Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5087 del 23/01/2014


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 5087 Anno 2014
Presidente: DE ROBERTO GIOVANNI
Relatore: APRILE ERCOLE

SENTENZA

sul ricorso presentato dal
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Messina
nel procedimento nei confronti di
Bartolone Nicola, nato in Germania il 14/04/197‘

Nonché sul ricorso presentato dallo stesso Bartolone Nicola,

avverso l’ordinanza del 06/08/2013 del Tribunale di Messina;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere Ercole Aprile;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Angelo
Di Popolo, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso del P.M.; con
riferimento al ricorso dell’indagato l’annullamento con rinvio limitatamente alle
esigenze cautelari e l’inammissibilità per il resto.

RITENUTO IN FATTO
E CONSIDERATO IN DIRITTO

Data Udienza: 23/01/2014

1. Con l’ordinanza sopra indicata il Tribunale di Messina, adito ai sensi dell’art.
309 cod. proc. pen., confermava il provvedimento del 09/07/2013 con il quale il
Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale aveva disposto
l’applicazione della misura degli arresti domiciliari nei confronti di Nicola
Bartolone in relazione ai reati di cui agli artt. 416 cod. pen. (capo 1)
dell’imputazione), 81, 110, 314 cod. pen. e 61 n. 2, 81 e 640 bis cod. pen. (capi
2)-3), 6)-7), 10)-11), 16)-17), 25-26) dell’imputazione).
Rilevava il Tribunale come gli elementi acquisiti durante le indagini avessero

anche se taluni dei fatti oggetto di addebito dovessero essere qualificati in
termini di truffa aggravata e non anche di peculato, in quanto l’erogazione di
fondi regionali (per l’organizzazione di corsi di formazione professionale) in
misura maggiorata era avvenuta, anche per le quote di acconto, sulla base di
quanto chiesto e rappresentato fraudolentemente dall’associazione ARAM.

2. Avverso tale ordinanza ha presentato ricorso il Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale di Messina il quale, sottolineata l’esistenza del proprio
interesse ad impugnare, ha denunciato la violazione di legge, in relazione agli
artt. 640, 640 bis e 314 cod. pen., ed il vizio di motivazione, per avere il
Tribunale del riesame erroneamente qualificato i fatti oggetto di accertamento
giudiziale, posto che per le somme ricevute dalla suddetta associazione a titolo di
primo e di secondo acconto erano state liquidate senza alcuna verifica da parte
degli uffici regionali, chiamati ad effettuare un controllo solo sulla
documentazione giustificativa delle spese sostenute, prodotta in sede di
rendicontazione con la richiesta finale, talché le somme del finanziamento
pubblico ricevute (anche per il concorso dall’indagata), oggetto di
appropriazione, erano già entrate nel possesso o nella disponibilità dell’incaricato
di pubblico servizio, talché la successiva condotta di produzione di
documentazione fraudolenta non era stata finalizzata a permettere
quell’appropriazione ma a giustificarla formalmente ex post.

3. Contro la stessa ordinanza ha presentato ricorso anche il Bartolone, con atto
sottoscritto personalmente, il quale ha dedotto i seguenti tre motivi.
3.1. Violazione di legge, in relazione agli artt. 640 bis cod. pen. e 273 cod.
proc. pen., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta
illogicità, per avere il Tribunale omesso di considerare che i contratti stipulati dal
Bartolone erano di normale affitto e non di sublocazione, e senza debitamente
considerare la posizione del prevenuto all’interno dell’associazione Aram.

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dimostrato la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagata,

3.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 416 cod. pen. e 273 cod. proc.
pen., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta
illogicità, per avere il Collegio del riesame confermato il provvedimento genetico
della misura senza illustrare quale fosse il ruolo del Bartolone in quel presunto
sodalizio criminale e senza indicare gli elementi costitutivi della stessa
associazione per delinquere.
3.3. Vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta
illogicità, per avere il Tribunale di Messina sostenuto l’esistenza del pericolo di

lontano periodo 2008-2009, che il Bartolone si è dimesso da ogni ruolo nell’Aram
e che la posizione del predetto è analoga a quella del coindagato Caliri per il
quale il G.i.p. ha revocato la misura a suo tempo applicata.

