Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5064 del 19/11/2013


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 5064 Anno 2014
Presidente: GARRIBBA TITO
Relatore: IPPOLITO FRANCESCO

SENTENZA
sui ricorsi proposti da
GUARNERI Michele Alfredo, n. a Campobello di Licata il 29/09/1951
GAUDIO Francesco, n. a Oriolo il 23/04/1959
SABATINO Antonio, n. a Morges (Svizzera) il 18/11/1975
BALLARINO Maurizio Aldo, n. Milazzo il 19/09/1970
PAFUNDI Michele, n. a Potenza il 18/10/1966
contro la sentenza della Corte d’appello di Milano del 24/03/2011•
– letti la sentenza impugnata e i ricorsi;
– udita la relazione del cons. F. Ippolito;
– udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore generale E.
Scardaccione, che ha concluso per l ‘inammissibilità del ricorso del Sabatino e per il rigetto degli
altri ricorsi;
– udito il difensore della parte civile Poste Italiane, avv. A. Nanni, che ha concluso per il rigetto dei
ricorsi, depositando conclusioni e note scritte:
– uditi i difensori degli imputati, avv. A. Pagliarello per Guarneri, Ballarino e Pafindi, e avv.A.
Zampogna per Sabatino, i quali hanno concluso per l ‘accoglimento dei ricorsi.
Ritenuto in fatto
1. A seguito di reiterate denunce del direttore del Centro Meccanizzato Postale di
Peschiera Borromeo, aventi ad oggetto corrispondenza distrutta o lacerata e rinvenuta nei
bagni e rinvenimento di missive e plichi manomessi, nei primi mesi del 2005 veniva disposta
ed effettuata un’indagine nel predetto Centro a mezzo di agenti di polizia postale (sotto
copertura di normale personale postale), con successive perquisizioni personali e domiciliari e
utilizzazione di videocamere collocate nei bagni del Centro, ove – secondo le constatazioni degli
agenti – vari dipendenti si recavano ripetutamente nel corso dell’orario di lavoro.
1

Data Udienza: 19/11/2013

2. All’esito delle indagini preliminari, numerosi dipendenti, tra cui i ricorrenti, venivano
tratti a giudizio per i delitti di peculato (art. 314 c.p.) e di violazione, sottrazione e
soppressione di corrispondenza di corrispondenza commesse da persona addetta al servizio
delle poste, di telegrafi o dei telefoni (artt. 616- 619 c.p.), con la circostanza aggravante
dell’art. 61 n. 11 c.p., reati commessi nei mesi di gennaio, febbraio e marzo del 2005.

3. Il Tribunale di Milano, in data 14 novembre 2007, ha dichiarato la colpevolezza per i

riconoscimento per tutti delle circostanze attenuanti generiche (art.

62-bis c.p.) e per

Guarneri, Gaudio, Sabatino e Pafundi anche di quella della particolare tenuità (art. 323-bis
c.p.).

4. Contro la decisione della Corte d’appello che, in data 24/03/2011, ha confermata la
sentenza di primo grado, ricorrono per cassazione gli imputati.
4.1. Il difensore di Guarneri, Ballarini e Pafundi, con separati analoghi ricorsi, deduce:
1) violazione dell’art. 606.1 lett. b) e c) c.p.p. in relazione agli artt. 189 e 191 c.p.p. Violazione
o erronea applicazione dell’art. 14 e art. 15 Cost. e art. 8 Cedu, nonché violazione degli artt.
189 e 191 c.p.p. in riferimento alla ritenuta utilizzabilità e/o ammissibilità delle video riprese;
2) violazione dell’art. 606.1 lett. c) c.p.p. in relazione all’art. 268 c.p.p. e del diritto di difesa.
Carenza di motivazione su un punto essenziale del processo relativo alla mancata acquisizione
e messa a disposizione dei difensori delle videoregistrazioni nella loro interessa. Mancata
assunzione di una prova decisiva. Violazione del diritto di difesa;
3) violazione dell’art. 606.1 lett. b) e c) c.p.p. in relazione agli artt. 429.2 e 519 c.p.p.
Inosservanza ed erronea applicazione di norme di legge, con riferimento all’art. 429.1 c.p.p..
Carenza e/o contraddittorietà della motivazione;
4) violazione dell’art. 606.1 lett. b) e c) c.p.p. in relazione all’art. 521 c.p.p. – Carenza e
contraddittorietà della motivazione;
5) violazione e falsa applicazione delle legge penale con riferimento all’art. 314 c.p. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della sentenza risultante dal materiale
probatorio presente in atti;
6) ex art.

