Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 50674 del 29/01/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 50674 Anno 2013
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sui ricorsi proposti nell’interesse di
1.

Briguglio Francesco, nato a Cinisi il 10/03/1956

2.

Bruno Giuseppe, nato a Palermo il 13/03/1962

3.

Chianchiano Fabio, nato a Palermo il 14/03/1965

4.

Cusimano Antonino, nato a Palermo il 07/06/1945

5.

Davì Gabriele, nato a Palermo il 05/07/1981

6.

Davì Salvatore, nato a Palermo il 03/01/1948

7.

Di Maio Rosolino, nato a Palermo 1’08/07/1981

8.

Di Maggio Gaspare, nato a Cinisi il 29/03/1961

9.

La Vardera Roberto, nato a Palermo il 17/08/1979

10. Lo Verde Giuseppe, nato a Palermo il 13/12/1957
11. Mancuso Antonino, nato a Palermo il 26/03/1961
12. Mangione Salvatore, nato a Palermo il 15/02/1956
13. Messina Rosalia, nata a Palermo il 27/08/1947
14. Ragusa Leonardo, nato a Palermo il 14/11/1942
15. Serio Domenico, nato a Palermo il 20/06/1976
16. Spina Guido, nato a Palermo il 12/07/1965

Data Udienza: 29/01/2013

avverso la sentenza della Corte di appello di Palermo del 05/02/2011

visti gli atti, la sentenza impugnata e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Giuseppe Volpe, che ha concluso chiedendo:
per Briguglio Francesco, l’annullamento con rinvio della sentenza
impugnata con riferimento alla misura di sicurezza, ed il rigetto nel resto;

sentenza impugnata quanto alla condanna pronunciata nei loro confronti
al pagamento delle spese sostenute da soggetti non costituiti parti civili,
con declaratoria di inammissibilità degli altri motivi di ricorso;
per Bruno Giuseppe e Lo Verde Giuseppe, il rigetto dei ricorsi;
per tutti gli altri imputati, dichiararsi la inammissibilità dei ricorsi;

uditi:
per le parti civili Associazione antitrust e antiusura “SOS Impresa
Palermo”, “Solidaria S.C.S. Onlus” e ConfCommercio Palermo, l’Avv.
Fausto Maria Amato;
per le parti civili Bongiovì Marcello, Todaro Giuseppe, “FAI – Federazione
Associata Italiana antiracket e antiusura”, Associazione “Comitato addio
pizzo”, Centro studi e iniziative culturali “Pio La Torre”, Confindustria
Palermo, Confindustria Sicilia, l’Avv. Ettore Barcellona;
i quali hanno chiesto il rigetto dei ricorsi presentati nell’interesse degli imputati,
e la loro condanna alla rifusione delle spese sostenute dalle rispettive parti civili
anzidette, come da notule;

uditi:

per il Bruno, gli Avv.ti Raffaele Bonsignore e Savino Mondello;

per il Chianchiano, l’Avv. Raffaele Bonsignore;
per Davì Gabriele, l’Avv. Antonio Turrisi;

per il Di Maio, l’Avv. Raffaele Bonsignore;
per il Di Maggio, l’Avv. Giampiero Santoro;
per il La Vardera, gli Avv.ti Raffaele Bonsignore e Savino Mondello;

per il Lo Verde, l’Avv. Sandro Furfaro;
per il Mancuso, l’Avv. Raffaele Bonsignore;
per il Mangione, l’Avv. Raffaele Bonsignore;
per la Messina, l’Avv. Giuseppe Oddo;
per il Ragusa, l’Avv. Giuseppe Oddo;

2

per Ragusa Leonardo e Messina Rosalia, l’annullamento senza rinvio della

-

per lo Spina, l’Avv. Luigi Salvati;

i quali hanno concluso chiedendo l’accoglimento dei rispettivi ricorsi e
l’annullamento della sentenza impugnata

RITENUTO IN FATTO

sentenza emessa dal G.u.p. del Tribunale della stessa città in data 04/12/2009,
all’esito di giudizio abbreviato, in forza della quale erano stati – fra gli altri condannati i seguenti imputati:
Francesco Briguglio, alla pena di anni 3 e mesi 4 di reclusione ed euro
800,00 di multa, per delitti di cui agli artt. 416-bis cod. pen. [capo 1)
della rubrica] e 629 cod. pen., 7 d.l. n. 152 del 1991 [capo 2)];

Giuseppe Bruno, alla pena di anni 6 di reclusione ed euro 2.000,00 di
multa, per delitti di cui agli artt. 629 cod. pen., 7 d.l. n. 152 del 1991
[capo 10)];

Fabio Chianchiano, alla pena di anni 9 e mesi 4 di reclusione ed euro
20.000,00 di multa, per delitti di cui agli artt. 416-bis cod. pen. [capo 1)],
74 legge stup. [capo 3)], 2, 4 e 7 legge n. 895 del 1967 e 7 d.l. n. 152
del 1991 [capo 5)];
Antonino Cusimano, alla pena di anni 6 di reclusione ed euro 2.000,00 di
multa, per delitti di cui agli artt. 629 cod. pen., 7 d.l. n. 152 del 1991
[capo 7)];
Gabriele Davì, alla pena di anni 8 e mesi 8 di reclusione, per il delitto di
cui all’art. 74 legge stup. [capo 4)];
Salvatore Davì, alla pena di anni 6 di reclusione ed euro 2.000,00 di
multa, per delitti di cui agli artt. 629 cod. pen., 7 d.l. n. 152 del 1991
[capo 7)];

Rosolino Di Maio, alla pena di anni 8 di reclusione, per il delitto di cui
all’art. 74 legge stup. [capo 4)];
Gaspare Di Maggio, alla pena di anni 6 di reclusione ed euro 2.000,00 di
multa, per delitti di cui agli artt. 629 cod. pen., 7 d.l. n. 152 del 1991
[capo 2)];

Roberto La Vardera, alla pena di anni 8 di reclusione, per il delitto di cui
all’art. 416-bis cod. pen. [capo 1)];
Giuseppe Lo Verde, alla pena di anni 11 e mesi 6 di reclusione, per il
delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. [capo 15)];

3

1. Il 05/02/2011, la Corte di appello di Palermo riformava parzialmente la

Antonino Mancuso, alla pena di anni 6 e mesi 4 di reclusione ed euro
2.400,00 di multa, per delitti di cui agli artt. 629 cod. pen., 7 d.l. n. 152
del 1991 [capi 7) e 13)];
Salvatore Mangione, alla pena di anni 8 di reclusione, per il delitto di cui
all’art. 416-bis cod. pen. [capo 1)];
Rosalia Messina, alla pena di mesi 6 di reclusione, per il delitto di cui agli
artt. 110 e 378 cod. pen. [capo 11)];
Leonardo Ragusa, alla pena di mesi 6 di reclusione, per il delitto di cui agli
artt. 110 e 378 cod. pen. [capo 11)];
Domenico Serio, alla pena di anni 6 di reclusione ed euro 2.000,00 di
multa, per delitti di cui agli artt. 629 cod. pen., 7 d.l. n. 152 del 1991
[capo 12)];
Guido Spina, alla pena di anni 5 di reclusione ed euro 20.000,00 di multa,
per delitti di cui all’art. 73 legge stup. [capo 6)].
I vari imputati erano altresì condannati, oltre alle pene accessorie di legge, a
risarcire i danni subiti dalle parti civili rispettivamente costituite nei loro
confronti; veniva quindi disposta, fra gli altri, a carico del Briguglio, del
Chianchiano, del Davì (Gabriele), del La Vardera, del Lo Verde e del Mangione la
misura di sicurezza dell’assegnazione ad una casa di lavoro, per la durata di 2
anni, a pena espiata.
La Corte territoriale, nei limiti oggi di interesse, confermava in gran parte la
sentenza appellata (anche) dai suddetti imputati, salvo che nei confronti del
Briguglio e del Chianchiano. Il primo si vedeva ridurre la pena inflitta ad anni 1
e mesi 4 di reclusione ed euro 460,00 di multa, con eliminazione della pena
accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici; il secondo veniva
assolto quanto al capo 1), per non avere egli commesso il fatto, mentre la
condanna relativa al capo 3) era annullata per essere il fatto accertato diverso da
quello contestato, con conseguente restituzione degli atti al Pubblico Ministero.
La pena per il residuo addebito in tema di porto e detenzione di armi veniva
rideterminata per lo stesso Chianchiano in anni 2 di reclusione ed euro 300,00 di
multa, e ne derivava l’eliminazione delle pene accessorie e della misura di
sicurezza applicata suo carico.

2. Il processo riguardava essenzialmente addebiti ex art. 416-bis cod. pen.,
e correlate attività estorsive, oggetto di contestazione ai soggetti di cui sopra
quali partecipi dell’associazione mafiosa denominata “Cosa Nostra”: ruolo di
vertice, all’interno dell’anzidetta organizzazione, era ascritto a Salvatore e
Sandro Lo Piccolo, padre e figlio (separatamente giudicati), nella disponibilità dei
quali al momento del loro arresto erano stati rinvenuti numerosi “pizzini” che –

r.

secondo l’ipotesi accusatoria –

documentavano le direttive impartite o le

informazioni ricevute anche a proposito delle condotte estorsive realizzate dal
-4

sodalizio.
La sentenza di appello esaminava partitamente i motivi di gravame esposti
nell’interesse dei singoli imputati, giungendo alle determinazioni sopra
sintetizzate; con riguardo a temi comuni alle doglianze avanzate da più
appellanti, per quanto distintamente trattati in ragione delle diverse posizioni, la
Corte territoriale si soffermava in particolare sulle dichiarazioni rese dai vari

quelle delazioni intrinsecamente attendibili – anche in ragione del condiviso
giudizio di credibilità soggettiva espresso dal G.u.p. sul conto dei collaboratori
medesimi – e adeguatamente riscontrate.
Ad esempio, sulla figura del collaboratore Maurizio Spataro, la Corte di
appello ricordava a pag. 273 che questi – contiguo a personaggi di rilievo
all’interno della famiglia di San Lorenzo – aveva iniziato la propria collaborazione
il 14 novembre 2008, accusandosi anche di fatti per i quali non vi erano ancora
indagini a suo carico e rendendo dichiarazioni che «appaiono assistite da un
elevatissimo grado di attendibilità, anche perché traggono origine dal personale
coinvolgimento del predetto nei fatti criminosi oggetto delle sue narrazioni. In
ogni caso, tutte le dichiarazioni del medesimo – frutto di un patrimonio
conoscitivo derivante da conoscenza diretta e […] dal flusso continuo di
informazioni circolanti all’interno dell’organismo associativo – traggono il
fondamento della propria attendibilità proprio dalla vicinanza del propalante con
soggetti […] posti in posizione di assoluto rilievo al sodalizio criminoso “Cosa
Nostra”. Tali dichiarazioni, circostanziate relativamente al loro contenuto,
appaiono dotate di non comune precisione, in riferimento ai numerosi e specifici
riferimenti a luoghi e tempi dei fatti, alle modalità di svolgimento dei delitti
contestati ed ai soggetti coinvolti e, ancora, ampiamente verosimili. Per quanto
riguarda la genuinità e la spontaneità delle dichiarazioni – e più in generale della
decisione del predetto di collaborare con l’autorità giudiziaria – non può negarsi
che egli ha preso la decisione in maniera del tutto autonoma, senza ricevere
pressioni né sollecitazioni da parte di alcuno […]. Le dichiarazioni del predetto,
valutate sul piano della loro intrinseca consistenza, alla luce dei criteri che
4..

l’esperienza giurisprudenziale ha nel tempo individuato, oltre che spontanee,
sono apparse circostanziate, costanti e coerenti, come si desume dal contesto

— delle ampie risposte date agli inquirenti, con la già detta dovizia di particolari,
con precisione, con abbondanza di contenuti descrittivi, non limitati al solo
oggetto delle domande formulate».

collaboratori di giustizia escussi nel corso delle indagini preliminari, ritenendo

Per converso, sullo specifico problema della natura de relato di buona parte
delle delazioni dei collaboratori medesimi, sostenuta nei motivi di appello, la
Corte sottolineava a pag. 30 (come pure a pag. 171) che «le dichiarazioni del
collaboratore di giustizia su fatti e circostanze attinenti la vita e le attività di un
sodalizio criminoso, appresi come componente, specie se di vertice, del sodalizio,
non sono assimilabili a dichiarazioni de relato, ed assumono rilievo probatorio in
presenza di validi elementi di verifica circa le modalità di acquisizione
dell’informazione resa […]. Nello stesso senso, va sottolineato che in tema di

all’interno di una associazione mafiosa, occorre tenere distinte le informazioni
che lo stesso sia in grado di rendere in quanto riconducibili ad un patrimonio
cognitivo comune a tutti gli associati di quel determinato sodalizio, dalle
ordinarie dichiarazioni de relato, che non sono utilizzabili se non attraverso la
particolare procedura prevista dall’art. 195 cod. proc. pen.: alle prime deve
attribuirsi efficacia probatoria ben maggiore, ma all’inquadramento nell’una o
nell’altra categoria deve provvedersi con estrema cautela, tenendo conto
dell’oggetto della notizia diffusa, delle modalità della sua circolazione, della
caratura criminale di origine del collaboratore».
In proposito, era pertanto da considerare dirimente la presa d’atto del ruolo
apicale assunto da Francesco Franzese – che già dal 2007 aveva intrapreso un
percorso di collaborazione con la giustizia (v. pag. 249) – all’interno di “Cosa
Nostra”, quale reggente della famiglia di Partanna (dato parimenti ribadito a pag.
171 della sentenza impugnata).
In alcuni casi, veniva precisato che i collaboratori di giustizia non si erano
limitati a riferire quanto a loro conoscenza su reati-fine dell’associazione mafiosa,
od ulteriori delitti appresi in ragione della posizione rivestita all’interno
dell’organizzazione, ma si erano invece autoaccusati degli stessi addebiti oggetto
delle dichiarazioni de quibus: ciò, ad esempio, a proposito di Antonino Nuccio,
con riguardo ai fatti contestati sub 4), dal momento che il collaboratore aveva
sempre ammesso «la propria partecipazione alla “società” finalizzata al traffico di
stupefacenti, della quale facevano parte sia Davì Gabriele che Di Maio Rosolino,
oltre che lo stesso Sandro Lo Piccolo» (pag. 167). A proposito di altri episodi,
lungi dal narrare accadimenti appresi da altre fonti più o meno identificate, gli
stessi collaboratori avevano fatto riferimento a quanto da loro direttamente
percepito, trovando riscontri anche in attività di osservazione curate dalla polizia
giudiziaria: ancora a titolo esemplificativo, alle pagg. 267 e 269 si sottolineavano
i documentati rapporti fra lo stesso Nuccio e Roberto La Vardera.

6

dichiarazioni provenienti da collaboratore di giustizia che abbia militato

3. Avverso la sentenza della Corte di appello di Palermo propone ricorso il
difensore di Francesco Briguglio, Avv. Monica Genovese, affidandolo a due
motivi.
3.1 Con il primo, la difesa lamenta mancanza di motivazione in ordine
all’individuazione della pena pecuniaria assunta a base del computo del
trattamento sanzionatorio, avendo la Corte territoriale riconosciuto in favore
dell’imputato sia le circostanze attenuanti generiche che l’ulteriore diminuente
prevista dall’art. 8 d.l. n. 152 del 1991, tuttavia indicando una pena base di €

previsti dall’art. 629 cod. pen. Secondo il ricorrente, i giudici di appello non
avrebbero spiegato le ragioni di tale scelta, né espresso una qualunque esigenza
di adattare la pena inflitta alle peculiarità del caso concreto (omettendo così un
minimo standard motivazionale per far ritenere adempiuto l’obbligo di esporre le
ragioni della decisione e sottrarre la medesima al controllo di legittimità), tanto
più che in punto di pena pecuniaria avrebbero dovuto essere seguiti i criteri
indicati dall’art. 133-bis cod. pen. in ragione delle condizioni economiche
dell’imputato, quale collaboratore di giustizia inserito nel programma di
protezione.
3.2 Con il secondo motivo, la difesa deduce violazione ed erronea
applicazione degli artt. 216 e 217 cod. pen., in ordine all’applicazione della
misura di sicurezza della casa di lavoro, nonché mancanza di motivazione
relativamente allo stesso aspetto: la Corte territoriale avrebbe infatti confermato
la necessità di irrogare al Briguglio anche la misura di sicurezza in parola, sul
solo presupposto dell’intervenuta condanna per il reato di associazione di tipo
mafioso, stante il disposto dell’art. 417 cod. pen.
Secondo la difesa, che richiama alcuni precedenti della giurisprudenza di
legittimità, è vero che il citato art. 417 stabilisce una presunzione di pericolosità
del soggetto, tale da non richiedere in proposito un accertamento in concreto,
ma è altresì vero che detta presunzione «può essere superata quando siano
acquisiti elementi idonei ad escludere in concreto la sussistenza della
pericolosità»: elementi che nel caso in esame risultavano senz’altro, stante la
scelta del Briguglio di collaborare con la giustizia fino dal 2009, cui aveva fatto
seguito una serie di dichiarazioni di estrema rilevanza da parte sua, sia etero che
auto-accusatorie (come del resto ritenuto dalla stessa Corte nella pronuncia
impugnata).

4.

Propone altresì ricorso il difensore di

Bonsignore, a sua volta sviluppando due motivi.

Giuseppe Bruno, Avv. Raffaele

1.500,00 di multa, superiore al minimo edittale ed anzi prossima ai massimi

-

4.1 II primo riguarda la violazione ed erronea applicazione degli artt. 125,
192, 195 cod. proc. pen. e 629 cod. pen., nonché la carenza di motivazione della
sentenza impugnata nella parte in cui viene ritenuta la penale responsabilità
dell’imputato.
Il ricorrente segnala che la Corte di appello avrebbe omesso di valutare il
contenuto della chiamata in reità proveniente dal collaboratore Francesco
Franzese, ritenendo anzi che quella chiamata – pur dovendosi intendere de
relato

non abbisognasse di riscontri; avrebbe errato nel ritenere autonome le

Nuccio, quando invece era emerso che quest’ultimo era stato la fonte delle
conoscenze del primo sui fatti di cui al processo; avrebbe infine ritenuto che le
due chiamate costituissero reciproco riscontro l’una dell’altra, a dispetto delle
evidente divergenze di contenuto.
Meriterebbe censura, in particolare, l’affermazione della Corte territoriale
secondo cui quanto riferito dal Franzese circa alcune specifiche vicende estorsive
(in danno di un panificio) costituiva patrimonio conoscitivo comune per tutti gli
associati, e segnatamente per chi, come appunto il Franzese, rivestiva una
posizione di vertice all’interno del sodalizio: tale evenienza, che fa superare la
necessità di un vaglio ex art. 195 cod. proc. pen., è però di natura eccezionale, e
la giurisprudenza di legittimità la confina a situazioni in cui i fatti oggetto di
propalazione riguardino eventi di rilevanza centrale nella vita dell’associazione, e
non certo la possibilità che un qualunque associato, per quanto di grado elevato,
dovesse necessariamente sapere che della riscossione di un “pizzo” presso un
panificio fosse stato incaricato un soggetto determinato (il Bruno, nella
fattispecie) piuttosto che altri.
Avrebbe dovuto pertanto trovare piena applicazione il principio di diritto
affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, in base al quale «la chiamata in
reità fondata su dichiarazioni de relato, per poter assurgere al rango di prova
pienamente valida a carico del chiamato ed essere posta a fondamento di una
pronuncia di condanna, necessita del positivo apprezzamento in ordine alla
intrinseca attendibilità non solo del chiamante, ma anche delle persone che
hanno fornito le notizie, oltre che dei riscontri esterni alla chiamata stessa, i
quali devono avere carattere individualizzante, cioè riferirsi ad ulteriori,
.,

specifiche circostanze, strettamente e concretamente ricolleganti in modo diretto
il chiamato al fatto di cui deve rispondere, essendo necessario, per la natura

– indiretta dell’accusa, un più rigoroso e approfondito controllo del contenuto
narrativo della stessa e della sua efficacia dimostrativa» (Cass., Sez. U, n. 45276
del 30/10/2003, Andreotti, Rv 226090).

chiamate in reità dello stesso Franzese e dell’ulteriore collaboratore Antonino

-

Inoltre, le dichiarazioni del Franzese sarebbero intrinsecamente inattendibili
sia perché egli avrebbe indicato quali responsabili dello stesso fatto anche altri
soggetti (Andrea Gioè e Andrea Bruno, quest’ultimo fratello del ricorrente), mai
sottoposti a indagini per assenza di riscontri, sia per non avere precisato gli
importi dei versamenti estorsivi.
Non sarebbe poi possibile considerare autonoma la chiamata in reità del
Nuccio, sia perché il Franzese aveva indicato appunto il Nuccio come propria
fonte, sia perché non era stata confermata dal secondo collaboratore la decisiva

assistito alla consegna del denaro (che il Bruno aveva appena ricevuto dalle
vittime dell’estorsione) dallo stesso Bruno al Gioè. Più in particolare, il Nuccio
aveva invece sostenuto che un altro associato gli aveva riferito di aver saputo
dal Gioè che il Bruno aveva richiesto un pagamento estorsivo senza però che la
somma fosse stata recapitata al sodalizio, mentre dopo l’arresto del Bruno altri
soggetti erano stati inviati presso il panificio per richiedere il “pizzo”, con le
vittime a ribattere di non dovere nulla perché già avevano versato il dovuto
all’odierno ricorrente.
Mancherebbe dunque anche la possibilità, dato il contrasto su aspetti
essenziali, di ritenere che le due chiamate – peraltro, entrambe de relato vengano a riscontrarsi vicendevolmente. Né sarebbe corretto riconoscere
valenza di riscontro ad uno dei “pizzini” acquisiti dopo l’arresto dei Lo Piccolo,
figure apicali dell’associazione mafiosa, dove si parla sì di un forno, che tuttavia
non è quello menzionato dal Nuccio, né coincidono i periodi o gli importi delle
presunte estorsioni. Va infine tenuto presente che le stesse vittime hanno
negato di avere effettuato pagamenti, sostenendo anche di conoscere il Bruno
come semplice cliente del panificio.
4.2 Con il secondo motivo, il difensore del Bruno lamenta violazione ed
erronea applicazione degli artt. 62 bis e 133 cod. pen., nonché mancanza di

motivazione in punto di negazione delle attenuanti generiche in favore
dell’imputato e di quantificazione del trattamento sanzionatorio a lui inflitto.
Rileva la difesa che il mero riferimento alla gravità dell’addebito, in quanto
asseritamente commesso in collegamento con una organizzazione mafiosa,
appare apodittico, non essendo neppure contestato al Bruno di aver posto in
.., essere atti violenti o minacciosi; inoltre, l’avere comminato una pena così
rigorosa ha comportato di fatto la vanificazione del carattere premiale del
… giudizio abbreviato, tanto più che in sede di rito ordinario alcuni coimputati
hanno beneficiato di condanne più miti, con la concessione delle attenuanti
negate al ricorrente.

circostanza secondo cui il Nuccio, a dire del Franzese, aveva personalmente

4.3 Con atto depositato il 14/01/2013, il nuovo difensore del Bruno, Avv.
Salvino Mondello, ha presentato motivi nuovi di ricorso, ancora deducendo
violazione dell’art. 192, comma 3, del codice di rito.
Nell’interesse del ricorrente si segnala la recente sentenza delle Sezioni
Unite di questa Corte del 29/11/2012 (ric. Aquilina) che, pur non essendo
(V.A.e.,•›r«.

