Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 50616 del 06/12/2013


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 50616 Anno 2013
Presidente: DI VIRGINIO ADOLFO
Relatore: VILLONI ORLANDO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COLOMBO Gianpiero, n. Monza 11.5.1963
avverso la sentenza n. 14/2012 Corte d’Appello di Milano dell’11/12/2012
esaminati gli atti e letti il ricorso ed il provvedimento decisorio impugnato;
lette le conclusioni del PG, che ha concluso per il rigetto del ricorso
udita in camera di consiglio la relazione del consigliere dott. Orlando Villoni;

RITENUTO IN FATTO
1. Con atto depositato il 23/01/2023 e sottoscritto dal proprio difensore, Gianpiero Colombo ha
proposto ricorso avverso la sentenza emessa il 01/12/2012 dalla Corte di Appello di Milano che
aveva riconosciuto, ai fini dell’applicazione della recidiva, la sentenza penale straniera pronunziata il 13/08/1993 dalla Corte d’Appello per il Terzo Distretto degli Stati Uniti d’America,
che a sua volta aveva confermato la sentenza del 22/01/1993 del Tribunale Distrettuale del
New Jersey emessa a carico del ricorrente per il reato di associazione per delinquere finalizzata
alla detenzione e allo spaccio di sostanze stupefacenti (cocaina).
2. Prospettando come unico motivo di censura l’erronea applicazione dell’art. 730, comma 1,
cod. proc. pen., il ricorrente deduce che la Corte territoriale ha indebitamente proceduto al riconoscimento della sentenza penale straniera nei propri confronti, essendo egli cittadino italiano ma da tempo residente all’estero (Venezuela). Sostiene, infatti, che il citato art. 730, comma 1, cod. proc. pen. nel contemplare la trasmissione da parte del Ministro della Giustizia al
Procuratore Generale presso la Corte d’Appello competente di sentenze penali pronunciate
“all’estero nei confronti di cittadini italiani o di stranieri o di apolidi residenti nello Stato ovvero
di persone sottoposte a procedimento penale nello Stato” stabilisce un preciso limite alla riconoscibilità delle sentenze penali straniere nei confronti di cittadini che non sono residenti nel

Data Udienza: 06/12/2013

territorio dello Stato ed ivi non risultano sottoposti a procedimento penale, limite che trova una
logica giustificazione nella concreta utilità processuale dell’espletanda procedura giurisdizionale.

CONSIDERATO IN DIRITTO
2. Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito enunciate.

Va anche premesso che non esiste, nell’ambito dei rapporti di cooperazione giudiziaria penale
tra Italia e Stati Uniti d’America, uno strumento pattizio di regolamentazione della materia, che
avrebbe altrimenti postulato l’applicazione dell’art. 731 cod. proc. pen.: sono, dunque, propriamente le previsioni dell’art. 730 cod. proc. pen. a trovare applicazione nel caso di specie.
Ciò posto, il primo canone ermeneutico che si impone nell’interpretazione della legge è quello
letterale, secondo quanto stabilito dall’art. 12, comma primo, preleggi, a mente del quale
“Nello applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal
significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del
legislatore”, ma nel caso di specie occorre prendere atto che la previsione in esame (“sentenza
… pronunciata all’estero nei confronti di cittadini italiani o di stranieri o di apolidi residenti nello
Stato ovvero di persone sottoposte a procedimento penale nello Stato”) non si presta ad interpretazione ictu oculi piana e dirimente.
L’uso in sequenza delle disgiunzioni “o” e “ovvero” non permette, infatti, di escludere che le
definizioni di “residenti nello Stato” e di “persone sottoposte a procedimento penale nello Stato” si riferiscano in maniera non equivoca alle sole categorie degli stranieri e degli apolidi e non
anche a quella categoria dei cittadini italiani.
Un esito interpretativo più netto sarebbe stato ad es. consentito dall’eventuale uso da parte del
legislatore della congiunzione “e” dopo il termine “stranieri”, struttura sintattica che avrebbe
infatti permesso di accomunare stranieri e apolidi in un’unica categoria di persone, ulteriormente caratterizzata, ai fini dell’individuazione dell’ambito soggettivo di applicabilità della norma, dalla condizione di essere residenti nel territorio dello Stato.
E’ dunque consentito ricorrere, secondo la scala di priorità delineata dallo stesso art. 12 preleggi, all’interpretazione cd. sistematica, che si sostanzia nel ricorso a “disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe” ed infine, se il caso rimane ancora dubbio “ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato” (art.12, comma secondo preleggi).
E’ proprio il ricorso a previsioni contenute in “materie analoghe” che, secondo questo collegio,
consente di stabilire un ambito di applicazione della norma coerente con altri istituti dell’ordinamento penale e processuale penale.
Ai fini dell’identificazione delle materie analoghe vale, infatti, in primo luogo ricordare che l’art.
730 si colloca nel Libro XI del codice di procedura penale, quello cioè dedicato ai rapporti con le
autorità giurisdizionali straniere ed in particolare alle materie dell’estradizione (Titolo II), delle
rogatorie internazionali (Titolo III) e per l’appunto degli effetti delle sentenze penali straniere
nonché dell’esecuzione all’estero di sentenze penali italiane (Titolo IV).
E’ dunque di palese evidenza che le materie analoghe a quelle delineate dal codice sono quelle
in cui l’ordinamento nazionale si coordina con altri ordinamenti per mezzo dei consueti strumenti normativi di cooperazione internazionale costituiti dai trattati, bilaterali o multilaterali e
delle convenzioni internazionali oppure si integra con detti ordinamenti nell’ambito di ‘spazi
giuridici’ particolari, come lo Spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia, quale definito dal