606.1 lett. b) c.p.p., violazione e falsa applicazione delle legge penale con

riferimento agli artt. 616 e 619 c.p.;
7) violazione e falsa applicazione delle legge, in particolare degli artt. 83 e 84 dpr 29 marzo
1973 n. 156, con riferimento agli artt. 314, 616 e 619 c.p. – Violazione dell’art. 49 c.p..
Carenza di motivazione;
8) violazione, falsa applicazione delle legge e mancanza di motivazione, cm n riferimento all’art.
81, commi primo e secondo, c.p.
4.2. Con ricorso personale Francesco Gaudio deduce inosservanza o erronea

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reati rispettivamente ascritti degli imputati oggi ricorrenti, condannandoli a pene varie, previo

applicazione di norme di legge di cui tener conto nell’applicazione della legge penale e vizio di
motivazione con riferimento alla videoregistrazioni, sotto due profili, il primo concernente la
congruità della motivazione del decreto autorizzativo del pubblico ministero, il secondo relativo
alla configurabilità del bagno quale luogo di privata dimora o luogo solamente riservato.

4.3. Il difensore di Antonio Sabatino, ex art. 606.1 lett.

e) c.p.p. lamenta vizio di

motivazione della sentenza, denunciando la falsità della ricostruzione dei fatti operata dai
giudici del merito, contraddizioni tra la motivazione del Tribunale e quella della Corte d’appello

Considerato in diritto
1. Nei ricorsi di Guarneri, Ballarini e Pafundi (particolarmente nel primo) vengono
formulati avverso la sentenza della Corte d’appello i più numerosi motivi dì impugnazione,
comprensivi delle diverse doglianze rappresentate anche dagli altri ricorrenti, per cui la
motivazione seguirà la sequenza delle censure ivi rappresentate e sopra sintetizzate.

2. Infondati sono le doglianze che contestano l’utilizzabilità delle videoregistrazioni per
mancata autorizzazione dal parte del giudice per le indagini preliminari.
I giudici di merito hanno rigettato le eccezioni dei difensori, facendo corretta
applicazione della giurisprudenza di questa Corte, escludendo che il bagno in cui furono
effettuate le videoriprese possa qualificarsi luogo di privata dimora ai fini del divieto delle
operazioni anzidette, attinenti a cm
Come ha pme già avuto modo

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rtamentiInon comunicativi.
és*V-Córte, la tutela accordata dall’art. 14 Cost. non è

diretta a tutelare un generico diritto alla riservatezza, ma a preservare da interferenze esterne
determinati luoghi qualificabili come “domicilio”, i quali ricevono una particolare tutela in
quanto in essi estrinsecano la loro vita privata coloro che li posseggono e che hanno diritto,
anche in loro assenza, di escludervi chicchessia. In tale ristretta nozione non rientrano i locali
adibiti a bagno dal datore di lavoro, avendone gli utenti un mero potere temporaneo di uso
esclusivo per ragioni di igiene o buon costume. Un simile locale, pur soddisfacendo a legittime
esigenza di carattere privato, non corrisponde agli indicati postulati enucleabili dall’art. 614
c.p.. I locali messi a disposizione dei dipendenti dal datore di lavoro sono vincolati alla
destinazione specifica loro assegnata dal datore di lavoro. Sicché è possibile ipotizzarne un uso
temporaneo esclusivo del dipendente solo a condizione che egli adoperi il locale in modo
conforme alla sua normale destinazione.
Deve perciò confermarsi che il servizio di osservazione, realizzato dalla Polizia
giudiziaria a mezzo di una telecamera installata all’interno di un bagno di un stabilimento di
lavoro in cui operano una pluralità di persone, non configura una forma di intercettazione tra
presenti ai sensi dell’art. 266, comma 2, cod. proc. pen., in quanto il luogo in questione,
caratterizzato da una frequenza del tutto temporanea da parte degli utenti, non può essere

