Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 51026 del 26/11/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 51026 Anno 2015
Presidente: MANNINO SAVERIO FELICE
Relatore: MENGONI ENRICO

SENTENZA

sui ricorsi proposti da
Belotti Mario, nato a Vigolo (Bg) il 9/8/1945
Belotti Simone, nato a Varese il 22/5/1976

avverso la sentenza pronunciata dalla Corte di appello di Milano in data
8/5/2015;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
sentita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore generale Ciro Angelillis, che ha chiesto il rigetto dei ricorsi

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza dell’8/5/2015, la Corte di appello di Milano confermava la
pronuncia emessa 1’11/12/2013 dal Tribunale di Varese, con la quale Mario
Belotti, Simone Belotti e Fausto Renato Giuseppe Bignotti erano stati riconosciuti
colpevoli della contravvenzione di cui agli artt. 110 cod. pen., 256, comma 3, d.
1gs. 3 aprile 2006, n. 152 (i Belotti), e di quella di cui all’art. 256, comma 1,
stesso decreto (il Bignotti), e condannati alla pena di due mesi, venti giorni di

Data Udienza: 26/11/2015

arresto e 1.200,00 euro di ammenda ciascuno; ai primi due – rispettivamente
legale rappresentante e socio della “Cava Femar s.r.l.” – era contestato di aver
realizzato una discarica abusiva (riqualificata in sentenza come deposito
incontrollato), mentre al terzo – quale legale rappresentante della “Pirazzi &
Bignotti s.a.” – di aver effettuato un’attività di raccolta, trasporto, recupero e
smaltimento di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione.
2. Propongono comune ricorso per cassazione Mario e Simone Belotti, a
mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:

appello non avrebbe steso alcuna motivazione – o, al più, motivazione per
relationem

in ordine all’eccezione di prescrizione sollevata in sede di appello,

peraltro affermando erroneamente che la difesa avrebbe mostrato acquiescenza
sul punto; ancora, la Corte non avrebbe valutato che molti dei disposti rinvii
erano stati dovuti alla necessità di acquisire documenti, sì da doversi computare i
relativi periodi nel calcolo complessivo della prescrizione;
– difetto di motivazione ed illogicità manifesta della stessa quanto alla
responsabilità dei ricorrenti. La Corte di merito sarebbe «giunta con motivazione
poco chiara» a sostenere provata la natura di rifiuti dei materiali rinvenuti, senza
alcun accertamento analitico circa l’effettiva composizione degli stessi; al
riguardo, peraltro, la sentenza avrebbe disatteso plurime questioni sollevate con
l’atto di gravame, volte a negare la sussistenza del reato contestato. Da ultimo,
la responsabilità di Simone Belotti sarebbe stata affermata in modo del tutto
apodittico, senza alcun approfondimento sul ruolo da questi svolto.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. I ricorsi sono manifestamente infondati.
Con riguardo al primo motivo, in tema di prescrizione del reato, osserva la
Corte che la motivazione stesa nella sentenza impugnata risulta sintetica ma
adeguata, negando che il termine di cui agli artt. 157-161 cod. pen. fosse
maturato al momento della pronuncia; il Collegio di merito, in particolare, ha
richiamato sul punto la decisione del primo Giudice, che aveva indicato in modo
analitico quanto accaduto in ciascuna delle udienze dibattimentali di primo grado
(dal 17/1/2011 all’11/12/2013), sì da individuare compiutamente tutte le
sospensioni del termine prescrizionale verificatesi fino alla deliberazione della
sentenza. Richiamo con il quale, ancora, la Corte di merito ha fatto proprie le
congrue e motivate considerazioni del Tribunale circa la necessità di sospendere
il termine a fronte di plurime richieste di rinvio formulate congiuntamente dagli
imputati e dalla parte civile (il Comune di Viggiù) al solo fine di addivenire ad un

2

– difetto di motivazione in ordine all’invocata prescrizione. La Corte di

accordo in via amministrativa, oppure al fine di acquisire documentazione
finalizzata – si badi bene – non a provare l’innocenza dei ricorrenti, ma soltanto a
comporre la controversia con l’amministrazione comunale; richiamo alla prima
decisione, dunque, con il quale la Corte ha anche implicitamente disatteso la
doglianza contenuta nell’atto di appello, volta ad evidenziare che tutti i rinvii
erano stati disposti, in realtà, soltanto per acquisire documentazione
amministrativa o tecnica, sì da non potersi considerare quali casi di sospensione
della prescrizione.