4. Ritiene la Corte che il ricorso del P.M. sia inammissibile.

4.1. Sussiste l’interesse del P.M. ad impugnare in quanto la questione della
corretta qualificazione giuridica dei fatti accertati ha, nel caso di specie, rilevanti
effetti pratici, incidendo sul computo del termine di durata della custodia
cautelare (in senso conforme Sez. 6, n. 48764 del 06/12/2011, Pmt in proc.
Leone, Rv. 251569, in relazione ad una fattispecie nella quale era stato
impugnato un provvedimento con cui l’originario reato di concussione era stato
‘derubricato’ in quello di violenza privata; e, con riferimento ad una ipotesi nella
quale la questione concerneva la sussistenza di una circostanza aggravante ad
effetto speciale, dal cui riconoscimento sarebbe potuta conseguire una più lunga
durata dei termini di custodia, Sez. 1, n. 25949 del 27/05/2008, P.M. in proc.
Minotti e altri, Rv. 240464; contra la sola Sez. 6, n. 18091 del 08/03/2011, PM
in proc. Bellavia, Rv. 250270).
L’interesse del P.M. è, infatti, sia concreto, perché la riqualificazione dei fatti,
originariamente contestati in termini di peculato, come ipotesi di truffa
aggravata, comporta, in ragione del diverso limite edittale massimo, un diverso e
più ridotto termine di durata della custodia cautelare per le fasi procedimentali
indicate rispettivamente nelle lett. a), b) e b bis) dell’art. 303, comma 1, cod.
proc. pen.; che attuale, poiché la mancata proposizione del ricorso per
cassazione da parte del P.M. avverso l’ordinanza del Tribunale che, in sede di
appello, aveva riqualificato i fatti addebitati, con gli effetti innanzi precisati,
avrebbe comportato per lo stesso P.M. una preclusione a riproporre la questione
dinanzi al giudice della cautela che fosse stato sollecitato a dichiarare la perdita
di efficacia della misura per decorrenza del termine di durata di fase.

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recidiva, senza considerare che i reati oggetto di addebito risultano commessi nel

D’altro canto, il riconoscimento, in siffatte situazioni, dell’interesse ad
impugnare del rappresentante della pubblica accusa appare coerente ad un
sistema nel quale, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di
legittimità, anche l’interesse dell’indagato a ricorrere per cassazione avverso
l’ordinanza del tribunale del riesame, che abbia ritenuto sussistente una
circostanza aggravante ad effetto speciale, sussiste solamente se da quella
statuizione conseguano immediati riflessi sulla valutazione della gravità del fatto
ovvero sul computo della durata massima della custodia cautelare (in questo

1, n. 30531 del 30/06/2010, Bonfitto, Rv. 248320).
Va, dunque, ribadito il principio di diritto secondo il quale nel procedimento
incidentale cautelare sussiste l’interesse del P.M. ad impugnare il provvedimento
con il quale venga diversamente qualificato il reato addebitato quando da tale
decisione consegua la revoca della misura cautelare in corso o la riduzione dei
termini di durata massima della medesima misura.
Né conduce ad una differente conclusione la circostanza che, nel caso oggi in
esame, l’ordinanza emessa dal Tribunale del riesame rechi nel dispositivo una
decisione di conferma del provvedimento genetico della misura cautelare e solo
nella motivazione la precisazione della differente qualificazione giuridica, in
quanto è pacifico che, a differenza di quanto accade per la sentenza, nella quale
la statuizione contenuta nel dispositivo prevale sempre sull’eventuale contenuto
difforme della parte motiva, nella ordinanza – qual è quella adottata dal Collegio
ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen. – vi è una inscindibilità tra dispositivo e
motivazione talchè, in caso di divergenza, è doverosa una lettura integrata
dell’intero provvedimento (così, ex multis, Sez. 5, n. 27787 del 20/05/2004,
Fattorusso, Rv. 228709; Sez. 1, n. 4857 del 09/07/1999, Garreffa, Rv. 214089).

3.2. Tuttavia, la doglianza formulata dal P.M. è, nel merito, manifestamente
infondata.
Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte il principio
secondo il quale la distinzione tra peculato e truffa non va ravvisata nella
precedenza cronologica dell’appropriazione rispetto all’attività ingannatoria o
viceversa, ma nel modo in cui il funzionario infedele viene in possesso del danaro
del quale si appropria: per cui sussiste peculato quando l’agente fa proprio il
danaro della pubblica amministrazione, del quale abbia già il possesso per
ragione del suo ufficio o servizio, mentre vi è truffa qualora il pubblico ufficiale o
l’incaricato di pubblico servizio, non avendo tale possesso, si sia procurato
fraudolentemente, con artifici e raggiri, la disponibilità del bene oggetto della sua
illecita condotta. Più in particolare, ricorre il peculato quando l’artificio od il
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senso, tra le molte, Sez. 6, n. 7203 del 08/02/2013, Vuocolo, Rv. 254507; Sez.