~.0.%91, WL,

„…,_srnota nelle motivazioni, ha affrontato il problema della valutazione di dichiarazioni
accusatorie de relato, affermando – per quanto desumibile dalla relativa
informazione provvisoria – che una chiamata in reità od in correità de relato

condizione però che le due chiamate «abbiano autonomia genetica e siano
positivamente valutate per attendibilità, specificità e convergenza». Richiamate
quindi le dichiarazioni dei collaboratori Franzese e Nuccio, che – almeno in
ordine alla posizione del Bruno – rivestono secondo la difesa natura
pacificamente indiretta, nel motivo nuovo si rappresenta che il contenuto di tali
dichiarazioni non appare connotato dai requisiti di specificità e convergenza,
difettando al contempo la prova di una autonomia genetica dei rispettivi narrati
dei due collaboratori (nessuno dei quali ha infatti precisato dove ebbe ad
attingere le informazioni avute sulla vicenda dell’estorsione contestata
all’imputato, mentre il Nuccio ha addirittura riferito di avere parlato di quei fatti
con lo stesso Franzese, facendo supporre un verosimile rapporto di derivazione
delle dichiarazioni dell’altro collaboratore da quanto egli ebbe a confidargli).
Il difensore del Bruno sostiene quindi la non condivisibilità dell’argomento
utilizzato nella motivazione della sentenza impugnata, secondo cui le
dichiarazioni di un collaboratore su fatti appresi all’interno del sodalizio criminale
di appartenenza, specie se il collaboratore in questione vi aveva assunto un ruolo
di vertice, non potrebbero intendersi propriamente de relato: si tratta infatti di
una tesi da considerare incompatibile con il principio di diritto appena affermato
dalle Sezioni Unite, atteso che nella presupposta ordinanza di rimessione si
precisava chiaramente come il caso sub judice non potesse trovare soluzione

possa anche trovare unico riscontro in altra chiamata parimenti de relato, a

invocando quell’interpretazione giurisprudenziale.
Ad ogni modo, secondo il ricorrente le dichiarazioni da intendere patrimonio
di conoscenza comune all’interno di un’associazione mafiosa non potrebbero che
essere quelle relative a fatti salienti e di estrema rilevanza per la vita del
sodalizio, dovendosi invece escludere le vicende di carattere ordinario, per
quanto concernenti la realizzazione dei reati-scopo della consorteria criminale.
Si sottolinea altresì la mancanza di qualsiasi verifica delle dichiarazioni del Nuccio
e del Franzese sul piano estrinseco, e l’impossibilità di riconoscere al “pizzino”
indicato come F5 (rinvenuto nella disponibilità dei Lo Piccolo, presunti capi del
sodalizio) valenza di riscontro alle dichiarazioni medesime: tale documento,

fr 4111.—
rnagt

10

come segnalato anche nei motivi di ricorso presentati nell’interesse degli
imputati Ragusa e Messina, descrive un fatto di incerta natura estorsiva, per
importi diversi da quelli menzionati dai collaboratori e risalente a periodo assai
anteriore.

5. Propongono quindi ricorso, articolato parimenti in due motivi, i difensori di
Fabio Chianchiano, Avv.ti Raffaele Bonsignore ed Enrico Sanseverino.

5.1 Con il primo motivo, si deduce violazione ed erronea applicazione degli

mancanza di motivazione quanto alla affermata responsabilità penale
dell’imputato per il delitto di porto e detenzione di armi, basata sulle
dichiarazioni dei già ricordati collaboratori Nuccio e Franzese.
Secondo la difesa, in particolare, non sarebbe corretto ritenere che questi
ultimi abbiano riferito versioni concordi su uno specifico fatto materiale, avendo
essi – a proposito di armi di cui il Chianchiano sarebbe stato in possesso menzionato circostanze non collimanti (stando al Nuccio, il Franzese gli aveva
chiesto un’arma e lo stesso Nuccio gli aveva risposto di sapere che il Chianchiano
ne aveva una, dopo di che il Franzese l’aveva chiesta autonomamente all’odierno
ricorrente, il Nuccio se l’era fatta dare tramite Roberto La Vardera e l’aveva
consegnata allo stesso Franzese, che infine l’aveva regalata a Sandro Lo Piccolo;
secondo invece il Franzese, la pistola era fin dall’inizio destinata al Lo Piccolo,
che anzi ne aveva fatto richiesta diretta al Nuccio, e comunque era stata
consegnata dal Chianchiano motu proprio al Nuccio e non con l’intermediazione
del La Vardera).
5.2 Con il secondo motivo di ricorso, i difensori dell’imputato lamentano
violazione ed erronea applicazione degli artt. 125, 192 cod. proc. pen., e 7 d.l. n.
152 del 1991, nonché mancanza di motivazione in ordine alla ritenuta
sussistenza dell’aggravante di avere il Chianchiano agito per favorire
un’associazione di tipo mafioso, fondata dalla Corte di appello sulla sola presa
d’atto della esistenza di rapporti pregressi tra lo stesso imputato e il Franzese,
ma senza che sia stato dimostrata la consapevolezza in capo al ricorrente del
presunto ruolo rivestito dall’altro all’interno del sodalizio criminale.

6. Anche Antonino Cusimano propone ricorso per cassazione avverso la
sentenza del 05/02/2011, con atto personalmente sottoscritto in cui deduce due
motivi.
6.1 Con il primo, l’imputato lamenta violazione ed erronea applicazione
dell’art. 62-bis cod. pen., in punto di negazione delle attenuanti generiche, che
egli avrebbe sicuramente meritato in ragione dei contributi alle indagini offerti

11

artt. 125, 192 cod. proc. pen., 2, 4 e 7 della legge n. 895 del 1967, nonché

nel corso dei vari interrogatori da lui resi, già considerati rilevanti al fine della
revoca della misura cautelare a suo tempo applicatagli; la motivazione della
sentenza impugnata dovrebbe perciò ritenersi contraddittoria, anche in ragione
della ribadita significatività delle dichiarazioni etero-accusatorie del ricorrente per
affermare la penale responsabilità di alcuni coimputati.
6.2 Con il secondo, il Cusimano rappresenta violazione ed erronea
applicazione dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, dal momento che «non si
comprenderebbe in cosa consisterebbe la agevolazione a “Cosa Nostra” in

considerando l’impossibilità di affermare che il fondamento dell’aggravante in
esame si esaurisca nella mera appartenenza di un soggetto ad un’associazione
mafiosa.

7. Propone ricorso anche il difensore di Gabriele Davì, Avv. Antonio Turrisi.
Nell’unico motivo di gravame, il ricorrente prospetta violazione ed erronea
applicazione degli artt. 530 cod. proc. pen., 416-bis cod. pen. e 74 legge stup.,
nonché mancanza e manifesta illogicità della motivazione in punto di
affermazione della penale responsabilità dell’imputato.
Osserva la difesa che la prova del coinvolgimento del Davì nel sodalizio
criminoso, manifestatosi da un lato attraverso attività di smercio di stupefacenti
e dall’altro mediante condotte di tipo intimidatorio o “spedizioni punitive”, si
ricaverebbe secondo la Corte di appello dalle dichiarazioni dei collaboratori
Francesco Franzese, Antonino Nuccio e Andrea Bonaccorso: nessuno di costoro,
tuttavia, aveva indicato il ricorrente come un affiliato, né descritto
comportamenti concreti da lui posti in essere, tali da esprimere un suo status di
partecipe dell’associazione. La Corte territoriale non avrebbe poi considerato
adeguatamente la circostanza che il Tribunale del riesame aveva a suo tempo
annullato per carenza di gravi indizi l’ordinanza restrittiva inizialmente emessa
nei confronti del Davì: in proposito, i giudici di appello segnalano che i contributi
di maggior rilievo a carico del prevenuto sarebbero derivati da acquisizioni
istruttorie successive, in particolare dall’audizione dei collaboranti nel corso
dell’udienza preliminare, ma senza specificare quali sarebbero stati gli elementi
di novità che costoro avrebbero apportato.
Nessun rilievo dovrebbe poi assumere, secondo la difesa, la presunta
partecipazione del Davì ad un pranzo al quale sarebbe stato presente un
personaggio vicino al noto latitante Matteo Messina Denaro, giacché il Nuccio nel riferire in merito all’episodio – aveva comunque chiarito che il ricorrente era
stato tenuto all’oscuro sia quanto alle conoscenze del commensale sia a
proposito del contenuto delle conversazioni intercorse fra gli altri presenti.

12

assenza di ingiusto profitto del soggetto agente già affiliato mafioso», e

Illogica appare altresì, secondo il ricorrente, la riconosciuta significatività
delle dichiarazioni del Franzese, stando al quale Sandro Lo Piccolo gli aveva
rappresentato preoccupazioni sul fatto che qualcuno stesse mettendo gli occhi
sul Davì, il che non conferma la fiducia del Lo Piccolo verso il Davi, ma semmai la
circostanza che – se il Lo Piccolo confidava di poter utilizzare il ricorrente per gli
scopi dell’associazione, e temeva che altri l’avrebbero impedito – fino a quel
momento il Davì era estraneo all’organizzazione.
Del tutto neutro dovrebbe poi considerarsi l’episodio, narrato dal Nuccio,

presso il rifugio del Franzese, allora latitante: da ciò non emergerebbe la prova
di alcun contributo consapevolmente offerto dal ricorrente per favorire la
predetta latitanza. Quanto alla partecipazione del Davì al pestaggio in danno
del fratello dell’imprenditore Ferdico, la Corte territoriale avrebbe omesso di
considerare che la vicenda – parimenti menzionata dal collaboratore Nuccio non aveva nulla a che fare con le dinamiche della criminalità organizzata: era
stato invece Salvatore Di Maio, per rivalersi verso il Ferdico giacché costui gli
aveva licenziato il fratello Benedetto Di Maio a seguito di un diverbio, ad
organizzare il tutto senza implicazioni di sorta per Cosa Nostra, tant’è che lo
stesso Ferdico si era lamentato dell’accaduto con il reggente della famiglia di
Carini, che aveva chiamato a sé il Di Maio per raccoglierne le giustificazioni
(sentendosi dire appunto che era stata una ragazzata estemporanea). Anche la
circostanza che il Davì non partecipò a quelle occasioni di chiarimento
confermerebbe la sua estraneità a qualunque sodalizio mafioso.
Il ricorrente censura poi la motivazione della sentenza impugnata, nella
parte in cui la responsabilità del Davì in ordine alla partecipazione
all’associazione ex art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 risulta essere stata desunta
solo sulla base della presunta prova dell’essere egli compartecipe del sodalizio
mafioso, tanto più che del gruppo interessato al commercio degli stupefacenti
non sarebbero state chiarite né l’epoca di costituzione né la data a partire dalla
quale l’imputato vi avrebbe aderito o quando egli avrebbe cessato di farvi parte
(in ipotesi, certamente non oltre l’ottobre 2005, visto che il Davì fu allora
arrestato per altri fatti). Dovrebbe peraltro escludersi che le dichiarazioni dei
collaboratori Franzese e Bonaccorso vadano a corroborare quelle del Nuccio, da
cui proviene l’unica chiamata in reità diretta, atteso che il Franzese riferisce
episodi appresi dallo stesso Nuccio mentre il Bonaccorso rende dichiarazioni che
la difesa reputa «del tutto generiche e prive di adeguati riscontri».

8. Nell’interesse di Salvatore Davì propone ricorso l’Avv. Salvatore Petronio,
sviluppando un unico, articolato motivo con il quale deduce mancanza ed

13

circa l’utilizzo da parte sua di un ciclomotore del Davì, grazie al quale si recava

illogicità della motivazione della sentenza impugnata, nonché travisamento dei
fatti.
La responsabilità dell’imputato sarebbe stata infatti ritenuta sulla base delle
dichiarazioni della persona offesa Marcello Bongiovì, riscontrate dal socio di
costui (Giuseppe Fanale) nella gestione della ditta “Sala Trattenimenti Alba”:
costoro avrebbero effettuato un riconoscimento fotografico del Davì quale
percettore di somme provento di estorsione; dette dichiarazioni sarebbero state
riscontrate dal contributo dei collaboratori di giustizia Franzese e Nuccio, nonché

mai avuto contatti di sorta con il Davì, visto che l’uomo incaricato di ricevere il
“pizzo” dopo l’arresto del primo percettore (che era appunto il Cusimano) si
incontrò soltanto con il Fanale: perciò, fu solo quest’ultimo a poter riconoscere
da una foto apparsa su un giornale, dopo che il Davì era stato a sua volta
arrestato, il soggetto che si era presentato come amico di Tony Cusimano a
richiedere la prosecuzione dei pagamenti. Il riconoscimento del Bongiovì fu
dunque solo indiretto e de relato, sulla base della descrizione fisica effettuata dal
Fanale: un riconoscimento che la difesa definisce «a dir poco contorto e
sicuramente indice di non spontaneità dello stesso», perciò bisognevole di
riscontri esterni.
Lo stesso Fanale, inoltre, all’atto della sua escussione da parte degli
inquirenti, non risulta secondo la ricostruzione difensiva avere riconosciuto nella
foto ritraente l’imputato l’uomo cui aveva corrisposto per un paio di volte i
pagamenti estorsivi, ma solo quel Salvatore Davì del quale aveva visto la foto sul
giornale; più correttamente, egli «riconosceva nella foto mostrata le sembianze
del soggetto che all’atto della pubblicazione della foto sui giornali per il suo
arresto somigliava al soggetto che una o due volte si era presentato
asseritamente in sostituzione del Cusimano», risolvendosi il tutto in uno “pseudo
riconoscimento fotografico”.
Il Cusimano, secondo la ricostruzione del ricorrente, non aveva comunque
menzionato fra i correi Salvatore Davì, mentre dal Franzese e dal Nuccio sarebbe
venuto un contributo in antitesi rispetto all’impianto accusatorio, dal momento
che essi non risultano avere menzionato il Davì come percettore di quelle
somme, aggiungendo il primo che l’estorsione aveva come destinataria la
famiglia di Resuttana e non quella di Partanna (cui, in ipotesi, sarebbe stato
affiliato il ricorrente).
Anche i “pizzini” rinvenuti dopo l’arresto dei Lo Piccolo smentirebbero le
accuse in danno del Davì, visto che se ne trovarono due con annotazioni relative
all’estorsione in pregiudizio della Sala Trattenimenti Alba, ma senza alcuna
menzione dell’imputato.

14

dalla confessione del coimputato Cusimano. In realtà, il Bongiovì non aveva

In definitiva, la difesa invoca la giurisprudenza di legittimità che in tema di
dichiarazioni della persona offesa quale unico elemento di prova a carico
dell’imputato impone un vaglio di particolare rigore e la necessità di acquisire
elementi esterni di riscontro.

9. Propone quindi ricorso il difensore di Rosolino Di Maio, Avv. Raffaele
Bonsignore, ancora una volta affidato a due motivi.
9.1 II primo motivo riguarda la violazione ed erronea applicazione degli artt.

difetto di motivazione della sentenza impugnata, circa la ritenuta responsabilità
penale dell’imputato.
Il ricorrente segnala che il G.u.p. del Tribunale di Palermo aveva ravvisato
nelle dichiarazioni dei collaboratori Franzese e Bonaccorso elementi di riscontro
alla chiamata in reità proveniente dal Nuccio, circa la partecipazione del Di Maio
a un sodalizio criminoso in tema di stupefacenti: malgrado specifici motivi di
appello, fondati tra l’altro sul rilievo che non poteva parlarsi di riscontri in
presenza di dichiarazioni che, come quelle del Franzese e del Bonaccorso,
trovavano la propria fonte di conoscenza in quanto riferito a costoro dallo stesso
Nuccio, nonché sulla circostanza che non si trattava in ogni caso di riscontri
individualizzanti sulla posizione del Di Maio, come invece imposto dalla
giurisprudenza di legittimità, i giudici di secondo grado risultano aver confermato
le valutazioni del G.u.p. sulla base di argomentazioni illogiche.
Anche per la posizione del ricorrente in esame dovrebbe poi censurarsi
l’affermazione della Corte territoriale secondo cui quanto riferito dal Franzese
sulla presunta associazione ex art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 costituiva
patrimonio conoscitivo comune per tutti gli associati, e segnatamente per chi,
come appunto il Franzese, rivestiva una posizione di vertice all’interno del
sodalizio: il difensore, come già per il Bruno, segnala però che tale evenienza
deve essere limitata a situazioni in cui i fatti oggetto di propalazione riguardino
eventi di rilevanza centrale nella vita dell’associazione, e non certo la possibilità
che un qualunque associato, per quanto di grado elevato, dovesse
necessariamente sapere come ed attraverso chi fosse stato organizzato uno dei
settori dell’attività del sodalizio. Manifestamente illogica sarebbe poi
l’affermazione della Corte di appello secondo cui le informazioni sull’associazione
relativa agli stupefacenti erano da ritenere di dominio comune tra i capi
dell’organizzazione in quanto sarebbe stato proprio Sandro Lo Piccolo (secondo le
asserzioni del Nuccio) ad autorizzarne la costituzione: ciò perché allo stesso Lo
Piccolo non risulta essere mai stato contestato neppure di avervi aderito come
partecipe.

15

125, 190, 191, 192, 194, 195, 546 cod. proc. pen. e 74 T.U. stup., nonché il

Assolutamente generiche sarebbero inoltre le dichiarazioni del Franzese circa
presunti rapporti avuti con il Nuccio per la vendita di una parte, mai precisata nel
quantitativo, di una fornitura di hashish pari a 500 kg. complessivi, in occasione
dei quali il Nuccio sarebbe stato solo accompagnato dal Di Maio; analogamente,
il Bonaccorso si sarebbe limitato a indicare il Di Maio come “socio” del Nuccio,
riferendo di episodi di presunte cessioni di cocaina (peraltro il Nuccio, pure
ammettendo di avere realizzato transazioni in tema di droga, non ha mai
indicato il Bonaccorso come suo fornitore od acquirente)

degli artt.

