’agente e non risultando
quindi destinata a cessare allorché l’agente receda dall’intento, non vale, per ciò stesso,
ad incidere sul decorso della prescrizione.
Quanto alla definizione della misura dell’ offesa al bene protetto dalla norma in
relazione alla quale il reato può dirsi consumato, il rifiuto dell’atto di ufficio, di cui
all’art. 328, primo comma, cod. pen., si consuma con l’omissione ovverosia con il
mancato compimento di un atto rientrante nella competenza funzionale del pubblico
ufficiale.
Sostiene siffatta lettura, il significato polisenso del termine “rifiuto” contemplato
dall’art. 328 cit. e destinato ad essere integrato anche da atteggiamenti psicologici,
quali il “lasciare, eliminare, scartare, negare”, svincolati da sollecitazioni esterne e,
quindi, diretti a far a coincidere il rifiuto con l’omissione (Sez. 6, n. 7766 del
09/12/2002, (dep. 17/02/2003), Masi).
Nella natura dell’interesse protetto, il dovere di compiere l’atto, e comunque di
compiere l’atto senza ritardo, fa sì che il mancato tempestivo adempimento del primo
già realizzi la lesione specifica del bene protetto e quindi la consumazione del reato.
Il rifiuto diviene invero penalmente rilevante in quanto l’atto sia connotato, per
rilievo e natura del bene protetto, da indifferibilità, restando il primo come tale
integrato «anche dalla silente inerzia del pubblico ufficiale protratta senza
giustificazione oltre i termini di comporto o, se del caso, di decadenza» (Sez. 6, n. 766
cit.).
In disparte ogni valutazione in ordine alla consumazione del reato di specie in
ipotesi di violazione di un termine perentorio – e quindi di un termine fissato per legge a
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Per determinare il tempo necessario alla prescrizione occorre quindi avere riguardo

pena di decadenza dall’esercizio della relativa “potestas” da parte del pubblico ufficiale allorché il termine rimasto inevaso abbia invece natura meramente ordinatoria,
soccorre all’integrazione del rifiuto penalmente rilevante il superamento del
“ragionevole di comporto” (Sez. 6 n. 7766 cit.) o tempo di indugio tollerato.
Fintantoché l’opera dell’ausiliare possa essere utilmente resa per ragioni di giustizia
secondo apprezzamento rimesso al giudice che della prima debba avvalersi, può
ritenersi che il ritardo nell’adempimento del consulente tecnico, all’interno del giudizio

ragionevole tempo di indugio, non sanzionato penalmente.
Al superamento di detto termine consegue invece la consumazione del reato in una
cornice che, connotata da una pluralità di solleciti provenienti dall’Ufficio giudiziario
rispetto ai quali il consulente si sia mantenuto in uno stato di silente omissione,
denuncia, per ciò stesso, e peraltro, la consapevolezza della condotta in capo
all’agente.
Allorché quindi il consulente d’ufficio, inadempiente ai suoi uffici, venne sostituito
dal giudice nel procedimento all’interno del quale egli doveva prestare l’ausilio tecnico
richiesto, e quindi alla data del 12.02.2009, è certo che fosse decorso il termine di
ragionevole comporto.
Né può ritenersi, secondo deduzione difensiva, che in tal modo si sortirebbe l’effetto
di rimettere alla discrezionalità di un terzo, la fissazione, non preventivabile, del
termine di decorso della prescrizione.
Il giudice del procedimento all’interno del quale il consulente è stato chiamato a
rendere i suoi uffici, è la figura che meglio può apprezzare dell’atto, da eseguirsi senza
ritardo, la perdurante utilizzabilità secondo ragioni di giustizia.
La consumazione del reato dì rifiuto di atti di ufficio allorché autore del reato sia il
consulente tecnico di ufficio non consegue quindi ad un qualsiasi ritardo dell’ausiliare
nell’espletamento del suo incarico.
Il ritardo infatti – oltre ad essere connotato e preceduto, senza che venga fornita
dall’agente giustificazione alcuna, da sollecitazioni ad adempiere da parte dell’Ufficio
che dell’opera del consulente sì sarebbe dovuto avvalere – deve risultare connotato dal
superamento di ogni tempo di ragionevole tolleranza ed essere rimesso, nella sua
determinazione, alla stima del giudice del procedimento in cui l’opera avrebbe dovuto
prestarsi.
Al superamento di ogni ragionevole comporto consegue quindi l’integrazione della
lesione penalmente rilevante del bene giustizia.

2.

Il secondo ed il terzo motivo sono del pari infondati.

Valgano in tal senso gli argomenti sviluppati da questa Corte sull’integrazione
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in cui egli sia stato chiamato a rendere la sua funzione, rientri ancora in quel

della fattispecie omissiva ascritta e sull’apprezzamento in ordine alla indifferibilità
connessa alla tutela ed attuazione del bene giustizia (Sez. 6, n. 7766, cit.; Id. n. 47531
20/11/2012, Cambria) ed alla conseguente antidoverosità della condotta assunta (di
assoluto silenzio ed inerzia a fronte delle plurime sollecitazioni ricevute) lesiva
dell’interesse all’ urgenza dell’atto, in quanto ricompreso nell’esercizio della funzione.

3.

Il quarto motivo è infondato e, finanche, inammissibile, avendo la Corte di

consapevolezza dell’imputato.
Questi, destinatario silente di una pluralità di atti di invito al deposito e, come tale,
consapevole del proprio contegno omissivo, dovendo ritenersi che egli, come
congruamente motivato dalla Corte territoriale, si sia rappresentato ed abbia voluto la
realizzazione di un evento “contra ius”, senza peraltro che alcuna plausibile
giustificazione al diniego di adempimento abbia trovato integrazione alla stregua delle
norme che disciplinano, del primo, il dovere di azione (Sez. 6, n. 36674 del
22/07/2015, Martin; id., n. 51149 del 09/04/2014, Scopelliti).

4. Il ricorso va pertanto rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle
spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 13 novembre 2015

Il Consigliere estensore

Il Presidente

appello fatto corretta applicazione dei principi affermati da questa Corte in ordine alla

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