infondato.
Al riguardo, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del Giudice di
legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della
decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo,
restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e
valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella,
n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo di questa
Corte in forza del quale l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art.
606, comma 1, lett e), cod. proc. pen., è soltanto quella evidente, cioè di
spessore tale da risultare percepibile ictu ocuti; ciò in quanto l’indagine di
legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto,
dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa
volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato
argomentativo (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074).
In altri termini, il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene alla
ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del Giudice di merito, ma è limitato
alla verifica della rispondenza dell’atto impugnato a due requisiti, che lo rendono
insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo
hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o
di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine
giustificativo del provvedimento. (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e
altri, Rv. 255542; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv,
251760).
Se questa, dunque, è l’ottica ermeneutica nella quale deve svolgersi il
giudizio della Suprema Corte, le censure che i ricorrenti muovono al
provvedimento impugnato si evidenziano come manifestamente infondate; ed
invero, dietro la parvenza di un difetto motivazionale, gli stessi di fatto invocano
una nuova e diversa lettura delle medesime risultanze istruttorie già esaminate
dai Giudici di merito (quantità e qualità dei materiali trasportati verso la cava

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4. Anche il secondo motivo, in punto di responsabilità, risulta del tutto

gestita dalla “Femar”, presenza di sostanze inquinanti), sollecitandone una
valutazione alternativa e più favorevole.
Il che, come riportato, non è consentito.
I gravami, inoltre, censurano sul punto la sentenza di appello in termini del
tutto generici, ovvero limitandosi ad affermare che la Corte avrebbe disatteso le
numerose doglianze che erano state sollevate in ordine alla responsabilità dei
ricorrenti; quel che, però, non è dato affatto scorgere nella pronuncia in esame,
nella quale il Collegio di merito ha evidenziato che 1) la “Femar”, dopo una lunga

una bozza di convenzione per l’attuazione di un completo piano di recupero del
sito; 2) il 15/9/2008, era stato sottoposto a controllo un camion della
“Pirazzi&Bignotti”, proveniente dalla Svizzera e diretto proprio all’area in
oggetto, nel quale erano presenti detriti da scavi per costruzioni stradali e di
civile abitazione (tegole, laterizi rotti, pezzi di cemento) e, pertanto, non soltanto
sabbia, ghiaia e pietra frantumate, come invece riportato nella dichiarazione
doganale; 3) in questo materiale erano stati accertati frammenti di eternit,
amianto, catrame e nichel; 4) questo materiale integrava rifiuto ai sensi dell’art.
186, comma 5, d. Igs. n. 152 del 2006, in ordine al quale, peraltro, né lo
spedizioniere né il destinatario erano in possesso delle autorizzazioni per
raccolta, trasporto e trattamento dei rifiuti. In forza di ciò, la Corte – con
motivazione del tutto adeguata, logica e fondata su precise risultanze istruttorie
– ha quindi affermato, contrariamente al contenuto del gravame, che quanto
rinvenuto non poteva esser considerato “sottoprodotto” ai sensi dell’art. 184-bis,
comma 1, d. Igs. n. 152 del 2006, difettandone i presupposti e, in particolare, la
possibilità di utilizzare “la sostanza o l’oggetto direttamente senza alcun ulteriore
trattamento diverso dalla normale pratica industriale” (lett. c). Ed ha allora
concluso per il reato di deposito incontrollato di rifiuti finalizzato al riempimento
della cava, in tal senso confermando la derubricazione compiuta dal primo
Giudice; e senza che, dunque, possa condividersi la fumosa doglianza difensiva
contenuta nel ricorso, in ragione della quale la sentenza sarebbe giunta «con
motivazione poco chiara a sostenere provata la natura di rifiuti dei materiali».
Da ultimo, quanto alla responsabilità di Simone Belotti, si osserva che, per
un verso, il motivo di appello risultava oltremodo generico («Non può ritenersi
soddisfacente l’addebito di responsabilità e non si ritiene appagante per nulla il
passaggio motivazionale che lo riguarda») e, per altro verso, la risposta fornita
dalla Corte appare comunque del tutto adeguata; la sentenza, infatti, ha
sottolineato che il ricorrente – socio della “Femar” – era figlio e collaboratore del
coimputato, nonché colui che era subito intervenuto dopo il fermo del camion e
che poi aveva presenziato alla perquisizione della cava.

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attività estrattiva e l’ordine di recupero ambientale, aveva presentato nel 2008

I ricorsi, pertanto, debbono essere dichiarati inammissibili. Alla luce della
sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a
norma dell’art. 616 cod. proc. pen. ed a carico di ciascun ricorrente, l’onere delle
spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 ciascuno in favore della Cassa
delle ammende.
Così deciso in Roma, il 26 novembre 2015

onfigliere estensore

Il Presidente

della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 1.000,00.

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