62 bis e 133 cod. pen., nonché mancanza, contraddittorietà e

manifesta illogicità della motivazione in punto di negazione delle attenuanti
generiche e di quantificazione del trattamento sanzionatorio, fra l’altro in ordine
all’individuazione di una pena base sensibilmente superiore al minimo edittale a
dispetto del ruolo marginale rivestito dal Di Maio all’interno dell’associazione. Il
ricorrente deduce in particolare che le attenuanti in parola sarebbero state
escluse in virtù del collegamento del sodalizio in tema di stupefacenti con
l’organizzazione facente capo ai Lo Piccolo, smentendo così l’affermazione
precedente secondo cui la consorteria ex art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990
aveva agito all’infuori delle dinamiche mafiose.

10. Il difensore di Gaspare Di Maggio, Avv. Giampiero Santoro, propone
ricorso per cassazione articolato in tre motivi.
10.1 Con il primo, deduce mancanza, illogicità e contraddittorietà della
motivazione della sentenza impugnata, nonché erronea applicazione dell’art. 192
cod. proc. pen.; il ricorrente lamenta la mera riproduzione testuale, da parte
della Corte di appello, di passi della sentenza del giudice di prime cure con
riguardo all’indicazione delle ragioni a sostegno della condanna del Di Maggio:
ciò a dispetto di specifiche doglianze avanzate in sede di impugnazione,
concernenti soprattutto l’impossibilità di aderire alla ricostruzione offerta dalla
persona offesa Giuseppe Todaro circa l’interpretazione di uno dei “pizzini”
rinvenuti nella disponibilità dei Lo Piccolo (in cui si faceva riferimento alla
verosimile estorsione in danno della ditta “Mar”, quando invece il Todaro
lamentava un’estorsione in danno della società “Iregel”, e la “Mar” era soltanto
l’affittuaria di un immobile di proprietà della “Iregel”) e le divergenze emerse fra
la ricostruzione dello stesso Todaro e quella offerta dal coimputato Briguglio,
collaboratore di giustizia.
Inoltre, il contenuto del “pizzino” non potrebbe ritenersi collimante con le
dichiarazioni del Todaro e del Briguglio, con quest’ultimo peraltro a riprodurre il
contenuto delle dichiarazioni del Todaro solo dopo averne avuto contezza

16

9.2 Con il secondo motivo si prospetta violazione ed erronea applicazione

attraverso la notifica dell’ordinanza di custodia cautelare a suo carico, circa date
ed importi delle presunte estorsioni, oltre a doversi considerare che, mentre il
Briguglio riferisce di aver ricevuto più volte dal Todaro (denominato come
“calamaro”) denaro destinato al Di Maggio, con la partecipazione di tale Iacopelli,
lo stesso Todaro non menziona mai altri intermediari.
10.2 Con il secondo motivo, il difensore dell’imputato lamenta mancanza,
illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, in
relazione all’art. 125 cod. proc. pen., essendo stata data per ammessa la

solo su copie fotostatiche e non su originali, senza reputare poi necessari
ulteriori accertamenti grafologici malgrado specifiche osservazioni tecniche su
quell’elaborato peritale.
10.3 Con il terzo, si rappresenta infine inosservanza ed erronea applicazione
dell’art. 133 cod. pen., travisamento di prova e difetto di motivazione circa la
ritenuta sussistenza dell’aggravante ex art. 7 d.l. n. 152 del 1991 e l’esclusione
delle attenuanti generiche. Fra l’altro, la difesa evidenzia che non sarebbe stato
acquisito alcun riscontro alla narrazione del Todaro su presunte minacce rivolte
dal Di Maggio ad un ignoto imprenditore che stava effettuando scavi per la
costruzione di un immobile di proprietà dello stesso Todaro, episodio sul quale
risulta fondata la ravvisabilità dell’aggravante ricordata.

11. L’Avv. Raffaele Bonsignore impugna la sentenza indicata in epigrafe
anche quale difensore di Roberto La Vardera, proponendo due motivi di ricorso.
11.1 Nell’interesse del La Vardera si deduce violazione ed erronea
applicazione degli artt. 125, 190, 191, 192, 194, 195, 546 cod. proc. pen. e 416bis cod. pen., circa la ritenuta responsabilità penale dell’imputato; la motivazione
della sentenza de qua sarebbe innanzi tutto illogica, in quanto una delle condotte
in cui si sarebbe concretizzato il contributo del La Vardera all’associazione
mafiosa risulta l’avere egli trasportato e ceduto armi ad altri componenti del
sodalizio, ma dall’addebito di detenzione di armi – che si fondava sulle stesse
dichiarazioni del collaboratore Nuccio, ritenute però a quel fine prive di riscontri l’imputato era stato assolto già in primo grado. Non vi sarebbe poi riscontro alle
dichiarazioni del Nuccio neppure quanto all’avere il La Vardera favorito la
latitanza dell’altro collaboratore Franzese, atteso che quest’ultimo aveva al
contrario dichiarato di averlo incontrato nel luogo dove si nascondeva (ma solo
perché il La Vardera conosceva il proprietario dell’immobile) e di esserne rimasto
financo seccato: anche sul punto, la Corte di appello avrebbe fatto ricorso ad
argomentazioni illogiche per ravvisare comunque nel narrato del Franzese un
riscontro a quello del Nuccio.

17

riferibilità al Di Maggio del ricordato “pizzino” attraverso una perizia compiuta

In ordine all’avere il La Vardera riscosso pagamenti estorsivi per conto della
famiglia di Partanna-Mondello, non vi sarebbe parimenti possibilità di ritenere
collimanti i contributi del Franzese e del Nuccio, sì da escludere che le
dichiarazioni dell’uno costituiscano riscontro a quelle dell’altro, ed ancor meno
che possa qualificarsi detto ipotetico riscontro come individualizzante per la
posizione del La Vardera. Al massimo, potrebbe ritenersi provato che tra il
Nuccio e il La Vardera vi erano rapporti di frequentazione, mentre nulla di
concreto sarebbe emerso circa vicende estorsive, avendo fra l’altro i due

“pizzo” in danno di imprenditori diversi: sull’episodio riferito dal Franzese, va
registrato che egli aveva indicato fra gli autori dell’estorsione anche il Nuccio, ma
quest’ultimo non aveva mai fatto parola di quella vicenda.
La difesa del La Vardera esclude infine che possa riconoscersi rilievo al
contributo di Maurizio Spataro, che in un interrogatorio del 2008 si era limitato a
indicare l’imputato come soggetto che avrebbe coadiuvato Fabio Chianchiano
nella gestione del mandamento di San Lorenzo, senza descriverne alcun
comportamento specifico.
11.2 Con il secondo motivo si lamenta violazione ed erronea applicazione di
legge sostanziale, per essere stato applicato all’imputato un duplice aumento
dovuto a distinte circostanze aggravanti ad effetto speciale (quelle di cui ai
commi 4 e 6 dell’art. 416-bis cod. pen.), in violazione del meccanismo di
computo disegnato dall’art. 63, comma quarto, cod. pen., secondo cui deve
essere applicata solo la pena prevista per la più grave tra le circostanze ad
effetto speciale, salva la facoltà del giudice di aumentarla.
11.3 Con atto depositato 1’11/01/2013, lo stesso Avv. Bonsignore ha
presentato motivi nuovi di ricorso, lamentando inosservanza ed erronea
applicazione dell’art. 416-bis, comma 6, cod. pen., nonché difetto di motivazione
della sentenza impugnata con riguardo alla ritenuta ravvisabilità dell’aggravante
de qua.

Il difensore rappresenta che il mero richiamo alla natura oggettiva della

circostanza in esame non può intendersi sufficiente a fornire la prova della
consapevolezza in capo a tutti gli associati della finalità di reimpiego dei proventi
delle condotte illecite in attività d’impresa, come già ritenuto in una recente
decisione di questa stessa Sezione.

12. Propone quindi ricorso l’Avv. Sandro Furfaro, nell’interesse di Giuseppe
Lo Verde: il gravame è affidato a tre motivi.
12.1 Con il primo, la difesa deduce omesso esame di uno specifico motivo di
appello sviluppato in ordine alla ritenuta inutilizzabilità delle intercettazioni tra
presenti effettuate nel corso del procedimento, atteso che le conversazioni

18

collaboratori ascritto all’imputato la responsabilità per condotte di riscossione del

acquisite sarebbero state registrate con modalità differenti da quelle disposte nel
decreto che aveva disposto darvisi esecuzione; peraltro la questione, secondo la
prospettazione difensiva, non sarebbe stata colta dalla Corte territoriale nella sua
esatta portata.
Il difensore del Lo Verde aveva infatti segnalato la necessità di dichiarare
inutilizzabili le intercettazioni di cui ai decreti nn. 1457, 1873 e 2910 del 2008:
tuttavia, mentre il profilo di vizio afferente le operazioni di cui agli ultimi due
decreti citati riguardava l’esecuzione delle operazioni con impianti diversi da

motivata la inidoneità o indisponibilità di quelli esistenti), per le intercettazioni di
cui al n. 1457/2008 si era rilevato che il relativo decreto disponeva l’utilizzazione
di impianti presi a noleggio, con facoltà di ascolto remotizzato, fermo restando
però che la registrazione delle conversazioni, per quanto compiuta con quelle
apparecchiature peculiari, avrebbe dovuto compiersi presso la Procura della
Repubblica, come imposto dalla giurisprudenza di legittimità richiamata dal
ricorrente. In altre parole, l’irregolarità lamentata, tale da dover comportare
l’inutilizzabilità dei risultati delle captazioni de quibus, non riguardava il tipo di
impianto che era stato usato, ma il luogo dove (a prescindere dalla facoltà di
“rimbalzo” connessa all’ascolto remotizzato) erano state materialmente
registrate le conversazioni: doveva perciò intendersi del tutto carente la
motivazione della sentenza impugnata, che nel rigettare l’eccezione si era
limitata a dare atto di avere esaminato il decreto autorizzativo n. 1457,
riscontrandone la conformità ai requisiti di legge.
La difesa del Lo Verde segnala altresì che ai fini delle anzidette
intercettazioni non risultava essere stato emesso alcun provvedimento di
autorizzazione all’immissione di uno strumento captativo nel luogo di privata
dimora dove si svolgevano le conversazioni da monitorare: a riguardo, viene
evidenziato che il problema – già esistente nei casi in cui il posizionamento di
una microspia avvenga all’esito di atti tipici previsti dal codice di rito (ad
esempio, perquisizioni od ispezioni) – assume particolare rilevanza laddove una
attività formale manchi, e si deve pertanto presumere sia stata compiuta una
attività meramente materiale, della quale l’ordinamento non può che imporre
una rigorosa documentazione. Ritiene il ricorrente che a conforto di tale
conclusione «militano non soltanto i principi generali del sistema, che escludono
che possa essere conforme al sistema stesso qualsivoglia attività di riflesso
processuale della quale non si abbia documentazione, ma le regole stesse poste
a presidio della conoscibilità di quanto effettuato proprio in tema di
intercettazione, se è vero, come è vero, che l’art. 267 cod. proc. pen. prevede

19

quelli allestiti presso il competente ufficio del P.M. (senza che fosse stata

che il decreto del P.M. che dispone l’intercettazione debba indicare le modalità e
la durata delle stesse».
In ordine a tale aspetto, la difesa del Lo Verde sollecita la proposizione di
una questione di legittimità costituzionale degli artt. 266, comma 2, del codice di
rito, e 13 del d.l. n. 152 del 1991, in relazione all’art. 14 Cost., negli stessi
termini già segnalati dalla Sezione Terza di questa Corte (con ordinanza n.
29169 del 10/07/2003), ovvero nella parte in cui dette norme «consentono, fra
le modalità operative delle captazioni di conversazioni, la collocazione di

in assenza di una specifica disciplina legislativa che tassativamente indichi i casi
e i modi in cui sia consentita la limitazione della libertà domiciliare». Nel ricorso
si ricorda che il giudice delle leggi ritenne inammissibile la questione allora
proposta, ma solo per insufficiente motivazione circa la rilevanza della medesima
nel caso concreto: nel contempo, venne comunque affermata (con ordinanza n.
251 del 2004) la necessità che le modalità concernenti l’ingresso in luoghi di
privata dimora, al fine di collocarvi apparati strumentali ad intercettazioni di
comunicazioni fra presenti, fossero determinate dall’autorità giudiziaria, piuttosto
che essere rimesse alla p.g. delegata al compimento delle operazioni.
Dovrebbe pertanto intendersi del tutto superato l’orientamento tradizionale
secondo cui l’ufficiale di polizia giudiziaria incaricato di curare le intercettazioni si
troverebbe ipso facto autorizzato ad entrare in un luogo di privata dimora, anche
clandestinamente, essendo quella una “naturale modalità attuativa” dell’ordine
ricevuto; ciò anche avuto riguardo alle indicazioni fornite dalla giurisprudenza
sovranazionale (di cui il ricorrente offre specifici richiami), avendo la Corte
europea dei diritti dell’uomo più volte affermato che, «stante “l’assoluta
clandestinità di ogni intercettazione compiuta con l’impiego di strumenti di
captazione”, l’ingerenza nella vita privata, ovunque si svolga, attraverso
l’utilizzazione di tali strumenti deve essere sempre “minuziosamente disciplinata
dalla legge, non soltanto in relazione ai casi nei quali essa può essere attuata,
ma anche nel modo attraverso il quale i dispositivi di intercettazione sono
introdotti ed utilizzati”»,
12.2 Con il secondo motivo, il difensore del Lo Verde lamenta inosservanza
ed erronea applicazione degli artt. 192 e 526 cod. proc. pen., nonché vizio di
motivazione, per illogicità della stessa, ed omesso esame di dati probatori già
segnalati nell’atto di appello.
Il

ricorrente

rappresenta

che

il

ruolo

dell’imputato

nell’ambito

dell’associazione mafiosa sarebbe desumibile, stando ai giudici di merito, dal
contenuto di una conversazione intercettata il 20 giugno 2008, in cui alcuni
soggetti (inseriti nel gruppo dei c.d. “dissidenti”) lo avevano indicato come

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microspia all’interno di un luogo di privata dimora con l’uso di mezzi fraudolenti,

persona designata a ricostituire la struttura provinciale di “Cosa Nostra”, con
ruolo apicale; tuttavia, altre intercettazioni nel frattempo disposte (e che
riguardavano non già i dissidenti, bensì coloro che si incontravano appunto per
realizzare quel progetto) dimostrerebbero il contrario, non risultandovi mai
nominato il Lo Verde.
In ogni caso, ad avviso della difesa, un colloquio avvenuto senza la
partecipazione diretta della persona cui i fatti oggetto della conversazione si
riferiscano non può assurgere a prova piena dei fatti in argomento, in assenza di

soggetto, quanto la effettiva commissione delle fattispecie ipotizzate». Ciò
perché, «mentre è del tutto agevole trarre logicamente la conclusione circa la
verità del fatto dall’uso esplicito dei termini che i dialoganti facciano riferiti ad
essi – tanto che la confessione recepita in intercettazione è in sé prova della
responsabilità […] – appare relegata nel rango del mero indizio l’interpretazione
di qualsivoglia altro dialogo, con la conseguente necessità che, nel caso in cui
esso si svolga inter alios, ricorrano altri elementi idonei a formare e definire il
giudizio, secondo il criterio della concordanza indiziaria dettato dall’art. 192 cod.
proc. pen.»
Un riscontro non potrebbe rinvenirsi, inoltre, nelle dichiarazioni del
collaboratore Spataro, il quale aveva sostenuto che il Lo Verde, una volta espiata
la pena comminatagli a seguito di precedenti reati, si era dedicato ad attività
lecite, salvo poi ricordare – in un successivo interrogatorio – che era stato
l’imputato a garantire la sua affidabilità nel momento in cui aveva ripreso ad
interessarsi del settore delle estorsioni: al di là della contraddizione interna al
narrato dello Spataro, rimasto comunque isolato, il fatto sul quale egli aveva
riferito non aveva nulla a che vedere con quelli desumibili dall’intercettazione del
20 giugno 2008.
12.3 II terzo motivo di ricorso afferisce alla censura di omessa motivazione
in ordine al trattamento sanzionatorio, anche per quanto riguarda
l’individuazione del reato più grave tra quelli considerati e l’entità dell’aumento
per la ritenuta continuazione.
Ricordato che, nei motivi di appello, la difesa aveva lamentato l’indicazione
di una pena base ben al di sopra dei minimi edittali, a dispetto di un contegno
dell’imputato che – nell’ambito della fattispecie associativa – avrebbe dovuto
considerarsi “evanescente”, il ricorrente si duole del riconoscimento di quello ex
art. 416-bis cod. pen. come delitto di maggiore gravità: pure ammettendo che,
in ragione del tempus commissi delicti, al Lo Verde fosse applicabile la più
gravosa disciplina oggi in vigore, «l’ipotesi di partecipazione ad associazione di
tipo mafioso armata è punita nel massimo con pena pari a 15 anni di reclusione;

21

«elementi concreti che confermino aliunde, non tanto la certa individuazione del

di molto inferiore, quindi, ai 20 anni di reclusione che segnano il massimo della
pena per l’estorsione aggravata oggetto del precedente giudicato».
12.4 Anche per il Lo Verde risultano depositati motivi nuovi, con atto a firma
dell’Avv. Rosanna Vella depositato il 09/01/2013.
Nell’interesse del ricorrente si deduce inosservanza ed erronea applicazione
dell’art. 416-bis, commi 4 e 6, cod. pen.: le due aggravanti ricordate risultano
infatti applicate sulla base di un automatismo che deve ritenersi contra legem, in
difetto di elementi probatori o quanto meno indiziari che attestino la disponibilità

psicologica dell’imputato.

13. Propone a sua volta ricorso – che si fonda su quattro motivi, in ciascuno
dei quali si rappresenta violazione dell’art. 111 Cost. – il difensore di Antonino

Mancuso, Avv. Armando Veneto.
13.1 Con il primo motivo, la difesa deduce inosservanza dell’art. 192, commi
3 e 4, cod. proc. pen., nonché carenze motivazionali della sentenza impugnata:
in particolare, risulterebbero non essere state rispettate le regole di valutazione
della prova in tema di chiamata in reità/correità (nel caso di specie, con riguardo
ai collaboratori di giustizia Franzese, Nuccio e Bonaccorso, rimaste prive di
riscontri esterni) e di dichiarazioni rese dalle persone offese Bongiovì, Fanale e
Costa.
Fra l’altro, il ricorrente evidenzia che l’unica dichiarazione circostanziata resa
da uno dei suddetti collaboratori sul conto del Mancuso appare da ascrivere al
Nuccio, che aveva affermato di avere assistito personalmente ad un episodio in
cui l’imputato aveva ricevuto somme di denaro da una presunta vittima di
estorsione: ma gli altri collaboratori non offrono adeguato riscontro, atteso che il
Franzese menziona soltanto confidenze che altri (mai escussi a riprova) gli
avevano fatto circa le suddette attività del Mancuso, mentre il Bonaccorso indica
come fonte della propria conoscenza lo stesso Nuccio. A riguardo, nel ricorso si
segnalano precedenti giurisprudenziali di legittimità circa la valutazione di
chiamate de relato.
Quanto alle persone offese, manca nella sentenza della Corte di appello di
Palermo – secondo il difensore del Mancuso – un opportuno vaglio di
attendibilità sui vari dichiaranti, vieppiù a seguito della loro costituzione quali
parti civili, dunque nella veste di soggetti interessati ad ottenere la condanna
dell’imputato: un siffatto controllo non risulta essere stato esercitato, né sulle
persone offese sul piano soggettivo, né sulla credibilità delle rispettive
propalazion i.