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e disparità di trattamento nella valutazione delle posizioni degli imputatiì.

assimilato alla privata dimora che presuppone una relazione con un minimo grado di stabilità e
continuatività con le persone che la frequentano (cfr. per analoga soluzione, Cass. Sez. 6, n.
42711 del 23/10/2008, Rv. 241880; Sez. U, n. 26795 del 28/03/2006, Rv. 234269).
Tali videoregistrazioni in ambienti in cui è garantita l’intimità e la riservatezza , non
riconducibili alla nozione di “domicilio”, sono prove atipiche, soggette ad autorizzazione
motivata dell’autorità giudiziaria – e perciò anche del pubblico ministero – e alla disciplina
dettata dall’art. 189 cod. proc. pen. (Cass. Sez. U, n. 26795 del 28/03/2006, Rv. 234267).
Nel caso in esame la istallazione era stata disposta dal pubblico ministero con decreto

in ambito non domiciliare, avevano avuto ad oggetto comportamenti non comunicativi: deve
perciò confermarsi quanto in proposito hanno osservato Tribunale e Corte d’appello sulla
legittimità, ammissibilità e utilizzabilità come prova delle predette videoregistrazioni.

3. Del tutto priva di fondamento è anche la censura di violazione dell’art. 268 c.p.p. per
la mancata acquisizione e messa a disposizione dei difensori delle videoregistrazioni effettuate
dalla polizia giudiziaria.
Come è noto sia la Corte costituzionale (sent. n. 135 del 2002) sia la giurisprudenza di
legittimità (sentenze sopra citate) hanno escluso l’applicabilità alle videoregistrazioni non
comunicative della disciplina prevista in materia di intercettazione di conversazioni, cosicché
non si può porre alcuna questione di applicabilità dell’art. 268 c.p.p. nel testo derivante dalla
sentenza della Corte cost. n. 336 del 2008, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della
predetta disposizione nella parte in cui non prevede che, dopo la notificazione o l’esecuzione
dell’ordinanza che dispone una misura cautelare personale, il difensore possa ottenere la
trasposizione su un nastro magnetico delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni
intercettate, utilizzate ai fini dell’adozione del provvedimento cautelare, anche se non
depositate.
Né da tale norma (nel testo successivo alla indicata sentenza della Corte costituzionale)
può farsi applicazione analogica, in quanto manca del tutta l’identità di

ratio con la

registrazione delle intercettazioni telefoniche o ambientali. Risulta espressamente dal testo
dalla sentenza della n.336 del 2008 della Corte costituzionale che la ragione della dichiarata
illegittimità costituzionale fu individuata nel pieno esercizio del diritto di difesa, per il quale può
essere ritenuto necessario l’accesso diretto alle registrazioni per interpretare e valutare
l’effettivo significato delle parole e delle frasi registrate, risultando “spesso rilevanti le
intonazioni della voce, le pause che, a parità di trascrizione dei fonemi, possono mutare in
tutto o in parte il senso di una conversazione”. Problemi questi ultimi che, per definizione, non
si pongono per le videoregistrazioni non comunicative.
In ogni caso, ciò che importa è che il giudizio sia stato emesso sulla base degli elementi
probatori legittimamente acquisiti. E’ annotato nella sentenza di primo grado, confermata dalla
decisione della corte d’appello, che “tutte le riprese ritenute rilevanti dal pubblico ministero
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adeguatamente motivato, riprodotto nella sentenza di primo grado e le riprese visive, eseguite

sono state viste nel pieno contraddittorio degli imputati e dei loro difensori … tanto che molti
esami sono stati resi contestualmente alla visione dei filmati. Sin dalla fase delle indagini
preliminari, piena facoltà avevano le difese di estrarre copia di tutti i cd-rom e di segnalare
eventuali altri filmati ritenuti anche soltanto utili ai fini del decidere, e ciò è stato
espressamente ribadito dal collegio anche all’udienza del 20 marzo 2007, prima che si desse
inizio alla visione dibattimentale, ma nessuna concreta indicazione aggiuntiva è stata offerta”.
Nessuna contestazione in contrario è stata sollevata in ricorso, per cui devono ritenersi

