Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 50702 del 07/11/2013
Penale Ord. Sez. 7 Num. 50702 Anno 2013
Presidente: AGRO’ ANTONIO
Relatore: PAOLONI GIACOMO
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
LAPADULA GIAMPIETRO N. IL 05/04/1970
avverso la sentenza n. 2247/2007 CORTE APPELLO di BRESCIA, del
13/03/2012
dato avviso alle parti;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIACOMO PAOLONI;
Data Udienza: 07/11/2013
R. G. 11064 / 2013
Con la sentenza suindicata la Corte di Appello di Brescia ha confermato la sentenza
resa all’esito di giudizio abbreviato dal Tribunale di Bergamo, che ha dichiarato Giampiero
Lapadula colpevole del reato di evasione dal regime cautelare degli arresti domiciliari
(essendosi arbitrariamente allontanato dalla comunità sede della misura cautelare
domestica), condannandolo alla pena di sei mesi di reclusione.
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso il difensore dell’imputato,
deducendo erronea applicazione dell’art. 385 co. 3 c.p. e illogicità e contraddittorietà della
motivazione, poiché difetta la prova dell’elemento materiale del reato e del corrispondente
elemento soggettivo, l’imputato non avendo avuto alcuna intenzione di eludere la misura
cautelare o di sottrarsi ai controlli di p.g. In subordine si lamenta l’ingiustificato diniego delle
attenuanti generiche.
Il ricorso è inammissibile per genericità (quanto alla pena) e per indeducibilità e
manifesta infondatezza dei motivi di censura sul merito della regiudicanda, con i quali si opera
una rivisitazione fattuale delle fonti di prova, per altro aspecifica perché riproduttiva di
doglianze valutate dalla Corte territoriale e confutate già dal giudice di primo grado. Fonti di
prova analizzate con logico giudizio dalla sentenza della Corte e non rivalutabili nel giudizio di
legittimità mediante una lettura delle norme incriminatrici della evasione dalla custodia
domiciliare palesemente distonica rispetto ai caratteri di tale custodia.
La misura cautelare domiciliare è misura coercitiva inframurale equiparata a tutti gli
effetti alla custodia in carcere, che -per meno stringenti ragioni socialpreventive- l’indagato o
imputato è ammesso a sopportare in luogo diverso dal carcere, cioè presso la propria
abitazione. Sicché i limiti, di natura spaziale, motoria e relazionale, imposti con la custodia in
carcere allo status libertatis del soggetto sono interamente riprodotti nella cautela domestica.
La fattispecie è integrata da un reato proprio a forma libera, nel senso che il bene protetto,
cioè l’esigenza dell’amministrazione della giustizia di assicurare il rispetto delle decisioni
giudiziarie limitative della libertà, realizzata con lo strumento della custodia inframurale, può
essere offeso con qualsiasi modalità esecutiva e quali che siano i motivi che inducono il
soggetto a eludere la vigilanza sullo stato custodiale e a sottrarsi alla stessa. La struttura
normativa della condotta sanzionata dall’art. 385 co. 3 c.p. è realizzata, infatti, da qualsiasi
forma di sottrazione o elusione rispetto alla misura domestica ed al suo stretto ambito
spaziale di rigorosa interpretazione, senza necessità alcuna di ulteriori evenienze fattuali. Il
reato è perfezionato dal semplice volontario e consapevole allontanamento dalla sede
cautelare domiciliare, pur se le motivazioni dell’agire non si traducano nella decisione di
sottrarsi in via definitiva alla misura domestica, come nel caso in cui -ad esempio- l’agente
abbia voluto allontanarsi solo in via temporanea dal domicilio custodiale e con il proposito di
ritornarvi (Cass. Sez. 6, 22.2.1999 n. 3948, Fiore, rv. 213887). Il reato è caratterizzato da
dolo generico, essendo sufficiente che la condotta di uscita (id est evasione) dell’imputato o
condannato dallo stretto ambito del suo domicilio sia sorretta dalla coscienza di fruire di una
libertà di movimento spazio-temporale che gli sarebbe preclusa ove versasse in regime
carcerario dalla corretta esecuzione della misura domiciliare.
All’inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente alla rifusione delle
spese processuali e al versamento della somma di euro 1.000,00 alla cassa delle ammende.
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di euro mille in favore della cassa delle ammende.
Roma, 7 novembr 2013
Fatto e diritto