raggiro (anche mediante la creazione di falsa documentazione) siano stati posti
in essere non per entrare in possesso del pubblico danaro, ma per occultare la
commissione dell’illecito; al contrario, nella truffa il momento consumativo del
reato coincide con il conseguimento del possesso a cagione dell’inganno e quale
diretta conseguenza di esso (così Sez. 6, n. 11902 del 11/05/1994, Capponi ed
altro, Rv. 200200; in senso conforme, in seguito, Sez. 6, n. 32863 del
25/05/2011, P.G. in proc. Pacciani, Rv. 250901; Sez. 1, Sentenza n. 26705 del
13/05/2009, Troso, Rv. 244710; Sez. 6, n. 35852 del 06/05/2008, Savorgnano,

sostanzialmente in termini anche Sez. 6, n. 16980/08 del 18/12/2007, Gocini e
altri, Rv. 239842).
A tale regula iuris il Tribunale di Messina si è correttamente uniformato,
evidenziando, con motivazione congrua, priva di vizi di manifesta illogicità, come
gli artifici, descritti nei capi d’imputazione, fossero serviti non per “mascherare”
le indebite appropriazioni di denaro, bensì proprio per ottenere disposizioni
patrimoniali da parte degli uffici dell’ente pubblico tratti in inganno. In altri
termini, il denaro oggetto di indebita appropriazione non era “in possesso” dei
responsabili dell’associazione che aveva chiesto ed ottenuto il finanziamento dei
corsi di formazione professionale, ma era stato acquisito sulla base di
documentazione falsa utilizzata per creare la parvenza di esistenza di spese
‘gonfiate’ in relazione alle quali l’associazione sarebbe stata ammessa a
beneficiare di quei finanziamenti ed avrebbe ottenuto tanto gli importi a titolo di
acconto o anticipazione (nella misura rispettivamente del 50% e del 30%
rispetto al totale), liquidati sulla base di preventivi che già contenevano
l’indicazione delle spese in misura maggiorata (dunque, somme anticipate in
proporzione appunto alle spese prospettate); quanto l’importo finale a saldo (del
residuo 20%), determinato sulla base di una verifica contabile sui costi reali, in
base alla documentazione di spesa sostenuta. In pratica, è stato
convincentemente chiarito come fosse irrilevante che i dirigenti dell’associazione
aggiudicataria del finanziamento pubblico avevano dapprima indicato quelle
spese e poi le avevano rendicontate come effettuate solo al momento della
liquidazione della terza ed ultima

tranche del finanziamento: l’operazione

economica illecita doveva essere considerata in maniera unitaria, considerato che
sin dall’inizio era stato prospettato all’ente pubblico finanziatore un costo
sproporzionato, in seguito documentato in fase di rendicontazione finale (v.
pagg. 2-10 ord. impugn.).

5. Anche il ricorso del Bartolone è inammissibile.

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Rv. 241186; Sez. 6, n. 5799 del 21/03/1995, Ummaro, Rv. 201680;

5.1. Il primo ed il secondo motivo del ricorso sono stati presentati per fare
valere ragioni diverse da quelle consentite dalla legge.
Lungi dall’evidenziare manifeste lacune o incongruenze capaci di disarticolare
l’intero ragionamento probatorio adottato dai giudici di merito, il ricorrente ha
formulato censure che riguardano sostanzialmente la ricostruzione dei fatti
ovvero che si risolvono in una diversa valutazione delle circostanze già valutate
dal Tribunale del riesame: censure, come tali, non esaminabili dalla Cassazione.
Ed infatti, è pacifico come il controllo dei provvedimenti di applicazione della

coordinazione logica dell’apparato argomentativo che collega gli indizi di
colpevolezza al giudizio di probabile colpevolezza dell’indagato, nonché il valore
sintomatico degli indizi medesimi anche in relazione alla sussistenza di esigenze
cautelari e alla scelta di una misura adeguata alle medesime esigenze e
proporzionata ai fatti. Controllo che non può comportare un coinvolgimento del
giudizio ricostruttivo del fatto e gli apprezzamenti del giudice di merito in ordine
all’attendibilità delle fonti ed alla rilevanza e concludenza dei risultati del
materiale probatorio, quando la motivazione sia adeguata, coerente ed esente da
errori logici e giuridici.
Questa Corte ha, dunque, il compito di verificare se il giudice di merito abbia
dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la
gravità del quadro indiziario e l’esistenza di bisogni di cautela a carico
dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la
valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di
diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie, nella peculiare
prospettiva dei procedimenti incidentali de libertate (si veda, ex multis, Sez. U,
n. 11 del 22/03/2000, Audino, Rv. 215828).
Alla luce di tali regulae iuris, bisogna riconoscere come i giudici di merito
abbiano dato puntuale contezza degli elementi indiziari sui quali si fonda il
provvedimento cautelare. Dati informativi dai quali, in termini esaurientemente
congrui e logicamente ineccepibili, il Tribunale ha desunto la conferma della
esistenza del requisito della gravità indiziaria con riferimento a tutti i reati
oggetto di addebito: avendo spiegato, da un lato, come i rapporti di due distinti
enti, la ARAM, facente capo a Elio Sauta, di cui il Bartolone era il vice presidente,
e la EI.Fi. s.r.I., legalmente rappresentata dalla Feliciotto, moglie del Sauta,
fossero stati finalizzati alla sistematica commissione di quei delitti contro il
patrimonio; e come, da altro lato, la divisione non occasionale di compiti e di
ruoli tra i prevenuti ed i loro complici all’interno del sodalizio criminale;
l’esistenza di una compagine organizzativa dedita, in maniera stabile e
continuativa, alla commissione di truffe e falsi diretti all’accaparramento dei
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misure limitative della libertà personale sia diretto a verificare la congruenza e la