4. Inammissibile è la censura concernente l’asserita violazione dell’art. 429.1 lett. c) e
519.2 c.p.p., che, contrariamente a quanto assume il ricorrente, non integra una nullità
assoluta, bensì una nullità relativa, che come tale deve essere eccepita, pena altrimenti la
sanatoria, entro il termine previsto dagli artt. 491.1 e 182.2 cod. proc. pen. (cfr. Cass. Sez. 5,
n. 20739 del 25/03/2010, Rv. 247590; Sez. 5, n. 712 del 20/11/2009, 245734; Sez. 2,
Sentenza n. 16817 del 27/03/2008, Rv. 239757), mentre dalla sentenza impugnata emerge
che la doglianza fu espressa nel corso del giudizio d’appello con motivi aggiunti.

5. I motivi sub n. 4 (riguardanti l’art. 521 c.p.p.), 6 (concernenti gli artt. 616-619 c.p.)
e 8 (relativo alla ritenuta continuazione nel reato) sono inammissibili giacché, al di là della
formulazione della rubrica, involgono valutazioni di fatto di esclusiva competenza dei giudici di
merito quando – come le caso in esame – la sentenza sia fornita di motivazione giuridicamente
corretta e plausibile sotto il profilo logico.

6. Destituito di ogni fondamento è anche il settimo motivo, con cui si deduce violazione
dell’art. 49 c.p. per effetto della falsa applicazione degli artt. 83 e 84 d.P.R. 29 marzo 1973, n.
156 (approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia postale,di bancoposta
e di telecomunicazioni), assumendosi che la disposizione del regolamento postale che inibisce
di inserire valori o denari nella corrispondenza rende “materialmente impossibile il denaro di
peculato”, dove, all’evidenza, si confonde tra norme regolamentari rivolte agli utenti del
servizio postale e norme penali concernenti la condotta degli operatori dello stesso servizio.

8. Prima di passare all’unico motivo fondato, sollevato dal difensore di Guarneri,
Ballarino e Pafundi, ed estensibile a tutti i ricorrenti, vanno esaminati i residui motivi di
Francesco Gaudio e di Antonio Sabatino, che deducono censure diverse da quelle consentite
dall’art. 606 c.p.p.
I ricorrenti hanno formulato doglianze che riguardano la ricostruzione dei fatti e che si
risolvono in una diversa valutazione delle circostanze già valutate dalla Corte di appello, e da
questa rigettate con esauriente e plausibile motivazione che si sottrae al sindacato di cui
all’art. 606.1 lett. e) c.p.p.

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manifestamente infondate le censure formulate.

9. Tornando all’impugnazione di Guarneri, Ballarino e Pafundi, osserva il Collegio che è
fondata la censura d’inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 314 cod. pen., sia pure per
ragioni diverse da quelle esplicitate dai ricorrenti nel ricorso per cassazione.

9.1. L’art. 314 c.p. delinea una fattispecie di reato proprio del “pubblico ufficiale o
incaricato di pubblico servizio”. Secondo i giudici del merito la qualifica “quanto meno di
incaricati di pubblico servizio” agli addetti allo smistamento della posta deriva dall’art. 12
d.P.R. 156 del 1973 cit., secondo cui “le persona addette ai servizi postali, di bancoposta,

