Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5089 del 23/01/2014


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 5089 Anno 2014
Presidente: DE ROBERTO GIOVANNI
Relatore: APRILE ERCOLE

SENTENZA

sul ricorso presentato da
Suljejmani Suljejman, alias Sulejmani Sulejman, nato a Vrapciste (Macedonia) il
12/02/1973

avverso la sentenza del 31/07/2013 della Corte di appello di Roma;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Ercole Aprile;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Angelo
Di Popolo, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito per l’estradando l’avv. PietroF Carotti, che ha concluso chiedendo
l’annullamento della sentenza impugnata.

RITENUTO IN FATTO
E CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Roma dichiarava
l’esistenza delle condizioni per l’accoglimento della domanda di estradizione
presentata dalla Repubblica di Macedonia nei confronti del cittadino macedone

Data Udienza: 23/01/2014

Suljejman Suljejmani, alias Sulejman Sulejmani, in relazione alla sentenza
definitiva di condanna, pronunciata il 22/04/2010, con la quale la Corte di
appello di Gostivar aveva riconosciuto la sua responsabilità in relazione ai reati di
fabbricazione, detenzione e commercio abusivo di un fucile automatico cal. 7,62,
di due cartucce e di 67 pallottole dello stesso calibro, commessi in Gostivar il
27/08/2002, per i quali gli era stata irrogata la pena di anni due di reclusione.
Rilevava la Corte di appello come sussistessero le condizioni previste tanto
dalla Convenzione europea di estradizione di Parigi del 1957, ratificata e resa

Repubblica di Macedonia), quanto dal nostro codice di rito, per accogliere quella
richiesta di estradizione passiva. In particolare, la Corte territoriale osservava
come i reati per i quali il Suljejmani era stato condannato rientrassero nel novero
di quelli per i quali è consentita l’estradizione, in quanto corrispondenti alle
fattispecie delittuose previste dagli artt. 10 e 12 della legge n. 497 del 1974; ed
ancora come non vi fossero ragioni per ritenere che l’estradando fosse
perseguitato per motivi di natura politica o che sarebbe stato sottoposto nel suo
Paese a pene o trattamenti tali da configurare una violazione dei diritti
fondamentali della persona.

2.

Avverso tale sentenza ha presentato ricorso l’estradando, con atto

sottoscritto dal suo difensore avv. Pietro Cerotti, il quale ha dedotto i seguenti
due motivi.
2.1. Violazione di legge, in relazione agli artt. 26 Cost., 698 cod. proc. pen. e
3 CEDU, per avere la Corte distrettuale reputato sussistenti le condizioni per
l’accoglimento della richiesta di estradizione benché i reati commessi dal
Suljejmani rientrino nel novero di quelli “politici”, in quanto commessi durante il
periodo nel quale la provincia macedone di Gostivar era interessata da incursioni
dei militari dell’esercito di liberazione del confinante Kosovo, dunque consumati
per potersi difendere in eventuali disordini civili conseguenti allo scioglimento
della ex Jugoslavia.
2.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 13 cod. pen. e 2 della
Convenzione europea di estradizione di Parigi del 1957, ratificata e resa
esecutiva in Italia dalla legge 30 gennaio 1963 n. 300, per avere la Corte di
appello erroneamente considerato rispettato il principio della doppia
incriminabilità benché i reati per i quali era stato condannato fossero sanzionati
con pene sproporzionate tanto nel rapporto tra le due fattispecie , quanto
rispetto a quelle comminate nell’ordinamento giuridico italiano.

3. Ritiene la Corte che il ricorso vada rigettato.
2

esecutiva in Italia dalla legge 30 gennaio 1963 n. 300 (pure vigente nella

3.1. Il primo motivo del ricorso è infondato.
Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo
il quale, in tema di estradizione per l’estero, la nozione di reato politico a fini
estradizionali trova fondamento non nell’art. 8 cod. pen., nel quale il reato
politico è definito in funzione repressiva, bensì nelle norme costituzionali, che lo
assumono in una più ampia funzione di garanzia della persona umana, finalizzata
a limitare il diritto punitivo dello Stato straniero (così, da ultimo, Sez. 6, n.

norma di riferimento non possa essere costituita da quella contenuta nell’art. 8
cod. pen., dato che, in maniera incongrua, si farebbe dipendere la nozione
costituzionale da una definizione prevista da una disposizione di legge ordinaria
(che, peraltro, risponde ad una logica di ampliamento della pretesa punitiva
statuale), ma debba essere rappresentata da quelle dettate dagli artt. 10,
comma 4, e 26, comma 2, Cost., che vietano, in generale, l’estradizione per reati
politici tanto degli stranieri quanto dei cittadini: norme queste con le quale,
nell’impostazione generale della Carta fondamentale, si è inteso garantire il
cittadino o lo straniero dalle inammissibili pretese punitive avanzate da Stati
esteri.
Tuttavia, per poter definire l’inammissibilità di tali pretese, da cui consegue il
divieto di estradizione, non è possibile considerare aspetti di natura meramente
“soggettiva”, connessi cioè alle finalità o agli scopi delle condotte incriminate,
che finirebbero per lasciare all’interprete margini di eccessiva discrezionali, ma
occorre valorizzare elementi di natura “oggettiva”. Così, in un’ottica sostanziale, i
reati sono qualificabili come politici in ragione dell’interesse giuridico che risulti
leso (si pensi ai delitti di manifestazione di pensiero che siano stati consumati
all’estero per contrastare regimi illiberali e tutelare libertà fondamentali), purché
risultino ispirati dalla volontà di affermare valori di libertà e democrazia protetti
dalla nostra Costituzione, salvo che, per la particolare atrocità ed eccezionale
gravità delle modalità della loro commissione, non si pongano essi stessi in
contrasto con i valori della Carta fondamentale (come avviene per i reati di
terrorismo, per i quali le convenzioni internazionali tendono oramai a stabilire
una sorta di “depoliticizzazione” a fini estradizionali). Tuttavia occorre ampliare
la portata applicativa del divieto di estradizione, con una integrazione del ‘punto
di vista’ della politicità del reato in ragione della tutela dell’estradando sul piano
processuale, comprendendo quei reati rispetto ai quali, prescindendo persino
dalla loro odiosità, sia necessario garantire una tutela latamente “politica”
all’interessato: è possibile, dunque, affermare che, ai fini della individuazione
dell’ambito di operatività del divieto di estradizione di cui agli artt. 10, comma 4,