22

di armi ed il reinvestimento dei ricavi illeciti, e la relativa partecipazione

13.2 Con il secondo motivo, si lamenta inosservanza ed erronea applicazione
dell’art. 629, comma 2, cod. pen., in relazione al disposto dell’art. 628, comma
3, dello stesso codice: l’aggravante ad effetto speciale che deriva, per una
condotta di estorsione, dalla presa d’atto che il soggetto attivo risulta
appartenere ad un sodalizio mafioso (senza la necessità di provare
specificamente il ricorso alla forza di intimidazione derivante dal vincolo
associativo), non avrebbe dovuto essere ravvisata sul conto del Mancuso, al
quale non è stato contestato il delitto ex art. 416-bis cod. pen., e la cui

13.3 Con il terzo, la difesa evidenzia erronea applicazione dell’art. 7 del d.l.
n. 152 del 1991, nonché vizio della motivazione rilevante ai sensi dell’art. 606,
lett. e), del codice di rito: l’aggravante de qua appare infatti illogicamente
addebitata al Mancuso che, con la propria condotta, avrebbe agevolato almeno
due famiglie (di Resuttana e Partanna/Mondello), in contrasto con la consolidata
concezione mafiosa secondo cui si può essere appartenenti o vicini ad una sola
associazione.
Dagli elementi acquisiti era peraltro risultato con certezza che il Mancuso
aveva ricevuto del denaro senza ricorrere a forme di violenza o minaccia, né
utilizzando in alcun modo pressioni assimilabili al c.d. “metodo mafioso”, oggetto
di necessaria prova diretta per potersi dire applicabile l’aggravante in
argomento; l’imputato, infine, non aveva neppure adottato quei comportamenti
per agevolare questo o quel sodalizio, giacché gli stessi collaboratori Franzese e
Nuccio avevano ricordato che il Mancuso aveva trattenuto per sé il denaro
proveniente da quelle estorsioni a causa di problemi economici personali e
contingenti, escludendo così il necessario dolo specifico che avrebbe dovuto
animarne l’azione. In ogni caso, non vi era alcuna prova che l’una o l’altra delle
famiglie mafiose indicate avessero tratto giovamento da condotte assunte
dall’imputato, né che questi ne avesse consolidato o rafforzato l’organizzazione.
13.4 D quarto ed ultimo motivo si riferisce alla inosservanza ed erronea
applicazione dell’art. 62-bis cod. pen.: secondo il difensore, la Corte territoriale
avrebbe negato al Mancuso la concessione delle circostanze attenuanti generiche
in virtù di un precedente in tema di stupefacenti, motivazione da ritenere
inadeguata, a fronte di una apodittica indicazione della pena base in termini
assai eccedenti i minimi edittali, malgrado la condotta dell’imputato dovesse
intendersi marginale rispetto a quella dei mandanti delle suddette estorsioni.
Segnala il ricorrente che secondo la giurisprudenza di legittimità il
riconoscimento o la negazione delle attenuanti in parola deve fondarsi su ragioni
autonome rispetto alla gravità dell’addebito, sì da consentire di adeguare il
trattamento sanzionatorio alle peculiarità del caso concreto.

23

partecipazione ad associazioni di tal fatta non è stata comunque accertata.

14.

Un ulteriore ricorso, articolato su due motivi, risulta proposto

nell’interesse di Salvatore Mangione dall’Avv. Raffaele Bonsignore; lo stesso
difensore ha peraltro segnalato a questa Corte il sopravvenuto decesso del suo
assistito.

15. L’Avv. Giuseppe Oddo, difensore di fiducia di Rosalia Messina e Leonardo
Ragusa, ricorre per cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe

15.1 II primo profilo di doglianza riguarda la lamentata inosservanza ed
erronea applicazione di legge sostanziale (art. 378 cod. pen.) e processuale
(artt. 125, 191, 192, 194, 195, 530 e 546 del codice di rito); ciò perché la
declaratoria di penale responsabilità dei due imputati sarebbe stata conseguente
alla lettura di un “pizzino” rinvenuto nella disponibilità dei boss Lo Piccolo, di
tenore non univocamente riferibile all’esercizio commerciale dagli stessi gestito
(“800 forno Marinella regalo estate 2005”), e non idoneo ad assurgere ad
effettivo riscontro delle dichiarazioni dei collaboratori Franzese e Nuccio.
In particolare, il Ragusa e la Messina erano sì titolari di un panificio nel
quartiere Marinella, ma non risultava essere stata compiuta alcuna attività di
indagine circa l’esistenza di altri esercizi commerciali analoghi in quella stessa
zona (la difesa aveva peraltro documentato che ve ne erano almeno quattro), né
sulla riferibilità di forni in genere a persone con quel nome di battesimo od aventi
Marinella per cognome. D’altro canto, il testo del “pizzino” non risultava
coerente con le delazioni dei collaboratori, che avevano parlato di una estorsione
prolungata ai danni di un panificio, mentre il documento sembrava attestare un
pagamento isolato a titolo di regalia: il Nuccio ed il Franzese non erano stati
neppure precisi e convergenti nel fare menzione di tali episodi, fornendo
elementi in contrasto su chi avrebbe effettuato le dazioni di denaro e collocando i
fatti due anni dopo rispetto all’estate 2005.
Nello specifico, il Franzese aveva parlato della estorsione in danno di un
forno, della quale si era occupato il sodale Giuseppe Bruno, facendosi
consegnare il denaro dal titolare dell’esercizio, tale Nardo (il collaboratore non
aveva indicato da quale fonte avesse appreso di quegli episodi, facendo
menzione genericamente di voci correnti all’interno di “Cosa Nostra”, ed aveva
financo precisato di nutrire risentimento personale verso lo stesso Bruno:
peraltro, in una prima occasione non aveva indicato costui come incaricato delle
periodiche esazioni, ma il di lui fratello). Il Nuccio aveva parimenti parlato di
Giuseppe Bruno come autore materiale delle condotte estorsive, comunque
ripetute nel tempo, precisando che l’esercizio sottoposto al “pizzo” era il panificio

24

deducendo due motivi.

”Pandoro”, appartenente ad un certo “Serio della Marinella”, e che costui in una
occasione si era rifiutato di corrispondere la somma richiestagli da chi era
subentrato al Bruno (affermando di avere già pagato nelle mani di quest’ultimo,
prima che venisse arrestato): il collaboratore aveva quindi spiegato di avere
avuto modo di parlare di quelle vicende proprio con il Franzese, senza far
emergere chi dei due ne avesse informato l’altro (ne derivava, secondo la difesa,
«una macroscopica circolarità della notizia, di cui i due dichiaranti erano
indiscriminatamente diffusori»). Solo in un secondo momento, aveva sostenuto

risultava avere mai confermato la circostanza.
Nell’interesse dei ricorrenti viene richiamata la giurisprudenza di legittimità
secondo cui «la chiamata in reità

de relato,

affine nella struttura alla

testimonianza indiretta, può costituire prova della responsabilità penale solo se
sorretta da adeguati riscontri estrinseci obiettivi ed individualizzanti, in relazione
alla persona incolpata ed al fatto che forma oggetto dell’accusa, non essendo
sufficiente il controllo sulla mera attendibilità intrinseca del collaborante», né
potendosi ammettere che una chiamata in reità de relato possa trovare riscontro
in altra chiamata avente analoghe caratteristiche. A fronte di tali obiezioni, già
evidenziate nei motivi di appello, nella sentenza impugnata si segnala che nel
caso di specie non ci si troverebbe dinanzi a dichiarazioni rese su voci correnti,
trattandosi di notizie comunque circoscritte ad una cerchia determinata di
persone (gli aderenti al sodalizio criminale), ma la difesa censura l’argomento,
rilevando che nel caso di “Cosa Nostra” ci si deve confrontare con una cerchia
assai vasta di soggetti non completamente identificati ed operanti in un’area
territoriale indefinita.
Evocati ulteriori precedenti giurisprudenziali, anche sulla necessità di
sottoporre a controlli ancor più rigorosi una chiamata in reità rispetto ad una in
correità, il difensore degli imputati rileva che gli elementi offerti dai ricordati
collaboratori non avrebbero potuto attagliarsi alla posizione del Ragusa, avendo
egli riferito agli inquirenti nel 2008 – con dichiarazioni in alcun modo smentite da
altre acquisizioni istruttorie di segno contrario – di avere cessato di lavorare nel
panificio gestito dalla moglie, e del quale non era mai stato titolare, ormai da 5
anni. Né avrebbe potuto ritenersi provata la circostanza che della sottoposizione
dell’esercizio commerciale a richieste estorsive, pure ammettendo che quello
fosse il forno interessato e che il Ragusa dovesse identificarsi nel “Nardo”
menzionato dal Franzese, fosse stata in qualche modo resa edotta anche la
Messina.
Ad avviso della difesa, infine, priva di significato sarebbe l’avvenuta
ricognizione fotografica di Giuseppe Bruno da parte dei due coniugi, essendo egli

25

di avere appreso dei fatti in questione da certo Nino Macaluso, che tuttavia non

persona conosciuta agli imputati per motivi leciti, ed appare in ogni caso non
approfondito il problema della ravvisabilità in capo al Ragusa ed alla Messina
dell’elemento soggettivo necessario per ritenere la sussistenza del reato loro
addebitato.
15.2 Con il secondo motivo, la difesa dei due imputati lamenta che alcune
delle parti civili costituite nell’ambito del presente processo (per lo più, enti
territoriali ed associazioni costituite per finalità di contrasto alla criminalità
organizzata) risultano avere esteso gli atti di costituzione anche nei confronti del

domande risarcitorie di sorta nei confronti di questi ultimi. Nel quadro così
descritto, il G.u.p. del Tribunale di Palermo aveva non soltanto ammesso le
costituzioni dei primi soggetti, pure in relazione ad un mero addebito di
favoreggiamento (conseguentemente, condannando il Ragusa e la Messina al
risarcimento dei danni in ipotesi patiti dalle parti civili de quibus), ma anche
condannato gli imputati, in solido con tutti gli altri per i quali non era stata
pronunciata sentenza di assoluzione, a rifondere le spese di costituzione e difesa
della generalità delle parti civili.
A fronte dello specifico motivo di appello proposto (sull’impossibilità di
considerare i soggetti costituiti quali persone offese dal reato di
favoreggiamento, nonché sulla illegittimità della condanna alla rifusione delle
spese in favore di soggetti neppure costituiti), la Corte territoriale avrebbe non di
meno confermato la correttezza:
della ammissione delle prime parti civili nei confronti del Ragusa e della
Messina, in quanto il silenzio mantenuto dagli imputati sulle somme loro
estorte avrebbe comportato una maggiore esposizione per coloro che
avevano invece inteso denunciare le richieste di pagamento del “pizzo”;
della condanna dei due prevenuti a rifondere le spese, risultando dagli atti
di costituzione di tutte le parti civili considerate che l’azione civile era
stata esercitata anche a carico loro.
La decisione adottata deriverebbe, secondo il difensore degli imputati, da
inosservanza ed erronea applicazione delle norme processuali in tema di
disciplina dell’azione civile nel processo penale, nonché degli artt. 2043 cod. civ.,
185 e 378 cod. pen.
Sotto un primo profilo, nell’interesse dei ricorrenti si sostiene che «gli enti e
le associazioni sono legittimati all’azione risarcitoria, anche in sede penale
mediante costituzione di parte civile, ove dal reato abbiano ricevuto un danno a
un interesse proprio, sempre che l’interesse leso coincida con un diritto reale o
comunque con un diritto soggettivo del sodalizio, e quindi anche se offeso sia
l’interesse perseguito in riferimento a una situazione storicamente circostanziata,

Aoy 411
26

Ragusa e della Messina; altre parti civili, invece, non hanno formalizzato

da esso sodalizio preso a cuore ed assunto nello statuto a ragione stessa della
propria esistenza e azione, come tale oggetto di un diritto assoluto ed essenziale
dell’ente […]. Nessun risarcimento compete loro, invece, quando ricorra un
mero collegamento ideologico con il bene che si intende proteggere […] ovvero
se non sia derivato ad essi un danno, ma si tratti solo di difendere gli interessi
morali della categoria». Nella ricostruzione difensiva, non sarebbe comunque
emerso alcun elemento, per i soggetti in questione, da cui desumere l’esistenza
di un pregiudizio risarcibile a seguito della presunta condotta di cui il Ragusa e la

In secondo luogo, si ribadisce che alcune parti civili (Comune di Sinisi,
Solidaria CSC, ConfCommercio, Associazione Antiracket e Antiusura SOS
Impresa Palermo, Centro Studi e Iniziative Culturali “Pio La Torre”, Confindustria
Palermo) non risultano essersi mai costituite nei confronti del Ragusa e della
Messina, diversamente da quanto – per effetto di evidente travisamento affermato nella sentenza impugnata: non avrebbe dovuto pertanto disporsi la
condanna degli imputati alla rifusione delle spese sostenute da quei soggetti,
condanna che avrebbe presupposto necessariamente l’accoglimento della
domanda principale di restituzione o di risarcimento.

16. Propone ricorso anche il difensore di Domenico Serio, Avv. Rosanna
Vella, lamentando vizi della sentenza impugnata ex art. 606, lett. b) ed e), cod.
proc. pen., in relazione agli artt. 192 dello stesso codice di rito e 133 cod. pen.
16.1 La difesa deduce che la Corte territoriale non avrebbe offerto una
sufficiente esposizione circa i peculiari rapporti esistenti tra il Serio e la presunta
persona offesa dell’estorsione a lui ascritta (tale Rosario Puccio, titolare di una
ditta operante nel settore dell’edilizia): le emergenze istruttorie dimostravano
infatti che costui si era dichiarato disponibile a versare somme al Serio non già
quale vittima di richieste estorsive, bensì perché mirava ad essere privilegiato in
vista della assunzione di commesse da ottenere grazie ai buoni uffici
dell’associazione mafiosa, emergendo così un contesto meramente affaristico e
niente affatto connotato da intimidazioni (come già desumibile dalle dichiarazioni
del collaboratore Antonino Nuccio).
Inoltre, secondo il difensore dell’imputato la pena irrogata sarebbe
sproporzionata, tenendo conto che il giudizio negativo sulla personalità del Serio
viene formulato dalla Corte in ragione dei suoi precedenti, che tuttavia appaiono
di modestissimo rilievo.
16.2 L’11/01/2013 risultano presentati motivi nuovi di ricorso, sempre
nell’interesse del Serio, da parte dell’Avv. Luca Cianferoni.

27

Messina si resero in ipotesi responsabili.

Il nuovo difensore dell’imputato deduce innanzi tutto inosservanza ed
erronea applicazione dell’art. 629 cod. pen., ritenendo che nel caso di specie la
condotta da ascrivere al ricorrente, come emersa dagli elementi istruttori
acquisiti, non avrebbe dovuto meritare qualificazione giuridica nei termini
anzidetti. La presunta vittima – il già ricordato Rosario Puccio – aveva infatti
dichiarato di avere contattato egli stesso la persona nei cui confronti aveva
effettuato il pagamento del “pizzo” (Giovanni Bonanno, al quale il Serio sarebbe
subentrato in un secondo momento), e non viceversa; assunto, questo,

segnalato come in un certo periodo i vari affiliati avevano dirottato verso la ditta
del Puccio tutti i soggetti interessati ad acquisti di materiali per l’edilizia, con
l’accordo che periodicamente lo stesso Puccio – promotore dell’intesa – avrebbe
dovuto spartire i guadagni con i Lo Piccolo.

Ergo, nella fattispecie concreta non

potrebbero dirsi ravvisabili la violenza o la minaccia in danno della presunta
persona offesa, la cui volontà non fu in alcun modo coartata: né sussisterebbero
l’ingiusto profitto dell’estorsore con danno del soggetto passivo, dato che era
quest’ultimo a perseguire un fine di lucro.
A fronte di tali dati obiettivi, la motivazione adottata dalla Corte territoriale
per confermare la sentenza di primo grado non sarebbe condivisibile, avendo
posto l’accento su elementi del tutto generici (in particolare, circa la
configurabilità di una condotta estorsiva anche in danno di imprese riferibili a
soggetti affiliati alla stessa organizzazione criminale da cui provenga la richiesta
di pagare il “pizzo”), e senza considerare l’argomento decisivo della posteriorità
dei contatti fra il Puccio ed il Serio rispetto a quelli tra il presunto estorto e il
Bonanno. Né potrebbe essere sufficiente invocare canoni puramente astratti
relativi alla possibilità che una minaccia sia espressa in forma larvata od
implicita, purché nell’ambito di un contesto connotato dallo spessore criminale
dell’ipotizzato autore: a riguardo, la difesa ricorda che l’estraneità al sistema
penale di una fattispecie incriminatrice così delineata risulta dimostrata dalla
mancata conversione in legge del decreto introduttivo dell’art. 629-bis cod. pen.
In secondo luogo, nei motivi nuovi di ricorso il difensore del Serio lamenta
violazione dell’art. 68 cod. pen., relativamente all’applicazione (in concorso) delle
aggravanti di cui agli artt. 629, comma secondo, cod. pen. e 7 del d.l. n. 152 del
1991
La difesa richiama la pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte (n. 10 del
27/04/2001, ric. Cinalli) che ebbe ad affermare la possibilità di detto concorso,
ritenendo tuttavia doverosa una revisione di quell’orientamento, che presuppone
la necessità «di interpretare l’art. 629 comma 2 cod. pen. nel senso di ritenere
sufficiente alla sua integrazione la pura e semplice circostanza dell’appartenenza

28

direttamente riscontrato dalle delazioni del collaboratore Nuccio, che aveva

all’associazione

di

cui

all’art.

416-bis,

in

termini

generici

e

non

contestualizzabili»: in tal modo, però, verrebbe violato il principio di personalità
sancito dall’art. 27 Cost., emergendo una sostanziale responsabilità per tipo di
autore, senza contare che l’ordinamento già prevede strumenti che consentono
di graduare la pena (scegliendo fra il minimo e il massimo edittale, oltre che
applicando i criteri di cui all’art. 133 cod. pen.) in ragione della minore o maggior
gravità dell’addebito.

epigrafe, viene proposto personalmente da Guido Spina.
L’imputato prospetta carenza di motivazione e travisamento della prova,
nonché erronea applicazione dell’art. 192 cod. proc. pen., quanto alla
affermazione della sua responsabilità penale; in particolare, essendo stata
fondata detta affermazione sulle dichiarazioni dei già ricordati collaboratori di
giustizia, mancherebbero nella fattispecie i necessari riscontri individualizzanti
circa la posizione dello Spina, in relazione ai fatti a lui addebitati, il che assume
decisiva rilevanza in un processo nel quale si discute di commercio di sostanze
stupefacenti senza che siano state accertate specifiche condotte di detenzione o
cessione (tanto che l’indeterminatezza desumibile dal capo d’imputazione, dove
si contesta all’imputato di avere acquistato, detenuto e ceduto quattro tipologie
di stupefacenti, senza indicarne le quantità, appare «sintomatico della carenza
probatoria a carico dello stesso»).
Il Franzese ed il Nuccio, secondo il ricorrente, si limiterebbero infatti a
delazioni generiche, entrando anche in reciproco contrasto: il primo avrebbe
indicato lo Spina come un soggetto che aveva interessi comuni con il
Chianchiano in tema di droga, quindi socio di un certo Enzo o Vincenzo nello
stesso traffico e nella gestione di una panineria o salumeria, mentre l’altro
collaboratore aveva ricordato l’acquisto da parte sua di circa 2 kg. di cocaina
unitamente al Bonaccorso, con metà di quel quantitativo poi rivenduto allo Spina
ed a Vincenzo Cosenza (episodio non ritenuto attendibile dagli stessi inquirenti).
Né potrebbe costituire riscontro a quelle dichiarazioni il narrato dell’ulteriore
collaboratore Gaspare Pulizzi, avendo costui descritto il ricorrente in termini del
tutto vaghi come uno spacciatore del quartiere “Zen” di Palermo.

18. Risultano infine depositate memorie nell’interesse delle parti civili
ConfCommercio Palermo ed associazione anti-racket “Sos Impresa Palermo”, con
le quali viene invece sollecitato il rigetto, ovvero la declaratoria di
inammissibilità, dei ricorsi presentati dagli imputati.

29

17. Un ultimo ricorso per cassazione, avverso la sentenza indicata in

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Si impone innanzi tutto lo stralcio della posizione del Mangione, vista la

dell’intervenuto decesso dell’imputato, in ordine alla quale la Cancelleria dovrà
acquisire apposita certificazione anagrafica.

2.

In ragione della complessità ed eterogeneità dei motivi di ricorso

presentati nell’interesse degli altri imputati, questa Corte ne ritiene necessario
un esame per gruppi omogenei, onde evitare ripetizioni di argomenti od
iterazioni di richiami che renderebbero disagevole la stesura di una motivazione
unitaria.

Si analizzeranno pertanto, in primo luogo, i profili di carattere

strettamente processuale, ivi compresa la questione su cui è stata prospettata
una illegittimità costituzionale di norme del codice di rito; si passerà quindi alla
disamina del tema (comune a buona parte dei ricorsi) della valutazione compiuta
dalla Corte di appello di Palermo in ordine alle dichiarazioni rese dai vari
collaboratori di giustizia escussi; in seguito, si affronteranno le doglianze relative
al trattamento sanzionatorio inflitto ai diversi imputati che hanno prospettato
censure a riguardo (anche in tema di dedotta concedibilità delle attenuanti

ex

art. 62 bis cod. pen., nonché di misure di sicurezza); verranno poi trattati i

motivi di ricorso correlati alle circostanze aggravanti contestate e, infine, le
questioni civilistiche.