finanziamenti pubblici; la prolungata condivisione tra gli associati dei programmi
attuativi e degli interessi illeciti perseguiti, nonché la predisposizione di
accorgimenti comuni per contrastare le indagini svolte dalla polizia giudiziaria,
fossero tutti elementi indiziari dai quali poter desumere che l’attività delittuosa
de qua era stata espressione di un accordo permanente e destinato a protrarsi
oltre al momento di consumazione dei singoli delitti fine, reati ascrivibili ad
comune programma attuato sulla base di una vincolante intesa non circoscritta
nel tempo, avvalendosi della predisposizione di mezzi ed attività necessarie per

impugn.). Inoltre, i Giudici del riesame hanno convincentemente spiegato come
la consulenza tecnica disposta dal P.M. avesse comprovato l’esistenza degli
elementi costitutivi della truffa aggravata nei confronti in danno della Regione,
delitto integrato dalla presentazione, da parte dell’associazione ARAM, di
preventivi e di documentazione di rendicontazione di spesa chiaramente ‘gonfiati’
nella loro portata economica (così per i costi di locazione di immobili,
artatamente aumentati rispetto a quelli di mercato; v. pagg. 10 e segg. ord.
impugn.); e come, al di là degli incarichi formali, l’operatività della Aram facesse
capo anche all’odierno ricorrente Bartolone, che si era prestato a sottoscrivere i
contratti, in luogo del Sauta, che impegnavano quell’associazione(v. pagg. 1314, 16-19 ord. impugn.).

5.2. Quanto all’esigenza cautelare ed ai criteri di scelta della misura cautelare
idonea a contrastare quel bisogno processuale, le doglianze difensive appaiono
manifestamente infondate, in quanto, a fronte di una (peraltro alquanto
generica) denuncia di carenza o contraddittorietà degli argomenti valorizzati dai
Giudici di merito, il provvedimento impugnato risulta qualificato da una
motivazione completa e congrua: con la quale il Tribunale del riesame ha chiarito
come l’obiettiva gravità delle condotte delittuose poste in essere dall’indagato in
un prolungato arco temporale e con modalità espressione di una ‘professionalità’
criminale, siano circostanze idonee ad integrare la sussistenza di un concreto
pericolo che l’indagato, se lasciato in libertà, possa tornare a commettere reati
della stessa specie di quelli per i quali si procede (rischio di recidiva non escluso
dall’intervenuto scioglimento di talune società o associazioni, avendo il prevenuto
dimostrato di poter operare attraverso diverse strutture fittizie, talora
formalmente facenti capo a terzi soggetti, né dalla sola apparente collaborazione
dimostrata verso gli inquirenti, avendo il predetto solo prodotto documentazione
difforme da quella già presentata all’ente erogatore dei finanziamenti pubblici); e
come misure cautelari meno afflittive di quella degli arresti domiciliari, lasciando
all’indagato ampia libertà di movimento e di comunicazione, siano del tutto

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l’esecuzione di ogni singola parte delle azioni criminose (v. pagg. 19-25 ord.

inidonee a prevenire la reiterazione di illeciti analoghi a quelli oggetto di
indagine, commessi a partire dal 2007-2008, nell’ambito di una struttura
organizzativa che aveva dimostrato di essere in grado di continuare ad operare
anche negli anni successivi, utilizzando le strutture di altre compagini associative
(v. pagg 25-27 ord. impugn.).

6. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, a norma dell’art.
616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento in favore dell’erario

delle ammende di una somma, che si stima equo fissare nell’importo indicato nel
dispositivo che segue.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso del Pubblico Ministero.
Dichiara inammissibile il ricorso del Bartolone e lo condanna al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della cassa delle
ammende.
Così deciso il 23/01/2014

delle spese del presente procedimento ed al pagamento in favore della cassa

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