3

31123 del 19/06/2003, Baazaoui, Rv. 226520). In tale ottica va ribadito che la

e 26, comma 2, Cost., il reato è ‘politico’ anche quando, indipendentemente dal
bene giuridico offeso dalla condotta illecita, vi sia la fondata ragione di ritenere
che, proprio per la “politicità” della condotta illecita, l’estradando possa essere
sottoposto nello Stato straniero richiedente ad un processo penale non equo o
alla esecuzione di una pena discriminatoria ovvero ispirata da iniziative
persecutorie per ragioni politiche, che ledono diritti fondamentali dell’individuo,
quali il diritto al rispetto del principio di uguaglianza, il diritto ad un equo
processo ed il divieto di trattamenti disumani o degradanti verso i detenuti.

estradizione con riferimento al caso di specie, dato che il ricorrente è stato
riconosciuto colpevole di reati che in questa sede non sono qualificabili come
“politici”, perché dallo stesso asseritamente commessi solo per tutelare se stesso
da eventuali iniziative offensive attuate da appartenenti ad altri ceppi etnici,
nell’ambito territoriale, però, dello Stato democratico di propria appartenenza:
reati per i quali egli è stato condannato all’esito di un processo penale svoltosi
senza alcun intento di persecuzione politica e nel rispetto delle regole poste a
tutela dei diritti fondamentali della persona, alle quali non risultano neppure
contrapporsi le modalità di esecuzione della pena detentiva irrogata.

3.2. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
Questa Corte ha più volte sottolineato che, ai fini della concedibilità
dell’estradizione per l’estero, per soddisfare il requisito della doppia
incriminabilità di cui all’art. 13, comma 2, cod. pen., non è necessario che lo
schema astratto della norma incriminatrice dell’ordinamento straniero trovi il suo
esatto corrispondente in una norma del nostro ordinamento, ma è sufficiente che
lo stesso fatto sia previsto come reato da entrambi gli ordinamenti, a nulla
rilevando l’eventuale diversità, oltre che del trattamento sanzionatorio, anche del
titolo e di tutti gli elementi richiesti per la configurazione del reato (così, tra le
molte, Sez. 6, n. 40169 del 09/11/2010, Schucter, Rv. 248930; Sez. 6, n. 4965
del 13/01/2009, Mihai, Rv. 242697; Sez. 6, n. 47614 del 01/10/2003, Buda, Rv.
227818; Sez. 1, n. 4407 del 14/09/1995, Aramini, Rv. 202384).
Nel caso di specie, è di tutta evidenza la sostanziale corrispondenza tra i reati
per i quali il ricorrente è stato condannato in Macedonia, previsti dall’art. 396,
comma 2, del codice penale di quel paese, ed i reati di fabbricazione e
detenzione illegale di arma comune da sparo previsti nel nostro ordinamento
dagli artt. 1 e 2 della legge n. 895 del 1967, come modificati rispettivamente
dagli artt. 9 e 10 della legge n. 497 del 1974 (dovendosi considerare erroneo il
riferimento, contenuto nella sentenza gravata, all’art. 12 della stessa legge, che
attiene al porto illegale in luogo pubblico), senza che abbia rilevanza alcuna la
4

Alla luce di tali criteri ermeneutici deve escludersi l’operatività del divieto di

lamentata circostanza di una non esatta coincidenza degli elementi costitutivi
delle due anzidette fattispecie incriminatrici. Né conduce a differenti valutazioni
l’asserita irragionevole sproporzione tra i limiti edittali di pena fissati dalle norme
dei due ordinamenti, tenuto conto che il confronto tra le due normativa dimostra
una sostanziale identità di pene comminate, atteso che l’estradando è stato
sanzionato con l’irrogazione della pena di due anni di reclusione, a fronte di pena
edittale prevista dal codice penale macedone da un minimo di un anno ad un
massimo di dieci, e che gli artt. 1 e 2 della citata nostra legge n. 895 del 1967, e

di reclusione e da uno ad otto anni di reclusione, oltre alle pene pecuniarie.
In tale ottica è pure irrilevante la circostanza che la pena detentiva comminata
per i diversi reati previsti dal comma 1 del citato art. 396 del codice penale
macedone sia molto più tenue, trattandosi di disposizione riferibile a condotte
illecite meno gravi di quelle la cui sussistenza è stata riconosciuta nella sentenza
di condanna emessa dall’autorità giudiziaria straniera.
Resta ovviamente fermo il potere discrezionale del Ministero della giustizia di
rivalutare tali circostanze al momento dell’adozione del decreto finale di
estradizione.

4. Al rigetto del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la
condanna del ricorrente al pagamento in favore dell’erario delle spese del
presente procedimento.
Alla cancelleria vanno demandati gli adempimenti di cui all’art. 203 disp. att.
cod. proc. pen.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 203 disp. att. cod. proc.
pen.
Così deciso il 23/01/2014

succ. mod., prevedono limiti edittali di pena rispettivamente da tre a dodici anni

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