3. Le questioni in rito
3.1 Nell’interesse del Di Maggio (motivo secondo di ricorso) sono stati
dedotti vizi della motivazione ex art. 606, lett. e), cod. proc. pen. con riguardo
alla ritenuta ritualità di una perizia grafologica compiuta su un “pizzino”,
malgrado si disponesse solo di una fotocopia e senza tenere conto delle
doglianze esposte in un accertamento tecnico di parte. La censura è infondata,
atteso che la Corte territoriale ha sì evidenziato «la valenza dell’accertamento
tecnico che ha ricondotto il “pizzino” al Di Maggio», sottolineando però al
contempo che trattasi di prova superflua «rispetto al complessivo quadro
dimostrativo»; inoltre, la difesa si era limitata a censurarne la significatività in
quanto non risultavano essere stati rilasciati saggi grafici dall’imputato, assunto

30

circostanza (rappresentata dalla difesa nel corso della discussione orale)

cui la sentenza impugnata correttamente obietta che non ne emergeva affatto la
indispensabilità, essendo stati acquisiti al procedimento altri scritti riferibili con
certezza all’imputato.
Su un piano generale, va altresì ricordato che la perizia grafologica ben può
compiersi su una fotocopia piuttosto che sul documento originale,
indipendentemente dalla possibilità più o meno agevole di acquisire quest’ultimo
(v. in proposito Cass., Sez. V, n. 42938 del 20/10/2011, Geat).
3.2 Con riguardo alla questione sollevata dalla difesa del Lo Verde nel primo

giudici di secondo grado secondo cui avverso il decreto n. 1457/2008 «non
risulta formulata alcuna eccezione». Al contrario, con i motivi nuovi di appello
depositati il 13 ottobre 2010 si osservava, con riguardo alle intercettazioni in
generale, che le operazioni, «lungi dall’essere eseguite, così come disposto dal
decreto autorizzativo di urgenza del P.M. presso gli impianti della Procura della
Repubblica mediante sistema m.c.r. ed ascolto remotizzato, sono state effettuate
in luogo diverso, nonché con impianti differenti da quelli previsti (ascolto diretto
e non remotizzato, con registrazioni in originale in un server diverso da quello
indicato, cioè in essere presso la Procura). Peraltro, nei decreti di cui si discute
difetta ogni motivazione circa l’insufficienza e l’inidoneità degli impianti installati
presso la Procura della Repubblica, unica condizione questa eventualmente
legittimante una captazione svolta al di fuori del controllo diretto da parte del
P.M.». Subito dopo si aggiungeva: «analogamente, le captazioni assunte in
forza del decreto 1457/08, per quanto si ricava dagli atti del giudizio, sono
avvenute con le medesime modalità, atteso che si dà atto che le conversazioni
tra presenti sono state registrate mediante l’utilizzo del sistema denominato
“Archimede” noleggiato, previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria, dalla ditta
Multicom s.r.I., con terminali ubicati all’interno della sala intercettazione del
comando provinciale dei Carabinieri».
In sostanza, in sede di appello la difesa del Lo Verde argomentava che
(anche) le intercettazioni di cui al decreto n. 1457 risultavano avvenute
mediante impianti diversi da quelli in dotazione all’autorità giudiziaria
procedente, non già – come si rappresenta oggi nei motivi di ricorso – che vi era
sì l’autorizzazione ad utilizzare impianti presi a noleggio, con facoltà di ascolto
remotizzato, ferma restando la necessità che le registrazioni avvenissero presso
la Procura della Repubblica. Per quanto sfuggita all’attenzione della Corte
territoriale, l’effettiva doglianza avanzata in ordine alle intercettazioni de quibus
risulta pertanto correttamente disattesa nella motivazione della sentenza
impugnata, dandosi atto che era stato esaminato il decreto in questione contenente, a differenza degli altri su cui era intervenuta declaratoria di

31

motivo di ricorso, deve in effetti rilevarsi che non è esatta l’affermazione dei

inutilizzabilità, l’autorizzazione all’uso di impianti peculiari – e che «l’autonoma
verifica effettuata dalla Corte ne attesta la assoluta regolarità».
Regolarità che, pur volendo considerare il diverso profilo oggi (e solo oggi)
sottolineato dal ricorrente, non poteva che inerire proprio &attività di
registrazione, non essendo altrimenti indispensabile alcuna autorizzazione ex art.
268 comma 3 cod. proc. pen., come oramai sancito dalla giurisprudenza delle
Sezioni Unite di questa Corte (v. sentenza n. 36359 del 26/06/2008, ric. Carli):
la legittimità del ricorso ad apparecchiature esterne alla Procura della Repubblica

registrazione, e non anche a quella dell’ascolto (v., ex multis, Cass., Sez. I, n.
38160 del 06/10/2010, Palermiti).
3.3 Sempre con riguardo al ricorso presentato nell’interesse del Lo Verde, il
collegio ritiene di dover ribadire l’orientamento più volte espresso dalla
giurisprudenza di legittimità circa la manifesta infondatezza della questione dì
costituzionalità degli artt. 266 cod. proc. pen. e 13 d.l. n. 152 del 1991, in
relazione all’art. 14 Cost., correlata alla mancanza di una espressa disciplina
legittimante le modalità di accesso a luoghi di privata dimora onde disporvi
strumenti di captazione di comunicazioni fra presenti.
Come la stessa difesa dell’imputato ricorda, detta questione fu già sollevata
dalla Sezione Terza di questa Corte nel 2003, e venne ritenuta manifestamente
inammissibile dal giudice delle leggi per non esserne stata illustrata la rilevanza
ai fini della decisione in quella fattispecie; non è però esatto affermare che la
Corte Costituzionale intese precisare, in detta occasione, che anche il quomodo
dell’ingresso in luoghi garantiti dall’inviolabilità del domicilio fosse da riservare a
determinazioni spettanti all’autorità giudiziaria. Nell’ordinanza n. 251 del 2004,
infatti, la Consulta si limitò a rappresentare che era la Corte rimettente a
«postulare in modo sufficientemente chiaro che, alla stregua della disciplina
vigente, la determinazione delle modalità operative delle c.d. intercettazioni
ambientali domiciliari – anche per quanto attiene, dunque, all’ingresso
fraudolento o clandestino nel luogo di privata dimora per la collocazione degli
apparati di captazione sonora – non resti affidata alla polizia giudiziaria, ma
spetti piuttosto al giudice ed al pubblico ministero “nell’ambito delle rispettive
competenze di cui agli artt. 267 e 268 cod. proc. pen.”: dolendosi invero essa
Corte solo del fatto che la determinazione dell’autorità giudiziaria abbia luogo
“indipendentemente da qualsiasi parametro normativo” (in sostanza, sarebbe in
materia soddisfatta la riserva di giurisdizione posta dall’art. 14, secondo comma,
Cost., ma non la riserva di legge) […]. Al tempo stesso, il giudice a quo dichiara
di dissentire dall’orientamento giurisprudenziale secondo il quale l’ingresso nel
domicilio invito domino dovrebbe considerarsi ammesso dalla legge in quanto

32

procedente va infatti valutata con riferimento esclusivo alla fase della

”naturale modalità attuativa” del mezzo investigativo in parola: orientamento il
cui logico corollario è che l’autorizzazione a detto ingresso risulterebbe implicita
nello stesso decreto autorizzativo dell’intercettazione; e tale dissenso il
rimettente motiva anche con il richiamo alle affermazioni contenute
nell’ordinanza n. 304 del 2000 di questa Corte, per cui le modalità operative
delle intercettazioni ambientali nei luoghi di privata dimora “non richiedono
necessariamente una intrusione arbitraria nel domicilio”».
Ergo, l’esposizione di quei dati di sintesi non costituiva manifestazione di

pacificamente acquisiti, bensì semplice ricostruzione dei termini della questione
di legittimità come prospettata dal giudice a quo.
Non è neanche corretto affermare che la giurisprudenza sovranazionale
abbia oramai, con le pronunce richiamate nell’interesse del ricorrente, affermato
i ridetti principi con valenza tale da determinarne ragioni di vincolo per
l’interprete: le sentenze segnalate dalla difesa, infatti, debbono essere distinte in
due gruppi.
Da un lato, si atteggiano in termini assolutamente peculiari le decisioni
intervenute nei confronti del Regno Unito (oltre a quelle concernenti i casi
menzionati nel corpo del ricorso, va segnalata la prima e più significativa, del
12/05/2000, nel caso Khan): ciò in quanto la violazione dei parametri fissati
dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo non risulta ivi
affermata in relazione alla mancanza di provvedimenti dell’autorità giudiziaria
volti a disciplinare specificamente le modalità di intromissione della polizia in
luoghi tutelati, bensì in relazione al difetto di previsioni di legge tout court in tale
materia, discutendosi sempre – in quelle fattispecie – di intercettazioni disposte
su iniziativa diretta della polizia giudiziaria. Nel caso Chalkley evocato dalla
difesa, peraltro, la violazione dei diritti del ricorrente derivava innanzi tutto dalla
circostanza che, al solo fine di sistemare presso la sua abitazione un dispositivo
di captazione, egli e la sua convivente erano stati arrestati in relazione ad un
addebito del tutto diverso, dove le indagini erano state già definite, ed
allontanati dal domicilio unitamente ai loro figli per il tempo necessario ad
installare la micro-spia.
La giurisprudenza relativa a casistica francese è invece obiettivamente non
significativa: ad esempio, il caso Kruslin riguarda il ben diverso problema dei
limiti all’utilizzabilità di intercettazioni (telefoniche) disposte in altro
procedimento.
In definitiva, non può che confermarsi l’orientamento più volte manifestato
da questa Corte, secondo cui «è manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 266, comma secondo, cod. proc. pen., in

33

principi già elaborati in sede di giurisprudenza costituzionale, o da intendersi

relazione all’art. 14 Cost. che statuisce il principio della inviolabilità del domicilio,
perché la collocazione di microspie all’interno di un luogo di privata dimora
costituisce una delle naturali modalità di attuazione dello strumento
intercettativo. Le intercettazioni, infatti, sono un mezzo di ricerca della prova
funzionale al soddisfacimento dell’interesse pubblico all’accertamento di gravi
delitti, tutelato dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art.
112 Cost., con il quale pertanto, subendo la necessaria compressione, deve
coordinarsi il principio di inviolabilità del domicilio, al pari di quanto l’art. 15

corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, per consentire
l’esecuzione di ispezioni, perquisizioni e sequestri» (Cass., Sez. IV, n. 47331 del
28/09/2005, Cornetto, Rv 232777, nella cui motivazione si spiega più
diffusamente che «il diritto all’inviolabilità del domicilio […] si correla alla
possibilità, dalle stesse prevista, che la legge ne regoli casi e modi,
adeguatamente garantiti, di compressione. Tale possibilità, consentita
espressamente dalla norma costituzionale solo in riferimento ad ispezioni,
perquisizioni e sequestri, va ritenuta sussistente anche in riferimento alla
intercettazione di comunicazioni, stante il collegamento fra l’art. 14 Cost. e la
generale previsione di cui al cpv. dell’art. 15 Cost. che è finalizzata, come gli
istituti previsti nel capoverso dell’art. 14, a consentire il concreto
soddisfacimento degli interessi pubblici a presidio dei quali è posto il principio di
cui all’art. 112 Cost.»).
Orientamento confermato nel 2007 dalla Sezione Prima (sentenza n. 38716
del 02/10/2007, ric. Biondo), con la precisazione che «del tutto superflua
sarebbe una indicazione, da parte del giudice, delle modalità da seguire per
l’attuazione di una attività materiale e tecnica da parte della polizia giudiziaria,
una volta che ne era già stata dal medesimo affermata la legittimità e necessità,
col provvedimento autorizzativo; mentre la registrazione delle conversazioni
intercettate era la prova delle operazioni compiute nel luogo e nei tempi indicati
dal giudice stesso e poi dal P.M.». Nuovamente ribadito quattro anni dopo (v.
Cass., Sez. VI, n. 14547 del 31/01/2011, Di Maggio) ed ancora una volta nel
2012 dalla stessa Sezione Sesta (sentenza n. 41514 del 25/09/2012, ric.
Adamo), dove si spiega altresì che «la finalità di intercettare (conversazioni
telefoniche od ambientali), contrariamente all’assunto dei difensori, comporta
[…] di necessità, e per ragioni assolutamente funzionali al risultato che si intende
conseguire, la violazione, non solo della riservatezza delle relazioni
interpersonali, ma anche la materiale intrusione dell’operatore di polizia, per la
collocazione dei necessari strumenti di rilevazione, negli ambiti e nei luoghi
“privati” oggetto di tali mezzi di ricerca della prova. Né è compito del magistrato

34

Cost. prevede espressamente in materia di libertà e segretezza della

che procede dare alla polizia giudiziaria operante regole di condotta sulle
“modalità di intrusione” nel luogo destinato all’attività di captazione. Si tratta
invero di una sequela di atti materiali, i quali competono – in quanto attività
disposta dalla autorità giudiziaria ex art. 55 cod. proc. pen., comma 2 – alla
stessa polizia giudiziaria come organo esecutivo, considerato che essi rientrano
nella contingente valutazione dinamica della concreta situazione (della persona e
degli ambienti di riferimento), non sempre prevedibile nel suo sviluppo ed
implicazioni pratiche».

anche nell’esame della odierna fattispecie.

4. Le questioni relative alla valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di
giustizia
4.1 Su un piano generale, va necessariamente ricordato che gli elementi
oggetto di doverosa verifica in tema di chiamate in reità od in correità consistono
innanzi tutto nel controllo della credibilità del soggetto che le rende, da svolgere
sia in punto di disamina dell’attendibilità soggettiva del dichiarante (anche in
ragione del contesto in cui risulta maturata la sua determinazione a collaborare
con la giustizia, ovvero della disponibilità a rendere dichiarazioni anche autoaccusatorie su fatti non ancora noti agli inquirenti), sia a proposito delle
caratteristiche del narrato. Una volta affrontata, e superata con esito positivo,
tale prima problematica, occorre procedere al reperimento dei necessari riscontri
esterni, come imposto dalla previsione di cui all’art. 192, comma 3, cod. proc.
pen., dei quali – nell’ambito dei principi elaborati dalla pluriennale e corposa
giurisprudenza di legittimità – va ricordata da un lato la necessità che si tratti di
riscontri individualizzanti sulla posizione dello specifico soggetto cui si riferisce la
chiamata in reità od in correità (anche in relazione all’idoneità dimostrativa sul
fatto che gli si addebita), e dall’altro la possibilità che derivino da acquisizioni
probatorie della più diversa natura, ivi comprese le dichiarazioni di altri
collaboratori, in linea di principio idonee a riscontrarsi reciprocamente purché i
rispettivi contributi di conoscenza di costoro risultino da fonti autonome, senza
fenomeni di “circolarità della prova”.
A riguardo, va ricordato che secondo la giurisprudenza di legittimità «i
riscontri esterni alle chiamate in correità possono essere costituiti anche da
ulteriori dichiarazioni accusatorie, le quali devono tuttavia caratterizzarsi: a) per
la loro convergenza in ordine al fatto materiale oggetto della narrazione; b) per
la loro indipendenza – intesa come mancanza di pregresse intese fraudolente da suggestioni o condizionamenti che potrebbero inficiare il valore della
concordanza; c) per la loro specificità, nel senso che la c.d. convergenza del

35

Argomentazioni ineccepibili, che questa Corte ritiene doveroso fare proprie

molteplice deve essere sufficientemente individualizzante e riguardare sia la
persona dell’incolpato sia le imputazioni a lui ascritte, fermo restando che non
può pretendersi una completa sovrapponibilità degli elementi d’accusa forniti dai
dichiaranti, ma deve privilegiarsi l’aspetto sostanziale della loro concordanza sul
nucleo centrale e significativo della questione fattuale da decidere» (Cass., Sez.
II, n. 13473 del 04/03/2008, Lucchese, Rv 239744). Più di recente, si è
affermato che «in tema di chiamata di correo, quando le dichiarazioni
accusatorie siano plurime e sussista il dubbio di artificiose consonanze, al giudice

collusione o di concerto calunnioso, ma anche se non sia il frutto di
condizionamenti o reciproche influenze, dovendo egli valutare la sussistenza di
fenomeni di allineamento delle indicazioni più recenti rispetto a quelle raccolte
per prime» (Cass., Sez. VI, n. 4157 del 09/10/2012, C., Rv 254292).
Nel caso in esame, ancora come considerazioni di carattere generale, va
preso atto che i collaboratori di giustizia da cui provengono le dichiarazioni
accusatorie più frequentemente contestate dagli imputati erano stati soggetti di
assoluto rilievo all’interno della consorteria criminale (in particolare il Franzese,
che come già ricordato la sentenza impugnata dà atto essere stato reggente
della famiglia di Partanna/Mondello); notevole e peculiare spessore, sul piano dei
riscontri esterni, deve peraltro ascriversi ai “pizzini” già sopra richiamati, taluni
dei quali riferibili specificamente alle contestazioni di reato mosse agli imputati
del presente processo.
4.2 Tanto premesso, a proposito delle doglianze di cui al primo motivo del
ricorso presentato nell’interesse del Bruno, non può condividersi l’assunto
difensivo secondo il quale la notizia di una estorsione in danno di un panificio
della zona avrebbe dovuto intendersi un dato non necessariamente a conoscenza
di un soggetto – quale il Franzese – avente ruolo apicale nell’ambito di “Cosa
Nostra”, considerando la suddivisione del territorio e la chiara necessità di
sottoporre alle figure di vertice ogni iniziativa sulle attività imprenditoriali da
taglieggiare. A riguardo, è appena il caso di ricordare che (anche) la vicenda
dell’estorsione che, secondo l’ipotesi accusatoria, vedeva il Bruno quale
protagonista risultava addirittura oggetto di comunicazione e “contabilizzazione”
nei riguardi idei Lo Piccolo, come dimostrato dai “pizzini” già ricordati e rinvenuti
in loro possesso.
Non coglie nel segno neppure la censura che vorrebbe le dichiarazioni del
Franzese e del Nuccio determinate da una reciproca influenza o comunque non
derivanti da autonome fonti di conoscenza su quei fatti: come risulta a pag. 31
della sentenza impugnata, infatti, il Franzese ed il Nuccio non si limitarono a
parlare tra loro di quella vicenda estorsiva, l’uno informandone l’altro, ma il

36

è fatto obbligo di verificare non soltanto se la convergenza non sia l’esito di

primo aveva incaricato l’altro «di informarsi sull’esito della estorsione al
panificio», tanto che in seguito il Nuccio aveva appreso che secondo Giuseppe
Bruno il “pizzo” sarebbe stato pagato entro la fine del mese. Non vi è dunque
alcuna circolarità o genericità delle informazioni, trattandosi, al contrario, di dati
appresi per effetto della comune militanza nel sodalizio criminale.
Non assume poi rilievo la circostanza che il Franzese avrebbe menzionato
altri soggetti ancora come concorrenti nella medesima estorsione (Andrea Gioè e
Andrea Bruno, cui non risulta sia mai stato contestato alcunché a riguardo): in

percettore, ed Andrea Bruno si sarebbe occupato delle riscossioni in momenti
distinti rispetto a quando se ne era interessato il fratello. E’ ben possibile che,
con riferimento a queste peculiari posizioni, il racconto del collaboratore non
abbia ricevuto riscontri nei ricordi offerti dal Nuccio (che comunque indica a sua
volta il Gioè come fonte delle informazioni sull’andamento dei pagamenti), senza
tuttavia che ciò possa inficiare l’attendibilità del narrato laddove di riscontri ve ne
siano.
Incontestabile, infine, è la valenza di riscontro da riconoscere al “pizzino”
sub FS, in relazione al quale – come si vedrà esaminando i motivi di ricorso
sviluppati nell’interesse del Messina e della Ragusa, vittime di quella estorsione e
imputati di favoreggiamento – è del tutto irragionevole ipotizzare che il “forno
Marinella” ivi menzionato non fosse quello che il Nuccio ebbe addirittura a
riconoscere de visu in una fotografia esibitagli, rimarcando il particolare,
obiettivamente corrispondente al vero, che il Bruno era od era stato titolare di
una salumeria adiacente.
Con riguardo alle deduzioni sviluppate nei motivi nuovi di ricorso, sempre
nell’interesse del Bruno, va oggi precisato che le Sezioni Unite di questa Corte
hanno affermato il principio secondo cui «la chiamata in correità o in reità
relato,

de

anche se non asseverata dalla fonte diretta, il cui esame risulti

impossibile, può avere come unico riscontro, ai fini della prova della
responsabilità penale dell’accusato, altra o altre chiamate di analogo tenore,
purché siano rispettate le seguenti condizioni: a) risulti positivamente effettuata
la valutazione della credibilità soggettiva di ciascun dichiarante e dell’attendibilità
intrinseca di ogni singola dichiarazione, in base ai criteri della specificità, della
coerenza, della costanza, della spontaneità; b) siano accertati i rapporti personali
fra il dichiarante e la fonte diretta, per inferirne dati sintomatici della
corrispondenza al vero di quanto dalla seconda confidato al primo; c) vi sia la
convergenza delle varie chiamate, che devono riscontrarsi reciprocamente in
maniera individualizzante, in relazione a circostanze rilevanti del

thema

probandum; d) vi sia l’indipendenza delle chiamate, nel senso che non devon

37

il

vero, secondo il Franzese il Gioè era uno dei destinatari delle somme, non

rivelarsi frutto di eventuali intese fraudolente; e) sussista l’autonomia genetica
delle chiamate, vale a dire la loro derivazione da fonti di informazione diverse»
(Cass., Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, Aquilina, Rv 255143).
Deve perciò registrarsi che il massimo organo di nomofilachia è giunto ad
approdi più avanzati – rispetto alla giurisprudenza del 2003 evocata nei primi
motivi di ricorso – nell’ammettere la rilevanza delle dichiarazioni accusatorie de
relato: ciò, in ogni caso, escludendosi nuovamente la fondatezza della tesi che
vorrebbe qualificare le delazioni del Franzese o del Nuccio come indirette, o

evidenziate.
4.3 Manifestamente infondato si rivela il primo motivo di ricorso del
Chianchiano: è di palese evidenza che tra il racconto del Franzese e quello del
Nuccio, circa l’arma di cui l’imputato sarebbe stato in possesso e che venne poi
fatta avere a Sandro Lo Piccolo, le divergenze assumono carattere meno che
marginale. Come risulta a pag. 92 della sentenza impugnata, il Franzese disse,
nei vari verbali a sua firma, di ricordare di una pistola posseduta dal
Chianchiano, finita nelle mani del Lo Piccolo e della quale gli aveva parlato il
Nuccio; la ricostruzione del Nuccio è che, invece, la pistola in questione
(comunque del Chianchiano) gli venne consegnata dal La Vardera, egli la diede
al Franzese e quest’ultimo la fece avere al Lo Piccolo.
A pag. 109 della sentenza impugnata, peraltro, si spiega diffusamente che di
accordi con il Chianchiano in tema di pistole ve ne furono più d’uno, e che in ogni
caso la presunta intermediazione del Franzese (non richiamata da costui, ma
certamente non essenziale nell’economia di quella transazione) fu motivata solo
in ragione della nota “tirchieria” dell’imputato: in altre parole, essendo egli
“compare” del Franzese, si era reso necessario che la richiesta dell’arma
provenisse da quest’ultimo, cui il Chianchiano avrebbe avuto difficoltà a negare il
favore. Argomenti, questi, che il ricorrente non si perita neppure di riportare,
nel tentativo di confutarne la decisività, dovendosi pertanto rilevare che le sue
doglianze rimangono aspecifiche.
Il difetto di specificità del motivo – rilevante ai sensi dell’art. 581, lett. c),
cod. proc. pen. – va infatti apprezzato non solo in termini di indeterminatezza,
ma anche «per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla
decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal
momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice
censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’art.
591, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., all’inammissibilità dell’impugnazione»
(Cass., Sez. II, n. 29108 del 15/07/2011, Cannavacciuolo).