pubblico servizio, secondo la natura delle funzioni loro affidate, in conformità agli artt. 357 e
358 del codice penale”.
Tale conclusione non tiene conto della modificazione del testo dell’art. 358 c.p.,
introdotta dall’ad 18 I. 26 aprile 1990, n. 96, che ha escluso dall’attività di pubblico servizio lo
“svolgimento di semplici mansioni di ordine” e la “prestazione di opera meramente materiale”.
In applicazione di tale innovazione, con cui il legislatore ha voluto espressamente
restringere le qualifiche pubblicistiche rilevanti nei reati propri contro la pubblica
amministrazione, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che riveste la qualifica di
incaricato di pubblico servizio l’impiegato dell’ente “Poste italiane” addetto alla
regolarizzazione, mediante affrancatura, dei bollettini dei pacchi da restituire al mittente, e alla
tenuta di un apposito registro nel quale annotare i dati identificativi di ciascuna operazione, di
attività di natura non meramente applicativa od esecutiva (cfr. Sez. 6, n. 39591 del
02/11/2010, Rv. 248532; Sez. 6, n. 37102 del 07/05/2004, Rv. 230374); il portalettere che si
impossessi di un vaglia postale di cui abbia la disponibilità per ragioni del suo servizio,
riscuotendone successivamente l’importo, assumendo egli la qualifica di incaricato di pubblico
servizio in ragione dei compiti di certificazione della consegna e della ricezione della specifica
tipologia di corrispondenza in oggetto (Sez. 6, n. 27981 del 12/05/2011, Rv. 250543); il
dipendente dell’ente Poste che svolga mansioni di “cedolista”, in quanto tale attività comporta
non solo mansioni d’ordine o prestazioni materiali come il trasporto dei dispacci, ma anche
significativi compiti accessori quali quelli di apposizione di firma liberatoria di quanto ricevuto
in consegna dalle ditte accollatane della corrispondenza speciale (Sez. 5, Sentenza n. 22018
del 21/03/2003, Rv. 224671).
La qualifica di incaricato di pubblico servizio, dunque, è stata riconosciuta alle figure di
dipendenti dell’ente Poste italiane sempreché le attività esercitate siano connotate, in concreto,
dall’esercizio di attività disciplinate nelle stesse forme della pubblica funzione, ma
caratterizzata dalla mancanza di poteri tipici di quest’ultima.
Per volontà del legislatore vanno, invece, esclusi dal novero degli incaricati di pubblico
servizio coloro che esplicano semplici mansioni d’ordine, vale a dire mansioni meramente
esecutive, prive di qualsivoglia carattere di discrezionalità e di autonomia decisionale.

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anche se dati in concessione ad uso pubblico, sono considerati pubblici ufficiali od incaricati di

Questa Corte ha già avuto modo di precisare, con conclusioni che il Collegio condivide,
che non riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio il dipendente delle Poste italiane
s.p.a. che risulti esclusivamente addetto, con mansioni di “ripartitore”, ad attività di mero
smistamento della corrispondenza (Cass. Sez. 6, n. 46245 del 20/11/2012, Rv. 253505).

9.2. Nel caso in esame, gli imputati ricorrenti operavano nel reparto di smistamento
della corrispondenza, il quale veniva normalmente effettuato a mezzo di strumenti meccanici,
limitandosi l’intervento umano a sopperire all’episodico malfunzionamento delle macchine, nel

Trattasi, com’è evidente, di compiti di semplice esecuzione e di prestazioni meramente
materiali, ordinariamente compiuti dal sistema meccanizzato.

10. Esclusa, dunque, la veste di incaricato di pubblico servizio, la condotta posta in
essere dai ricorrenti, come accertata dai giudici del merito, deve essere diversamente
qualificata nel meno grave reato di appropriazione indebita, senza che ciò comporti una
violazione del principio del contraddittorio, avendo gli stessi imputati sempre contestato la
qualificazione pubblicistica della loro attività. Ricorre nella specie l’aggravante dall’essere stato
commesso il fatto con abuso di relazione d’ufficio e prestazione d’opera, ciò che rende il delitto
procedibile d’ufficio (art. 646, ultimo comma, c.p., con riferimento all’art. 61 n. 11 c.p.).

11. Considerata la pena prevista per tale reato e il termine di presxizioen di cui agli artt.
157, 160 e 161 c.p., come modificati dalla I. 5 dicembre 2005, n. 151, il reato va dichiarato
estinto per prescrizione.
Per tale ragione la sentenza impugnata deve essere annullata, ferme rimanendo le
statuizioni civili.
Segue la condanna dei ricorrenti alla rifusione in solido delle spese sostenute dalla
parte civile, che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, qualificate le imputazioni di cui all’art.. 314 c.p. come reati di appropriazione indebita
aggravata ex artt. 646 e 61 n. 11 c.p., annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché i
reati ascritti sono estinti per prescrizione. Conferma le statuizioni civili e condanna i ricorrenti
alla rifusione in solido delle spese sostenute dalla parte civile che liquida in € 4.000,00
(quattromila), oltre IVA e C.P.A.
Roma, 19 novembre 2013.

caso in cui rifiutassero buste non regolamentari, sgualcite o male affrancate.

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