Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 50724 del 07/11/2013
Penale Ord. Sez. 7 Num. 50724 Anno 2013
Presidente: AGRO’ ANTONIO
Relatore: PAOLONI GIACOMO
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
BARBAGLIA MANUELA N. IL 28/01/1979
avverso la sentenza n. 5829/2010 CORTE APPELLO di MILANO, del
12/12/2012
dato avviso alle parti;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIACOMO PAOLONI;
Data Udienza: 07/11/2013
R. G. 11578 / 2013
Con la sentenza suindicata la Corte di Appello di Milano ha confermato la sentenza resa
all’esito di giudizio abbreviato dal Tribunale di Lodi, che ha dichiarato Manuela Barbaglia
colpevole del reato di evasione dal regime cautelare degli arresti domiciliari (essendosi
arbitrariamente allontanata dalla comunità terapeutica sede della misura cautelare
domestica), riducendo tuttavia la pena, previa concessione dell’attenuante di cui all’art. 385
co. 4 c.p. ed esclusa l’incidenza della recidiva, a due mesi di reclusione.
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso il difensore dell’imputata,
deducendo erronea applicazione dell’art. 385 co. 3 c.p. e illogicità e contraddittorietà della
motivazione, poiché difetterebbe la prova dell’elemento soggettivo del reato, l’imputata non
avendo avuto intenzione di eludere la misura cautelare o di sottrarsi ai controlli di p.g. (in
pratica non rendendosi ben conto del proprio contegno per effetto dei tranquillanti assunti).
Il ricorso è inammissibile per indeducibilità e manifesta infondatezza dei motivi di
censura, con i quali si opera una rivisitazione fattuale delle fonti di prova, per altro aspecifica
perché riproduttiva di doglianze valutate dalla Corte territoriale e confutate già dal giudice di
primo grado. Fonti di prova analizzate con logico giudizio dalla sentenza della Corte e non
rivalutabili in sede di legittimità mediante una lettura delle norme incriminatrici della evasione
dalla custodia domiciliare palesemente distonica rispetto ai caratteri di tale custodia.
La misura cautelare domiciliare è misura coercitiva inframurale equiparata a tutti gli
effetti alla custodia in carcere, che -per meno stringenti ragioni socialpreventive- l’indagato o
imputato è ammesso a sopportare in luogo diverso dal carcere, cioè presso la propria
abitazione. Sicché i limiti, di natura spaziale, motoria e relazionale, imposti con la custodia in
carcere allo status libertatis del soggetto sono interamente riprodotti nella cautela domestica.
La fattispecie è integrata da un reato proprio a forma libera, nel senso che il bene protetto,
cioè l’esigenza dell’amministrazione della giustizia di assicurare il rispetto delle decisioni
giudiziarie limitative della libertà, realizzata con lo strumento della custodia inframurale, può
essere offeso con qualsiasi modalità esecutiva e quali che siano i motivi che inducono il
soggetto a eludere la vigilanza sullo stato custodiale e a sottrarsi alla stessa. La struttura
normativa della condotta sanzionata dall’art. 385 co. 3 c.p. è realizzata, infatti, da qualsiasi
forma di sottrazione o elusione rispetto alla misura domestica e al suo stretto ambito spaziale
di rigorosa interpretazione, senza necessità alcuna di ulteriori evenienze fattuali. Il reato è
perfezionato dal semplice volontario e consapevole allontanamento dalla sede cautelare
domiciliare, pur se le motivazioni dell’agire non si traducano nella decisione di sottrarsi in via
definitiva alla misura domestica, come nel caso in cui -ad esempio- l’agente abbia voluto
allontanarsi solo in via temporanea dal domicilio custodiale e con il proposito di ritornarvi
(Cass. Sez. 6, 22.2.1999 n. 3948, Fiore, rv. 213887). Il reato è caratterizzato da dolo
generico, essendo sufficiente che la condotta di uscita (id est evasione) dell’imputato o
condannato dallo stretto ambito del suo domicilio sia sorretta dalla coscienza di fruire di una
libertà di movimento spazio-temporale che gli sarebbe preclusa ove versasse in regime
carcerario dalla corretta esecuzione della misura domiciliare.
All’inammissibilità del ricorso segue la condanna della ricorrente alla rifusione delle
spese processuali e al versamento della somma di euro 1.000,00 alla cassa delle ammende.
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di euro mille in favore della cassa delle ammende.
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Roma, 7 novembre 209
Fatto e diritto