38

disegnarle come reciprocamente influenzata l’una dall’altra, per le ragioni sopra

4.4 Il difensore di Gabriele Davi lamenta, nell’unico motivo di ricorso, che i
collaboratori di giustizia da cui le dichiarazioni accusatorie a suo carico
(Franzese, Nuccio e Bonaccorso) non lo avrebbero indicato, neppure
implicitamente, come affiliato al sodalizio mafioso, né avrebbero concretamente
rappresentato – nel corso della loro audizione, avvenuta in udienza preliminare elementi di rilievo tale da superare il giudizio negativo che, in punto di gravità
indiziaria, era stato formulato in sede cautelare sulla posizione del ricorrente.
Si tratta di osservazioni che non è possibile condividere, alla luce di quanto

Oltre al particolare della partecipazione del Davì ad un pranzo cui era
presente Francesco Luppino, uomo di fiducia di Matteo Messina Denaro (per
quanto il Nuccio abbia riferito che il ricorrente non fu protagonista dei colloqui
svoltisi in quella sede, è del tutto ragionevole l’assunto della Corte territoriale
secondo cui ad incontri di tal fatta non si è invitati per caso, ma è necessario che
l’organizzazione criminale nutra massima fiducia verso chi vi partecipa), i giudici
di appello segnalano che la vicenda dell’uso di un ciclomotore del Davi da parte
dello stesso Nuccio, per recarsi nei luoghi dove si nascondeva il Franzese, allora
latitante, non è affatto irrilevante, come sostenuto dalla difesa. Infatti, il Nuccio
non si limita a ricordare di avere ricevuto in prestito il veicolo in questione, ma
aggiunge di essersi rivolto al Davi perché persona di assoluta fiducia, con
l’abitudine di riporre il mezzo all’interno di un magazzino chiuso, adiacente
l’abitazione (dunque rendendo impossibile sistemarvi sistemi di rilevazione o
micro-spie): inoltre, precisa di avere reso edotto il ricorrente circa le finalità
dell’impiego del motorino.
Gli assunti del collaboratore rivestono particolare significato, atteso che il
Nuccio non si atteggia a mero chiamante in reità, ma indica anche se stesso
come autore di condotte di favoreggiamento della latitanza del Franzese: si
tratta peraltro di assunti che trovano ampi riscontri, a partire dalla circostanza
del rinvenimento del ciclomotore in questione proprio in possesso del Nuccio nel
momento in cui venne arrestato. Dell’episodio si mostra a conoscenza anche il
Bonaccorso, che ricorda di avere financo raccolto le confidenze del Davi sulla
preoccupazione che nutriva proprio in virtù del fatto che il Nuccio era stato
arrestato mentre guidava un mezzo di sua proprietà (preoccupazione
logicamente giustificabile proprio in ragione dell’uso illecito che egli era
consapevole veniva fatto di quel veicolo).
Non è poi conforme alle acquisizioni istruttorie la lettura che la difesa del
Davi offre circa i colloqui tra Sandro Lo Piccolo ed il Franzese, ricordati da
quest’ultimo: il fatto che qualcuno avesse “messo gli occhi” sul Davi non significa
che egli, al di là di una formale affiliazione che forse non c’era stata, fosse

39

congruamente esposto nella motivazione della sentenza impugnata.

ancora estraneo al sodalizio mafioso, dal momento che la ricostruzione del
Franzese è nel senso che il Lo Piccolo gli disse che il Davì era già vicino alla
famiglia di Cardillo, dunque la famiglia di Partanna Mondello non poteva nutrire
aspettative su di lui.
La sentenza impugnata chiarisce inoltre che il Nuccio parlò di una pistola che
il Davì aveva preso in custodia, ed esclude che l’episodio dell’aggressione a
Rocco Ferdico possa intendersi estraneo alle logiche della mafia, atteso che
l’iniziativa venne assunta per rimediare ad un presunto “sgarbo” ricevuto da

criminale perché non erano state rispettate le regole sulla suddivisione del
territorio con la famiglia di Carini.
Quanto all’addebito ex art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990, deve innanzi tutto
osservarsi che il Nuccio ha parimenti inteso rendere dichiarazioni autoaccusatorie, descrivendo anche se stesso come partecipe a sua volta
dell’associazione finalizzata al commercio di stupefacenti (tanto da essere stato
separatamente giudicato), associazione composta appunto da lui, dal Davì, da
Rosolino Di Maio e Nunzio Serio. Lo stesso Nuccio ha anche chiarito i compiti di
ciascuno all’interno di quel ristretto sodalizio (egli si occupava di procurarsi la
droga, il Davì la smerciava, il Di Maio vigilava sugli incassi e custodiva il denaro,
Serio teneva i rapporti con Sandro Lo Piccolo che aveva dato l’autorizzazione a
svolgere quell’attività, senza la quale non sarebbe stato possibile gestire affari
del genere sul territorio).
Il Bonaccorso, dal canto suo, non offre affatto i contributi generici lamentati
dalla difesa, riferendo invece di episodi dettagliati: egli ricorda il Davì in società
con le stesse persone sopra indicate, ed aggiunge di avere consegnato
stupefacenti proprio a lui sotto casa propria (trovandosi agli arresti domiciliari),
una volta che il ricorrente gli era stato inviato a quel fine dal suddetto Nuccio.
L’individuazione del Davì risulta assai accurata, visto che della persona in
questione egli precisa un particolare inequivoco, emerso anche dalle delazioni
degli altri collaboratori: si trattava di un giovane che sarebbe stato arrestato in
seguito per una rapina avvenuta al Nord, come infatti occorso al ricorrente il
10/11/2005 nella flagranza di una rapina in banca in provincia di Bologna.
Il Franzese conferma l’esistenza di quel sodalizio, ed il fatto che non sia in
grado di confermare i singoli episodi di acquisto o rivendita di droga posti in
essere dal gruppo in questione si deve intendere del tutto ragionevole, atteso
che egli non ne faceva direttamente parte; la Corte territoriale chiarisce poi che
il collaboratore, se non ha dichiarato alcunché su una presunta consegna di 60
kg. di hashish al Davì, indicata dal Nuccio come avvenuta in presenza dello
stesso Franzese, non ha neppure smentito la circostanza, sulla quale nessuno lo

40

Salvatore Di Maio, con successive ripercussioni all’interno dell’associazione

ha invitato a fornire i propri ricordi.

Inoltre, se la fonte delle informazioni del

Franzese, circa l’associazione ex art. 74 legge stup., era il Nuccio (a sua volta
divenuto collaboratore di giustizia), non è comunque corretto ravvisare nel caso
di specie fenomeni di circolarità della prova, né di dichiarazione de relato in
senso proprio: ciò in quanto, come ricordato, il Nuccio non era persona informata
a vario titolo sulle attività di quel sodalizio, ma ne era partecipe diretto.
4.5 Manifestamente infondate debbono considerarsi le doglianze mosse nel
primo motivo del ricorso presentato nell’interesse di Salvatore Davì.

a far osservare che costoro non lo avrebbero menzionato come soggetto che
avrebbe curato la riscossione dei pagamenti estorsivi, o cui sarebbero state
comunque destinate le relative somme: argomento del tutto irrilevante, atteso
che i suddetti collaboratori confermarono in ogni caso che la “Sala Trattenimenti
Alba” ovvero “Villa Alba” era sottoposta al “pizzo”, e che gli elementi a carico del
Davì derivano direttamente dalle persone offese.
Peraltro, a proposito delle dichiarazioni dei titolari di quel locale (Marcello
Bongiovì e Giuseppe Fanale), il ricorrente travisa totalmente le risultanze
istruttorie, atteso che:
sostiene che il riconoscimento in fotografia dello stesso Salvatore Davì da
parte del Bongiovì, che mai si era incontrato con lui, sarebbe solo de
relato, sulla base della descrizione che del percettore del “pizzo” aveva
fatto il Fanale, ma la realtà è che il Bongiovì dichiarò a verbale di aver
visto su un quotidiano la foto dell’imputato dopo il di lui arresto,
precisando “siamo venuti a conoscenza del suo nome attraverso i
giornali”. Ergo, l’uso della prima persona plurale vuol dire che egli vide
quella fotografia trovandosi insieme al Fanale, menzionato tre righe prima
come la persona alla quale il Davì si era presentato come amico di Tony
Cusimano, e fu evidentemente il Fanale a riconoscere il ricorrente in
quella circostanza: non ci fu dunque alcuna descrizione fisica, ma la presa
d’atto da parte del Bongiovì che il socio gli diceva trattarsi di colui che
passava a riscuotere il “pizzo”;
afferma che dal Fanale sarebbe venuto uno “pseudo riconoscimento
fotografico”, basato sull’immagine della persona ritratta sul giornale e su
una apparente somiglianza, quando invece il suddetto riconobbe il Davì
con assoluta certezza, e non soltanto quanto alla foto apparsa sul
quotidiano.
E’ infine pacificamente innegabile la natura di riscontro che alla effettività
della predetta estorsione offrono i “pizzini” rinvenuti all’esito della scoperta del
covo dei Lo Piccolo, essendovene due che si riferiscono proprio alla Sala

41

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l
ik4

Sul conto dei collaboratori di giustizia Franzese e Nuccio il ricorrente si limita

Ricevimenti Alba: il fatto che in quelle annotazioni non venga menzionato il Davì
non può certo valere ad escludere la sua partecipazione all’attività delittuosa,
così come del tutto neutra è la circostanza che il Cusimano – reo confesso in
ordine all’estorsione de qua, e primo percettore dei pagamenti sul piano
cronologico – non abbia inteso accusare gli altri concorrenti (vale a dire il Davì e
il Mancuso). Detto riscontro, che neppure sarebbe stato necessario data la
linearità e congruenza del narrato delle persone offese, vale a confermare un
giudizio di loro attendibilità che nessun elemento contrario consente di porre in

impugnata laddove si rappresenta che le dichiarazioni del Bongiovì e del Fanale,
«per la loro assoluta, intrinseca attendibilità, costituirebbero di per sé sole un
quadro probatorio più che sufficiente per giungere ad un sicuro giudizio di
colpevolezza, ciò anche dove si considera l’assoluta assenza di elementi a
discolpa da parte degli imputati».
4.6 Non può trovare accoglimento neppure il primo motivo di ricorso
presentato nell’interesse del Di Maio, che contesta l’interpretazione della Corte di
appello di Palermo secondo cui le vicende di una associazione per delinquere
finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, per quanto inserita nel più vasto
contesto criminale di “Cosa Nostra”, dovessero intendersi normale patrimonio
conoscitivo per chi, all’interno del sodalizio mafioso, rivestiva ruoli apicali: ad
avviso della difesa dell’imputato, invece, non si vede perché il reggente di una
famiglia determinata (quale era il Franzese) dovesse necessariamente sapere chi
e con quali modalità aveva costituito gruppi per la gestione di specifiche attività
illecite.
A tale riguardo, va innanzi tutto disattesa la osservazione difensiva secondo
cui sarebbe illogico affermare che l’esistenza di quella associazione ex art. 74
legge stup. costituisse fatto certamente noto tra i vertici di “Cosa Nostra”, per
esserne stata autorizzata l’organizzazione da parte dello stesso Sandro Lo
Piccolo, visto che a quest’ultimo non risulta essere mai stato formalmente
contestato alcun ruolo di promotore o partecipe: il rilievo non è infatti decisivo,
atteso che le determinazioni dell’autorità giudiziaria sull’esercizio o meno
dell’azione penale a carico di un soggetto che sia da ritenere coinvolto in un
fatto-reato non possono intendersi dirimenti sulla ricostruzione storica del fatto
medesimo.
Si è peraltro già ricordato che il Nuccio, a proposito dell’addebito ascritto al
capo 4) della rubrica (anche) al Di Maio, risulta in chiamante in correità, avendo
reso dichiarazioni univoche sulla propria appartenenza a quell’associazione e
precisando – come segnalato nell’esaminare il motivo di ricorso svolto dalla
difesa di Gabriele Davì – che era stato appunto il Lo Piccolo a dare il placet per la

42

dubbio: deve infatti condividersi quanto segnalato a pag. 140 della sentenza

costituzione di quel sodalizio, con cui teneva rapporti, percependone anche parte
dei guadagni, attraverso Nunzio Serio. Ciò da un lato conferma l’assoluta
plausibilità che dell’esistenza di quel gruppo fosse ben consapevole anche il
reggente di una famiglia maflosa come il Franzese, indipendentemente dalle
informazioni che egli poté ricevere direttamente in merito dal Nuccio o da altri;
inoltre, impone di considerare che le dichiarazioni dello stesso Nuccio rivestono
un peso probatorio affatto peculiare, adeguatamente evidenziato nella
motivazione della sentenza impugnata a pag. 167.

difesa del ricorrente, che il Franzese si sia limitato a riferire fatti comunque
appresi da terzi, avendo egli ricordato uno specifico episodio (relativo ad una
transazione di hashish, per un quantitativo di 500 kg.) cui ebbe ad assistere
direttamente ed al quale era presente anche il Di Maio, fornendo così un palese
riscontro individualizzante: e la Corte territoriale ha già puntualmente spiegato
(a pag. 172) l’insostenibilità della tesi difensiva secondo cui lo stesso Di Maio
sarebbe stato descritto come un mero accompagnatore del Nuccio, «giacché non
avrebbe senso pensare ad un accompagnamento silente e ininfluente nell’ambito
di una vicenda che per il suo carattere illecito, per il calibro dei personaggi, per
gli interessi in gioco (i 500 kg.) era certamente tanto “coperta e riservata” da
non consentire soggetti “estranei”».
4.7 Va qualificato manifestamente infondato, e perciò inammissibile, il primo
motivo di ricorso svolto dalla difesa del Di Maggio.
Sul tema della mancata coincidenza fra il contenuto del “pizzino” ivi
segnalato e l’effettiva denominazione della società facente capo a Giuseppe
Todaro, vittima dell’estorsione de qua, basta prendere atto che – nella stessa
prospettazione offerta dalla difesa – la “Mar” aveva preso in affitto locali di
proprietà della “Iregel”, dunque non poteva certamente intendersi una società
del tutto estranea al contesto descritto dalla persona offesa. Appare soprattutto
significativo il particolare, giustamente confermato in entrambe le pronunce di
merito, che “Mar” era comunque il marchio presente sull’insegna dell’immobile in
questione, insegna che lo stesso Todaro aveva autorizzato ad affiggere: ergo, il
richiamo ad una richiesta di pagamento del “pizzo” che era stata avanzata in
quel luogo ben poteva essere effettuato menzionando il nome della ditta più
facilmente percepibile e ricollegabile al luogo in questione (è fin troppo ovvio che
l’autore di un’estorsione non presta certo attenzione alla corretta ragione sociale
del soggetto giuridico per cui opera la persona fisica dalla quale proviene il
pagamento).
Il biglietto in argomento si riferisce a versamenti riguardanti la “Mar” per
2.500,00 euro quanto al 2005 e di 9.700,00 euro per il 2006: somme che, per

43

Non è neppure corretto affermare, come invece insiste nel rappresentare la

entrambe le annualità, risultano abbinate alla dicitura “conto chiuso”, perciò è
evidente che nel 2005 e nel 2006 vi fossero stati altri versamenti. Ne deriva che
non vi è alcun contrasto fra le emergenze documentali e le dichiarazioni rese dal
Todaro e dal Briguglio, i quali avevano parlato di pagamenti estorsivi per 10 o
12.000,00 euro l’anno, senza dimenticare le ulteriori risultanze istruttorie che
vedono il Di Maggio materiale estensore dell’annotazione di cui al “pizzino”
suddetto (come da accertamenti grafologici) ed il Todaro autore di sicure
ricognizioni fotografiche sia del Di Maggio che del suddetto Briguglio – reo

somme a lui estorte.
4.8 Da rigettare è anche il primo motivo di ricorso presentato nell’interesse
del La Vardera.
Il tema del difetto di prova quanto agli addebiti mossi all’imputato in punto
di detenzione e porto di armi, infatti, non è affatto trascurato dalla Corte di
appello di Palermo, precisandosi (a pag. 256) che la figura del ricorrente «era
stata già, da parte del Gup, incidentalmente oggetto di esame nell’ambito del
capo 5) relativo alla detenzione e porto d’arma da fuoco […], dai quali, riteneva
la sentenza impugnata, che pur nell’ottica di un quadro non idoneo ad integrare
la responsabilità penale del medesimo, era comunque emerso un suo diretto ed
attivo coinvolgimento nella consorteria mafiosa». Più tardi, la stessa pronuncia
di secondo grado evidenziava apertis verbis che la contestazione relativa alle
armi doveva intendersi «del tutto marginale nel quadro probatorio concernente
l’imputato».
Abbondantemente trattato è anche il tema dell’appoggio che il La Vardera
avrebbe garantito al Nuccio, come dichiarato da quest’ultimo, nella copertura
degli affiliati latitanti, tra i quali il più volte ricordato Francesco Franzese: vero è
che il Franzese, piuttosto che riferire di sistematiche condotte di
favoreggiamento poste in essere dall’imputato, sostiene di averlo rimproverato
per essere andato a trovarlo, ma resta il fatto innegabile che, seccato o meno di
trovarsi dinanzi il La Vardera, il collaboratore conferma la circostanza che il
ricorrente si era recato nel luogo dove egli si nascondeva durante la latitanza, e
non certo perché capitatovi casualmente. L’episodio dimostra in particolare che
il La Vardera sapeva dove il reggente di una famiglia mafiosa aveva trovato
rifugio, dato che di certo non poteva essere a conoscenza di soggetti estranei
alla consorteria criminale. La Corte territoriale sottolinea assai efficacemente,
fra l’altro, che il Franzese non disse di essersi meravigliato dinanzi alla presa
d’atto che il La Vardera sapesse dove si nascondeva, ma solo di averlo
rimproverato per il solo fatto di esservisi recato, evidentemente in ragione

44

confesso, e chiamante il ricorrente in correità – quali materiali esattori delle

dell’estrema cautela che chiunque avrebbe dovuto osservare per evitare controlli
da parte delle forze dell’ordine.
E’ poi evidente che il Franzese ed il Nuccio descrivono in termini
assolutamente concordi il La Vardera come soggetto grandemente impegnato in
attività estorsive (analogo contributo, sia pure se in termini più generici,
proviene dallo Spataro, che la Corte territoriale precisa non essere stato affatto
smentito nei suoi assunti da altri collaboratori): e, seppure dinanzi al ricordo di
diverse condotte narrate ora dall’uno ora dall’altro in relazione a distinte vittime

l’estorsione in danno di una ditta che invece il Nuccio non menziona, è
assolutamente immune da censure la conclusione dei giudici di appello secondo
cui «la mancanza di una dichiarazione di conferma da parte del Nuccio, in
assenza di una specifica domanda, non può […] leggersi come una smentita, ma
come un dato assolutamente neutro dal punto di vista logico».
Che poi le dichiarazioni di più collaboratori presentino divergenze è del tutto
normale, dal momento che «il giudizio di attendibilità di plurime dichiarazioni
accusatorie convergenti provenienti da soggetti rientranti nelle categorie di cui
all’art. 192, commi terzo e quarto, cod. proc. pen., deve fondare sulla
contestualità ed autonomia delle dichiarazioni, e sulla reciproca non conoscenza
dei soggetti dichiaranti, oltre che su ogni altro elemento in concreto idoneo ad
escludere l’ipotesi di una fraudolenta concertazione ed a conferire a ciascuna
dichiarazione i connotati della reciproca indipendenza ed originalità; le eventuali
discrasie su alcuni punti non inficiano irrimediabilmente l’attendibilità delle
predette dichiarazioni, ma possono talora confermarne la reciproca autonomia,
perché fisiologiche in presenza di narrazioni dello stesso fatto provenienti da
soggetti diversi» (Cass., Sez. II, n. 25795 del 19/06/2012, Bernardo, Rv
253418).
Né va dimenticato che il Nuccio, lungi dal limitarsi a riferire notizie apprese
de relato, riporta anche episodi di cui fu diretto protagonista, sostenendo di
avere ricevuto somme provenienti da condotte estorsive che il La Vardera
recapitava proprio a lui.
4.9 In ordine al secondo motivo di ricorso presentato dalla difesa del Lo
Verde, deve osservarsi che gli argomenti esposti mirano in concreto solo ad una
rivalutazione delle risultanze istruttorie.
Sino alla novella introdotta con la legge n. 46 del 2006, la giurisprudenza di
questa Corte affermava pacificamente che al giudice di legittimità deve ritenersi
preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione
impugnata e l’autonoma adozione di nuovi o diversi parametri di ricostruzione e
valutazione dei fatti, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore

45

della riscossione del “pizzo”, ad esempio per avere il Franzese segnalato

capacità esplicativa, dovendo soltanto controllare se la motivazione della
sentenza di merito fosse intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e
spiegare l’iter logico seguito. Quindi, non potevano avere rilevanza le censure
che si limitavano ad offrire una lettura alternativa delle risultanze probatorie, e la
verifica della correttezza e completezza della motivazione non poteva essere
confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite: la Corte, infatti,
«non deve accertare se la decisione di merito propone la migliore ricostruzione
dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma limitarsi a verificare se

plausibile opinabilità di apprezzamento» (v., ex plurimis, Cass., Sez. IV, n. 4842
del 02/12/2003, Elia).
I parametri di valutazione possono dirsi solo parzialmente mutati per effetto
delle modifiche apportate agli artt. 533 e 606 cod. proc. pen. con la ricordata
novella: in linea di principio, questa Corte potrebbe infatti ravvisare un vizio
rilevante in termini di inosservanza di legge processuale, e per converso in
termini di manifesta illogicità della motivazione, laddove si rappresenti che le
risultanze processuali avrebbero in effetti consentito una ricostruzione dei fatti
alternativa rispetto a quella fatta propria dai giudici di merito, purché tale
diversa ricostruzione abbia appunto maggior spessore sul piano logico
(realizzando così il presupposto del “ragionevole dubbio” ostativo ad una
pronuncia di condanna).
Si è peraltro più volte ribadito che anche all’esito della suddetta riforma «gli
aspetti del giudizio che consistono nella valutazione e nell’apprezzamento del
significato degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono
rilevanti nel giudizio di legittimità se non quando risulti viziato il discorso
giustificativo sulla loro capacità dimostrativa e LI pertanto, restano
inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano nella sostanza rivolte a
sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio» (Cass., Sez. V, n.
8094 dell’11/01/2007, Ienco, Rv 236540). E, proprio con riguardo al principio
dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, si è da ultimo precisato che esso non ha
comunque inciso sulla natura del sindacato della Corte di Cassazione in punto di
motivazione della sentenza e non può, quindi, «essere utilizzato per valorizzare e
rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto,
eventualmente emerse in sede di merito e segnalate dalla difesa, una volta che
tale duplicità sia stata oggetto di attenta disamina da parte del giudice
dell’appello» (Cass., Sez. V, n. 10411 del 28/01/2013, Viola, Rv 254579).
Nella fattispecie oggi in esame, al contrario, la difesa punta a porre nel
dubbio la significatività dell’intercettazione del 20 giugno 2008,

ex se di

straordinaria rilevanza (come ampiamente argomentato nella sentenza

46

questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una

impugnata alle pagg. 290 e segg.), semplicemente obiettando che in altre
conversazioni il Lo Verde non sarebbe stato nominato: è dunque di palese
evidenza come questa Corte venga sollecitata ad una rivisitazione degli elementi
di prova acquisiti, a dispetto della dedotta sussistenza di vizi ex art. 606 cod.
proc. pen. Peraltro, non si vede proprio per quale motivo l’assenza di
riferimenti all’imputato in altri colloqui, per quanto intervenuti fra soggetti più
direttamente impegnati nella ricostituzione della commissione provinciale di
“Cosa Nostra”, dovrebbe assumere valenza dirimente, quando – come parimenti

assolutamente in linea con le delazioni di Maurizio Spataro: quest’ultimo
collaboratore aveva indicato il Lo Verde come un soggetto in grado di
accreditarlo presso l’organizzazione criminale, garantendone l’affidabilità – in
particolare, presso Tanino Fidanzati, che aveva chiesto allo stesso imputato
notizie sul conto dello Spataro – in vista di incarichi per fargli “avvicinare
commercianti” (da sottoporre a richieste estorsive), mentre nel corso della
conversazione sopra ricordata è Gaetano Lo Presti a parlare del Lo Verde, nello
stesso contesto in cui dà atto di avere avuto contatti proprio con il Fidanzati sulle
questioni organizzative oggetto del colloquio.
4.10 Le osservazioni esposte nell’analizzare il primo motivo del ricorso
presentato dalla difesa di Salvatore Davì valgono anche per il corrispondente
primo motivo spiegato nell’interesse del Mancuso: dinanzi alla portata chiara ed
univoca delle dichiarazioni delle persone offese Bongiovì e Fanale (il primo dei
quali, peraltro, risulta avere a sua volta riconosciuto il Mancuso, a differenza di
quanto rilevato per il Davì che aveva avuto contatti diretti solo con il Fanale), è
manifestamente insostenibile la tesi secondo cui il narrato dei collaboratori di
giustizia che riferirono di un’estorsione in danno della Sala Ricevimenti Alba non
avrebbe avuto riscontri esterni.
E’ poi del tutto strumentale rappresentare che l’attendibilità delle stesse
persone offese avrebbe dovuto essere sottoposta ad un vaglio penetrante e
rigoroso, solo in virtù della loro costituzione quali parti civili, quando la prima e
più evidente conferma delle dichiarazioni del Bongiovì e del Fanale – che
indicarono quali autori della condotta criminosa, secondo la successione
cronologica dei soggetti che si presentarono a richiedere il “pizzo”, il Cusimano, il
Davì ed il Mancuso – si rinviene nell’ammissione di responsabilità del suddetto
Cusimano, costituendo dato del tutto neutro la circostanza che egli non intese
fare il nome di chi gli era succeduto nella esazione delle somme.
Quanto alla censura difensiva secondo cui le dichiarazioni del Nuccio non
sarebbero state riscontrate da quelle degli altri collaboratori, va ribadito:

47

evidenziato dai giudici di appello – il contenuto di quell’intercettazione risulta

che, alla luce di quanto appena ricordato, il contributo del Nuccio non
sarebbe neppure indispensabile per una valutazione di congruenza
dell’impianto accusatorio;
che il Nuccio, come chiaramente segnalato nella motivazione della
sentenza impugnata, non riferì soltanto di estorsioni commesse dal
Mancuso, genero di tale Brancatelli, in danno di quell’esercizio, ma ricordò
di avere conosciuto il titolare della sala “Alba” perché presentatogli
proprio dal Mancuso: il Bongiovì ha appunto riconosciuto il Nuccio come

suocero di quest’ultimo quale titolare di una ditta (la Brancagel) con cui
aveva rapporti commerciali;
che se è vero che il Bonaccorso riferisce dati appresi dallo stesso Nuccio,
non altrettanto è a dirsi per il Franzese, al quale – per il suo ruolo di
reggente più volte sottolineato – constava comunque che il Davì e il
Mancuso riscuotessero il “pizzo” presso “Villa Alba”.
4.11 Le doglianze mosse nell’interesse della Messina e del Ragusa (con il
primo motivo di ricorso) riguardano la “circolarità” delle dichiarazioni accusatorie
rese dai collaboratori, da intendersi de relato, tema già affrontato e superato dovendosi disattendere quanto lamentato dai ricorrenti, analogamente a quanto
già esposto esaminando la posizione del Bruno – al precedente punto 4.2, con
osservazioni cui occorre fare rinvio.
Come parimenti già segnalato in quella sede, il “pizzino” rinvenuto presso i
Lo Piccolo e da riferire alla vicenda estorsiva in questione recava la dicitura “800
forno Marinella regalo estate 2005”: dicitura, secondo la difesa, non
univocamente riferibile all’esercizio commerciale gestito dagli imputati e
menzionato dai collaboratori di giustizia, atteso che:
– nel quartiere Marinella vi erano anche altri forni, almeno quattro;
– nulla autorizzerebbe la conclusione che attraverso l’indicazione “Marinella” ci si
riferisse al rione, piuttosto che al nome od al cognome della persona titolare del
negozio;
– i collaboratori avevano parlato di una serie prolungata di riscossioni del “pizzo”
fra il 2007 e il 2008, mentre nel documento si dava contezza di una dazione di
denaro isolata ed anteriore di circa due anni.
Tuttavia, in ordine alla individuazione dell’esercizio commerciale, deve
ricordarsi che il Nuccio aveva parlato del panificio “Pandoro”, indicandone come
titolare tale “Serio della Marinella”; secondo il Franzese, il panificio in questione
apparteneva ad un certo “Nardo”. Pur dovendosi rimarcare in linea di principio
che trattasi di questioni di merito, non si vede proprio quali vizi possano inficiare
la tenuta logica della sentenza impugnata, ove si tenga conto che nello stesso

48

persona che aveva visto in compagnia dell’imputato, e conosceva il

ricorso si rappresenta che un nipote della Messina, occupato in quel negozio, si
chiama proprio Angelo Serio, e che i giudici di appello evidenziano come “Nardo”
fosse appunto il diminutivo con cui era normalmente chiamato il Ragusa, per
stessa ammissione di quest’ultimo (v. pag. 34).
Quanto all’elemento psicologico del delitto di favoreggiamento contestato al
Ragusa ed alla Messina, la difesa trascura le considerazioni svolte nella sentenza
oggetto di ricorso a proposito dell’avvenuta ricognizione fotografica di Giuseppe
Bruno (presunto autore materiale delle richieste estorsive) da parte degli

mera conferma dell’attendibilità dei collaboratori di giustizia, bensì come indice
della volontà del Ragusa e della Messina di negare le risultanze processuali, dal
momento che essi dichiararono di conoscere il Bruno – e il di lui fratello – solo
come clienti occasionali del negozio, quando invece si trattava di persone che
avevano addirittura gestito un esercizio commerciale adiacente.
4.12 II ricorso presentato nell’interesse di Domenico Serio, con riguardo al
tema della non configurabilità dell’estorsione lamentata dal Puccio (mirando
costui a perseguire un lucro con l’aumento di clientela che l’organizzazione
criminale avrebbe potuto garantirgli), si limita a formulare censure
assolutamente generiche: vi si legge infatti che «la motivazione della Corte di
appello, omettendo di affrontare tale punto della questione, risulta meramente
apparente e poco convincente, e pertanto la sentenza merita di essere
annullata».
Altrettanto aspecifico si rivela il contenuto dei motivi nuovi di ricorso, dove si
lamenta che l’erronea applicazione dell’art. 629 cod. pen. deriverebbe dalla
impossibilità di ravvisare nel caso concreto condotte di violenza o minaccia nei
confronti della persona offesa, né ipotesi di profitto ingiusto in capo ai soggetti
attivi, e si sottolinea che il Serio avrebbe avuto contatti con il Puccio in epoca
posteriore a quelli di altri presunti emissari dell’associazione mafiosa; infatti,
nella sentenza impugnata è evidenziato chiaramente che la volontà del Puccio la cui veste di affiliato alla mafia non era comunque emersa – di ricavare un utile
dalla vendita di materiali ad acquirenti inviatigli dalla consorteria criminale fu
manifestata successivamente alla imposizione del “pizzo” e dopo l’intervento
dell’imputato, il che nulla toglie alla natura estorsiva delle richieste a monte di
quella finale scelta di convenienza operata dall’imprenditore.
La riproduzione testuale delle dichiarazioni della persona offesa, che si legge
nella motivazione della Corte territoriale alle pagg. 312 e segg., fa comprendere
che tra il 2001 e il 2004 il Puccio aveva subito intimidazioni, danneggiamenti e
furti, disponendosi così a pagare con l’intermediazione di Giovanni Bonanno: in
seguito si era a lui presentato il Serio, dicendogli che da quel momento il denaro

_
49

imputati: quella ricognizione non assume infatti rilievo ai fini accusatori quale

avrebbe dovuto essere versato a mani sue (cosa che il Bonanno aveva poi
confermato al denunciante, dicendogli di essere ormai estraneo alla vicenda e
che non avrebbe più potuto incidere neppure sul quantum da versare). Solo in
seguito, quando dunque il ruolo centrale ed esclusivo del Serio si era così
affermato, il Puccio – secondo il narrato del più volte ricordato collaboratore
Antonino Nuccio, non a caso menzionato anche dalla persona offesa come
occasionale accompagnatore dello stesso ricorrente – avrebbe avanzato la
richiesta di far convogliare verso la sua ditta più clienti, peraltro proponendo una

precisa infatti che «il Puccio, dopo avere constatato la impossibilità di sottrarsi o
comunque di ridurre l’importo della somma da pagare dopo l’arrivo del Serio,
manifestò il proposito, autonomo rispetto a quanto subiva, di ottenere dei
vantaggi economici dalla consorteria mafiosa».
La difesa, in concreto, non prova neppure a confutare la ricostruzione
cronologica appena delineata, salvo ricordare che il Serio era succeduto al
Bonanno.
Manifestamente infondato appare poi l’argomento che il ricorrente utilizza richiamando il dato formale della mancata conversione in legge della norma che
aveva introdotto l’art. 629-bis cod. pen. – per escludere che l’ordinamento
contempli ipotesi estorsive in cui la minaccia sia connotata da un mero contesto
ambientale o dalla percepita caratura criminale del soggetto da cui proviene la
richiesta di denaro: nel caso in esame il problema è affatto diverso, atteso che di
intimidazioni esplicite il Puccio ne aveva comunque subite in concreto, e solo
dopo essersi trovato costretto ad atti di disposizione patrimoniale per impedirne
il ripetersi aveva cercato di perseguire fini di lucro.
4.13 II ricorso presentato dallo Spina, nella parte in cui lamenta erronea
applicazione dell’art. 192 del codice di rito, si risolve in una inammissibile
riproposizione di tesi già confutate dalla Corte di appello: a pag. 326 della
sentenza impugnata risulta abbondantemente chiarito che «la indicazione nel
capo di imputazione di varie tipologie di sostanza […] non è correlata ad una
tecnica di formulazione della contestazione “confusa”, ma si rileva invero
correlata alla variegata attività delittuosa dell’imputato, avente ad oggetto
ciascuna delle sostanze indicate»; inoltre, risulta parimenti già esclusa la
rilevanza della mancata indicazione dei dati quantitativi o del principio attivo
delle sostanze de quibus, non essendone stato possibile un accertamento in
concreto, realizzandosi altrimenti «l’assurdo interpretativo di non consentire la
punibilità di coloro i quali, con maggiore capacità criminale, siano in grado di
eludere i controlli, ove comunque la condotta risulti dimostrata aliunde».

50

ripartizione degli utili. A pag. 318 della sentenza della Corte di appello si

Nessun contrasto, inoltre, si rileva tra le dichiarazioni del Franzese e del
Nuccio (queste ultime, ancora una volta, di particolare spessore in quanto anche
auto-accusatorie): a tacer d’altro, entrambi parlano dei rapporti di affari dello
Spina con tale Vincenzo, di cui il Nuccio fornisce anche il cognome, e la
mancanza di una espressa contestazione di reato non può essere

ex se

sufficiente per inferirne che un episodio di rilievo penale narrato dall’uno o
dall’altro sia stato ritenuto non verosimile dagli inquirenti. Senza dimenticare
che, anche nel caso dello Spina, vi sono riscontri ulteriori anche sulla base del

interpretare nel senso che tali “Fabio Chian” e “Guido Spina” stessero invadendo
proprio il mercato della droga).

5. I motivi di ricorso afferenti la determinazione delle pene inflitte
5.1 La difesa del Briguglio lamenta, con il primo motivo, carenza di
motivazione in ordine alla scelta dei giudici di merito di muovere da una pena
base (quanto alla sanzione pecuniaria) sensibilmente superiore al minimo
edittale. Si tratta di doglianza che non può trovare accoglimento: vero è che la
sentenza impugnata non spende parole di sorta sui criteri adottati per
l’individuazione di una pena base di 1.500,00 euro (tenendo conto di previsioni
edittali, per la multa, da 516,00 a 2.065,00 euro), ma va considerato che dal
raffronto con la pronuncia di primo grado risulta implicitamente come i giudici di
appello abbiano manifestato l’esigenza di un temperamento rispetto alla
sanzione già inflitta, mantenendo gli stessi criteri di proporzionalità rispetto ai
limiti di legge. La pena base da cui era partito il G.u.p., sempre muovendo
dall’estorsione, era stata infatti pari ad anni 6 di reclusione ed euro 2.000,00 (su
limiti edittali che, tenendo conto dell’aggravante ivi considerata, erano da anni 4,
mesi 6 ed euro 1.032,00 fino a un massimo di anni 20 ed euro 3.098,00).
5.2 Appaiono inammissibili i vari motivi di ricorso in cui si deduce
genericamente violazione ed erronea applicazione degli artt. 62-bis e 133 cod.
pen.: l’osservazione riguarda il secondo motivo presentato nell’interesse del
Bruno, il primo concernente il Cusimano, il secondo di cui al ricorso del Di Maio, il
terzo (quanto all’aspetto relativo alla contestata esclusione delle attenuanti
generiche) del Di Maggio, il quarto relativo al Mancuso e l’unico (in parte qua)
sviluppato dalla difesa del Serio.
Va infatti segnalato che «la graduazione della pena rientra nella
discrezionalità del giudice di merito, il quale la esercita, così come per fissare la
pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen..,
sicché è inammissibile la censura che, nel giudizio di Cassazione, miri ad una
nuova valutazione della congruità della pena» (Cass., Sez. III, n. 1182

51

contenuto di annotazioni rinvenute in possesso dei Lo Piccolo (uno dei quali da

17/10/2007, Cilia); a riguardo, nell’interesse del Di Maio si rappresenta ad
esempio che egli avrebbe meritato una sanzione più modesta giacché avrebbe
partecipato al sodalizio criminoso contestatogli

sub 4 «per un ristretto arco

temporale» (che però nello stesso corpo del ricorso si individua tra il marzo 2005
e la fine del 2006, obiettivamente non tanto “ristretto”), con il marginale compito
di tenuta della cassa per gli acquisti e le cessioni di droga (ed è questione di
merito valutare se tale incombenza sia o no rilevante).
Anche in punto di concedibilità delle attenuanti generiche, il Mancuso ed il

riferimento alla particolare gravità degli addebiti deve considerarsi – per
costante giurisprudenza – sufficiente per fondare un giudizio negativo in sede di
merito, atteso che la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai fini dell’art.
62-bis cod. pen. è oggetto di un giudizio di fatto, e può essere esclusa dal
giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria
decisione, non sindacabile in sede di legittimità neppure quando difetti di uno
specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati
nell’interesse dell’imputato (v. Cass., Sez. VI, n. 42688 del 24/09/2008, Caridi).
Peraltro, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti
generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati
dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o
meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente
alla personalità del colpevole od all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione
di esso può essere sufficiente in tal senso (v. Cass., Sez. II, n. 3609 del
18/01/2011, Sermone).
Ancora a titolo esemplificativo, si rileva che la difesa del Cusimano evidenzia
una presunta contraddittorietà della motivazione della sentenza della Corte
territoriale, nel punto in cui nega all’imputato le attenuanti ex art. 62-bis cod.
pen. ma conferisce rilievo alle sue dichiarazioni perché fondanti l’accusa a carico
di altri imputati: osservazione fuorviante, in quanto i giudici di appello
sottolineano semmai le ammissioni di responsabilità del prevenuto solo quale
dato di riscontro (non indispensabile) alle già chiare emergenze istruttorie che
deponevano per la piena attendibilità del Bongiovì e del Fanale, non invece come
elemento di natura etero-accusatoria, avendo il Cusimano comunque taciuto i
nomi degli altri autori dell’estorsione addebitatagli. A pag. 145 della sentenza
impugnata quella confessione viene financo definita “scaltra” ed “insignificante”,
quale espressione di una scelta di mera convenienza, realizzata con una
particolare attenzione a non rivelare «qualche ulteriore particolare che potesse
incidere direttamente sulla responsabilità di altri».

52

Serio si dolgono della significatività riconosciuta ai rispettivi precedenti, ma già il

5.3 II terzo motivo del ricorso presentato dalla difesa del Lo Verde è a sua
volta inammissibile, perché manifestamente infondato e financo per difetto di
interesse dell’imputato a muovere la doglianza de qua: ribaditi gli argomenti di
cui al punto precedente in punto di pertinenza del trattamento sanzionatorio alla
sede di merito, va altresì considerato che ai fini dell’individuazione del reato più
grave tra l’addebito sub judice e quelli già giudicati la Corte territoriale non ha
affatto assunto determinazioni contra legem.
In vero, una volta verificata l’identità di disegno criminoso fra un reato
ancora da giudicare ed un altro per cui è stata pronunciata condanna, la gravità
delle due fattispecie deve essere necessariamente valutata in concreto, anche in
ragione della pena inflitta per l’addebito su cui vi è già sentenza irrevocabile e
indipendentemente da quella prevista in astratto; inoltre, ipotizzare la maggiore
gravità di un reato di estorsione aggravata rispetto ad un delitto ex art. 416-bis
cod. pen. comporterebbe comunque il ricorso ad un computo che tenga conto
anche della pena pecuniaria, contemplata soltanto dalla fattispecie incriminatrice
di cui all’art. 629 cod. pen.
5.4 E’ invece fondato il secondo motivo di ricorso presentato dalla difesa del
Briguglio, in tema di misura di sicurezza.
La Corte territoriale non risulta infatti avere offerto alcuna motivazione in
ordine alla pericolosità sociale dell’imputato, necessario presupposto per
l’applicazione della casa di lavoro nei suoi confronti. I giudici di appello si
limitano a valutare infondato il relativo motivo di impugnazione, osservando che
l’irrogazione della misura di sicurezza «consegue […], in maniera indefettibile,
per il disposto dell’art. 417 cod. pen., in conseguenza della condanna per il reato
di cui all’art. 416-bis cod. pen. La durata, in vero non lontana dal minimo
edittale, appare del tutto commisurata alla gravità dei delitti in contestazione,
pur tenendo conto della scelta collaborativa che certamente ne contiene la
durata medesima, fissata equamente dal primo giudice».
Deve considerarsi erronea la valutazione di indefettibilità dell’applicazione
della misura, in ordine alla quale la giurisprudenza di questa Corte è ormai
orientata nel senso che – se non vi è l’obbligo di un accertamento in concreto
della pericolosità – non è comunque possibile affermare una «pericolosità sociale
presunta ex lege (istituto espunto dall’ordinamento in forza dell’art. 31 della
legge 10 ottobre 1986, n. 663), dovendosi invece ritenere l’operatività di una
presunzione semplice (desunta dalle caratteristiche del sodalizio criminoso e
dalla connaturata persistenza nel tempo del vincolo malavitoso), la quale è
pertanto superabile quando siano acquisiti elementi idonei ad escludere la
concreta sussistenza della pericolosità» (Cass. Sez. I, n. 6847 del 29/10/2007,
Abbate, Rv 238651; in senso conforme, v. anche Cass., Sez. I, n. 7196 del

4

12/01/2011, Inzerillo, Rv 249224). Appare dunque evidente come i giudici di
secondo grado, nel valutare la posizione del Briguglio, abbiano tenuto conto della
sua qualità di collaboratore di giustizia solo in ordine alla durata della misura
inflitta, senza nulla segnalare a proposito della necessità di formulare un giudizio
di attuale e perdurante pericolosità sociale a dispetto di tale scelta collaborativa
(nonché della sensibile riduzione della stessa pena principale): sul punto, si
impone l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio per nuovo esame ad
altra sezione della Corte di appello di Palermo.

6. Le questioni in tema di circostanze aggravanti
6.1 Debbono intendersi manifestamente infondate tutte le doglianze
avanzate dai ricorrenti che hanno contestato la configurabilità della circostanza
aggravante di cui all’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991.
Il Chianchiano lamenta, sul punto, carenza di motivazione, rilevando che
l’aggravante de qua sarebbe stata ritenuta solo sulla base dell’accertato rapporto
dell’imputato con il Franzese: è tuttavia evidente che già quel collegamento visto che il Franzese era notoriamente latitante, e che fra i due occorsero intese
anche a proposito della consegna di un’arma al Lo Piccolo – rende manifesta la
consapevolezza dell’imputato di agire in un contesto strumentale ai fini
dell’organizzazione criminale.
Per il Cusimano, ad onta del presunto automatismo fra appartenenza ad
un’associazione mafiosa e ravvisabilità dell’aggravante ex art. 7, ancora a pag.
145 della sentenza di appello si segnala come egli fosse stato espressamente
sostituito da altri – che ne avevano

apertis verbis

richiamato il nome,

presentandosi come suoi “amici” – nelle esazioni del pizzo, dimostrandosi così
una «linea di continuità tra i vari correi della estorsione, del tutto intranea alle
unitarie logiche della consorteria mafiosa».
Quanto al Di Maggio, non è corretto affermare che l’aggravante in parola sia
stata riconosciuta solo in virtù delle presunte minacce rivolte dall’imputato a chi
stava realizzando lavori di scavo per il Todaro (aspetto in ordine al quale, del
resto, non sarebbe stato comunque necessario acquisire riscontri, provenendo in
via diretta dalla ricostruzione offerta da una persona offesa pacificamente
meritevole di attendibilità): i giudici di secondo grado ricordano anche e
soprattutto «il contesto mafioso nel quale si muove la condotta, volta ad
ottenere il raggiungimento dell’illecito profitto attraverso la minaccia della
necessità della “messa a posto”».
Relativamente alle doglianze del Mancuso (di cui al terzo motivo del suo
ricorso), del tutto irrilevante ai fini della configurabilità dell’aggravante in esame
è l’assunto secondo il quale egli sarebbe stato illogicamente accostato a due

famiglie distinte, dovendosi piuttosto ricavare da tale elemento la conferma della
sua sicura intraneità a “Cosa Nostra”; né appare condivisibile la ricostruzione
difensiva che vorrebbe la condotta del ricorrente, nella prospettazione descritta
dal Franzese e dal Nuccio, non già ispirata dall’intento di agevolare il sodalizio di
appartenenza bensì da quello di procurarsi un lucro, anche in frode della
consorteria. E’ infatti evidente che i collaboratori rappresentano il Mancuso, nel
momento della riscossione delle somme provento delle attività estorsive, quale
emanazione dell’organizzazione criminale, in piena conformità al quadro offerto
dalla sentenza impugnata, a pag. 153: solo in seguito, dinanzi a problemi
finanziari contingenti, egli avrebbe intascato per sé parte di quel denaro.
6.2 Deve essere rigettato il secondo motivo di ricorso spiegato nell’interesse
del La Vardera, relativo all’erronea applicazione dell’art. 63, comma 4, cod. pen.
in presenza del contestuale riconoscimento delle aggravanti

ex art. 416-bis,

commi 4 e 6. E’ stato già ribadito più volte da questa Corte che «nell’ipotesi di
concorso tra le circostanze aggravanti ad effetto speciale previste per il delitto di
partecipazione ad associazione di tipo mafioso dai commi quarto e sesto dell’art.
416-bis cod. pen., ai fini del calcolo degli aumenti di pena irrogabili, non si
applica la regola generale prevista dall’art. 63, comma quarto, cod. pen., bensì
l’autonoma disciplina derogatoria di cui al citato sesto comma dell’art. 416-bis,
che prevede l’aumento da un terzo alla metà della pena già aggravata» (v.
Cass., Sez. VI, n. 7916 del 13/12/2011, La Franca, Rv 252069). Il computo
della pena operato dai giudici di merito risulta effettuato proprio applicando
correttamente i principi appena richiamati.
6.3 Non può trovare accoglimento neppure il secondo motivo del ricorso del
Mancuso, quanto alla presunta erronea applicazione dell’art. 629, comma
secondo, cod. pen.: a smentire l’osservazione della difesa secondo cui
all’imputato non risulta contestato alcun addebito ex art. 416-bis cod. pen., né
sarebbe comunque stata accertata la sua partecipazione a sodalizi mafiosi,
soccorre infatti lo stesso corpo del ricorso, laddove – nel motivo successivo,
come sopra ricordato – si fa presente che secondo l’ipotesi accusatoria
l’imputato avrebbe financo agevolato più famiglie, in una delle quali il reggente
sarebbe stato «dapprima Franzese, a cui successe Davì ed in seguito Mancuso
Antonino».
6.4 Si impone poi la valutazione di inammissibilità dei motivi nuovi di ricorso
presentati per il Serio (quanto al contestato concorso delle aggravanti

ex artt.

629 comma 2 cod. pen. e 7 del d.l. n. 152 del 1991), nonché per il La Vardera
ed il Lo Verde (sulla ravvisabilità delle circostanze di cui all’art. 416-bis, commi 4
e 6, cod. pen.).

4

Si tratta infatti di motivi del tutto eterogenei rispetto a quelli sviluppati nei
ricorsi originari, mentre le Sezioni Unite di questa Corte insegnano che «i “motivi
nuovi” a sostegno dell’impugnazione, previsti tanto nella disposizione di ordine
generale contenuta nell’art. 585, quarto comma, cod. proc. pen., quanto nelle
norme concernenti il ricorso per cassazione in materia cautelare (art. 311,
quarto comma, cod. proc. pen.) ed il procedimento in camera di consiglio nel
giudizio di legittimità (art. 611, primo comma, cod. proc. pen.), devono avere ad
oggetto i capi o i punti della decisione impugnata che sono stati enunciati
nell’originario atto di gravame ai sensi dell’art. 581, lett. a), cod. proc. pen.»
(sent n. 4683 del 25/02/1998, Bono, Rv 210259). In applicazione del principio
ora richiamato, pronunce successive vi hanno espresso costante adesione,
giungendo recentemente ad affermare che «in tema di ricorso per cassazione, la
presentazione di motivi nuovi è consentita entro i limiti in cui essi investano capi
o punti della decisione già enunciati nell’atto originario di gravame, poiché la
“novità” è riferita ai “motivi”, e quindi alle ragioni che illustrano ed argomentano
il gravame su singoli capi o punti della sentenza impugnata, già censurati con il
ricorso» (Cass., Sez. I, n. 40932 del 26/05/2011, Califano, Rv 251482).
Esemplificando in relazione a questioni di carattere peculiare, si è fra l’altro
ritenuto che «costituiscono punti distinti della decisione, come tali suscettibili di
autonoma considerazione, la questione relativa all’adeguatezza del giudizio di
bilanciamento tra le circostanze, investita dall’appello originario, e quella
inerente alla configurabilità dell’aggravante dell’ingente quantità di sostanza
stupefacente ex art. 80, comma secondo, del d. P.R. n. 309/1990, oggetto del
motivo aggiunto proposto in sede di gravame» (Cass., Sez. VI, n. 73 del
21/09/2011, Aguì, Rv 251780); e che «al ricorrente in cassazione non è
consentito, con i motivi nuovi di cui all’art. 611 cod. proc. pen., dedurre una
violazione di legge se era stato originariamente censurato solo il vizio di
motivazione» (Cass., Sez. V, n. 14991 del 12/01/2012, Strisciuglio, Rv 252320).

7. Le questioni civilistiche
E’ in parte fondato il secondo motivo del ricorso riguardante il Ragusa e la
Messina.
Esaminando gli atti del carteggio processuale, si rileva in effetti che alcuni
soggetti (Comune di Sinisi, Solidaria CSC, Confcommercio, Associazione
Antiracket e Antiusura SOS Impresa Palermo, Centro Studi e Iniziative Culturali
“Pio La Torre”, Confindustria Palermo) non risultano essersi costituiti parti civili
nei confronti dei due imputati: la condanna alle spese pronunciata dal G.u.p. del
Tribunale di Palermo nei confronti del Ragusa e della Messina, anche in favore
delle parti civili anzidette, non trovava pertanto titolo alcuno, ed analogamente è

‘V

a dirsi per le conformi statuizioni adottate dai giudici di secondo grado.
impone pertanto l’annullamento senza rinvio – in parte qua

V’

Si

di entrambe le

sentenze di merito, nei termini di cui al dispositivo.
Il motivo di ricorso in argomento deve invece essere rigettato quanto alla
lamentata carenza di legittimazione a costituirsi da parte degli enti territoriali e
delle associazioni che formalizzarono effettive domande risarcitorie: è
certamente da escludere che tali soggetti possano considerarsi persone offese
dal reato ascritto ai due imputati, ma la costituzione di parte civile ben può
intervenire anche ad opera di chi sia semplicemente danneggiato dal reato, vuoi
per effetto di una immediata diminuzione patrimoniale vuoi per la lesione di
situazioni giuridiche immanenti alla stessa ragion d’essere di quel soggetto. In
tale prospettiva, appare corretta l’argomentazione adottata dai giudici di appello,
incentrata sulla presa d’atto che una condotta omertosa di favoreggiamento
implica una immediata, maggiore esposizione di chi operi nel medesimo tessuto
sociale e si disponga invece a denunciare (od a stimolare che vengano
denunciate) le vessazioni subite: la mancanza di una prova del conseguente
danno, ove non riguardi l’an ma

come nel caso di specie – soltanto una

possibilità di effettiva quantificazione, non comporta alcuna irritualità della
costituzione, salvo dover determinare il giudicante a decidere secondo criteri di
equità.

8. In conclusione, oltre allo stralcio della posizione del Mangione ed agli
annullamenti evidenziati in precedenza, debbono essere dichiarati inammissibili i
ricorsi degli imputati Chianchiano, Cusimano, Salvatore Davì, Di Maggio, Serio e
Spina, con la condanna di ciascuno dei suddetti ricorrenti al pagamento delle
spese del presente giudizio di legittimità, nonché al versamento della somma di
€ 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, così equitativamente stabilita
alla luce della giurisprudenza costituzionale (v. Corte Cost., sent. n. 186 del
13/06/2000).

4

I ricorsi degli imputati Bruno, Gabriele Davì, Di Maio, La Vardera, Lo Verde e
Mancuso debbono invece essere integralmente rigettati, con la conseguente
condanna dei predetti al pagamento delle spese processuali.
Dalla declaratoria di inammissibilità o dal rigetto integrale dei ricorsi deriva
altresì la condanna degli imputati sopra indicati alla rifusione delle spese
sostenute dalle parti civili da intendersi validamente costituite nei loro rispettivi
riguardi, e che hanno formalizzato conclusioni. I relativi importi debbono
liquidarsi come da dispositivo, in ragione dell’impegno professionale richiesto ai
rispettivi patrocinatori ed avuto riguardo al numero delle parti assistite, con
distrazione ex art. 93 cod. proc. civ. laddove ve ne sia istanza.

57

,


P. Q. M.

Dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli
artt. 266, comma 2, cod. proc. pen. e 13 d.l. n. 152 del 1991, in relazione all’art.
14 Cost.;

annulla senza rinvio le statuizioni della sentenza impugnata e quelle della
sentenza emessa dal G.u.p. del Tribunale di Palermo in data 04/12/2009, in
punto di governo delle spese fra gli imputati Ragusa Leonardo e Messina Rosalia
e le parti civili Comune di Cinisi, Solidaria C.S.C., Confcommercio, Associazione
Antiracket e Antiusura “S.o.s. Palermo”, Centro studi e iniziative culturali “Pio La
Torre” e Confindustria Palermo;
annulla le statuizioni della sentenza impugnata nei confronti di Briguglio
Francesco, limitatamente alla condanna dell’imputato alla misura di sicurezza
della casa di lavoro, e rinvia ad altra Sezione della Corte di appello di Palermo
per nuovo esame sul punto;
rigetta nel resto i ricorsi presentati nell’interesse del Briguglio, del Ragusa e della
Messina;
rigetta i ricorsi presentati nell’interesse di Bruno Giuseppe, Davì Gabriele, Di
Maio Rosolino, La Vardera Roberto, Lo Verde Giuseppe, e Mancuso Antonino, e
condanna ciascuno di detti imputati al pagamento delle spese del presente
giudizio di legittimità;
dichiara inammissibili i ricorsi presentati nell’interesse di Chianchiano Fabio,
Cusimano Antonino, Davì Salvatore, Di Maggio Gaspare, Serio Domenico e Spina
Guido, e condanna ciascuno di detti imputati al pagamento delle spese del
presente giudizio di legittimità, nonché della somma di C 1.000,00 in favore della
Cassa delle Ammende;
condanna altresì:
Bruno Giuseppe, Davì Gabriele, La Vardera Roberto, Lo Verde Giuseppe,
Mancuso Antonino, Cusimano Antonino, Davì Salvatore, Di Maggio
Gaspare, Serio Domenico, Ragusa Leonardo e Messina Rosalia, in solido
tra loro, alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio di
cassazione dalle parti civili Confindustria Sicilia, FAI – Federazione
Associata Italiana Antiracket e Antiusura, Comitato “Addio Pizzo”, spese
che liquida in C 2.700,00, oltre accessori come per legge, per la parte
civile Confindustria Sicilia, con attribuzione all’Avv. Vincenzo Lo Re ex art.
93 cod. proc. civ., e complessivamente in C 3.500,00, oltre accessori
r

58

come per legge, per le parti civili FAI – Federazione Associata Italiana
Antiracket e Antiusura e Comitato “Addio Pizzo”, con attribuzione all’Avv.
Ettore Barcellona ex art. 93 cod. proc. civ.;
Bruno Giuseppe, Cusimano Antonino, Davì Gabriele, Davì Salvatore, Di
Maggio Gaspare, La Vardera Roberto, Lo Verde Giuseppe, Mancuso
Antonino, Serio Domenico, in solido tra loro, alla rifusione delle spese
sostenute nel presente giudizio di cassazione dalle parti civili S.O.S.
Impresa Palermo, Solidaria S.C.S. Onlus, ConfCommercio Palermo,

spese che liquida complessivamente in C 3.500,00, oltre accessori come
per legge, per le parti civili S.O.S. Impresa Palermo e Solidaria S.C.S.
Onlus, con attribuzione all’Avv. Fausto Maria Amato ex art. 93 cod. proc.
civ., in C 2.700,00, oltre accessori come per legge, per la parte civile
ConfCommercio Palermo, con attribuzione all’Avv. Gaetano Fabio
Lanfranca ex art. 93 cod. proc. civ., e complessivamente in C 3.500,00,
oltre accessori come per legge, per le parti civili Centro studi e iniziative
culturali “Pio La Torre” e Confindustria Palermo, con attribuzione all’Avv.
Ettore Barcellona ex art. 93 cod. proc. civ.;
Di Maggio Gaspare, alla rifusione delle spese sostenute nel presente
giudizio di cassazione dalla parte civile Todaro Giuseppe, spese che
liquida in C 2.700,00, oltre accessori come per legge, con attribuzione
all’Avv. Ettore Barcellona ex art. 93 cod. proc. civ.;
Davì Salvatore, Cusimano Antonino e Mancuso Antonino, in solido tra
loro, alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio di
cassazione dalla parte civile Bongiovì Marcello, spese che liquida in C
2.700,00, oltre accessori come per legge, con attribuzione all’Avv. Ettore
Barcellona ex art. 93 cod. proc. civ.;
dispone infine lo stralcio del procedimento relativo a Mangione Salvatore, per
consentire alla Cancelleria di acquisire certezza della sua avvenuta morte,
dichiarata nel corso della discussione dall’avvocato difensore; provvederà in tal
senso la Cancelleria a richiedere apposita certificazione anagrafica.

Così deciso il 29/01/2013.

Centro studi e iniziative culturali “Pio La Torre” e Confindustria Palermo,

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