La questione sollevata dal ricorrente non sembra avere precedenti specifici nella giurisprudenza di questa Corte; nell’ambito di questa sezione, peraltro, con sentenza Cass. sez. 6, n.
33161 del 29/05/2012, Munafò è stato affermato incidentalmente che “è dubitabile, in linea di
diritto, che la locuzione si riferisca anche ai cittadini italiani, oltre che
agli stranieri e agli apolidi”.

Titolo V del vigente TFUE – Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea per mezzo degli
atti normativi dell’Unione europea in tema di cooperazione giudiziaria penale (convenzioni, decisioni – quadro e decisioni nel recente passato e sotto il vigore del previgente Trattato sulla
Unione Europea ed oggi solo direttive, in base all’art. 82 TFUE quale risultante a seguito del
Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, in vigore dal 10 gennaio 2009).

Rimanendo ad es. ai rapporti bilaterali Italia – USA, l’art. III del Trattato di estradizione sottoscritto a Roma il 13 ottobre 1983 ed entrato in vigore il 24 settembre 1984, riconosce la facoltà per la Parte richiesta di concedere l’estradizione anche per un reato commesso al di fuori del
territorio della Parte richiedente, alla duplice condizione che le sue leggi prevedano la punibilità
di tale reato (cd. criterio della doppia punibilità) e che l’estradando sia cittadino dello Stato
della Parte richiedente.
Il trattato in questione (non modificato sul punto dallo ‘Strumento contemplato dall’articolo
3(2) dell’Accordo di estradizione tra gli Stati Uniti d’America e l’Unione europea firmato il 25
giugno 2003, in relazione all’applicazione del Trattato di estradizione tra il Governo degli Stati
Uniti d’America e il Governo della Repubblica italiana firmato il 13 ottobre 1983, sottoscritto a
Roma il 3 maggio 2006′ e ratificato con legge n. 25 del 16 marzo 2009) rappresenta oltre tutto
già un’evoluzione dello schema dei trattati di estradizione più risalenti nel tempo, dal momento
che l’art. IV espressamente prevede che la Parte richiesta non può rifiutare l’estradizione di
una persona solo perché questa è cittadina della parte richiesta.
Risulta ad es. evidente la novità rispetto alla temporalmente antecedente Convenzione Europea di Estradizione sottoscritta a Parigi il 13 dicembre 1957 e ratificata con legge 30 gennaio
1963, n. 300, il cui art. 6, par. 1 prevede come principio generale che gli Stati contraenti mantengono la facoltà di rifiutare l’estradizione dei propri cittadini ed i cui effetti appaiono solo
limitati dall’affermazione dell’altro principio, progressivamente affermatosi nei rapporti internazionali, dell’obbligo in tal caso di procedere penalmente contro il proprio cittadino (principio
dell’aut dedere aut judicare) espressamente stabilito dallo stesso art. 6, par. 2 (“Se la parte
richiesta non proceda all’estradizione del proprio cittadino essa dovrà, su domanda della Parte
richiedente, sottoporre la questione alle autorità competenti onde consentire l’instaurazione, se
del caso, di procedimenti giudiziari”)
Su base multilaterale, si può ricordare la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità
organizzata transnazionale sottoscritta nel corso della Conferenza di Palermo del 12-15 dicembre 2000, il cui art. 15 stabilisce che per adottare le misure necessarie a determinare la propria giurisdizione in relazione ai reati oggetto della Convenzione, ogni Stato Parte fa riferimento a vari criteri, tra cui quello della commissione del reato ad opera di un proprio cittadino
nonché di un apolide che abbia la propria residenza abituale nel territorio di quello Stato (par.
2, lett. b).
Il criterio della cittadinanza funge, dunque, da elemento di caratterizzazione della natura e
della qualità dei rapporti di cooperazione tra le giurisdizioni dei singoli Stati, posto che da sempre esso rappresenta uno degli elementi che definiscono l’ambito di estensione della giurisdizione statale, delimitata com’è noto dai due limiti costituiti dal territorio (ambito spaziale, v.
artt. 3; 4, comma 2; 6 cod. pen.) e della cittadinanza (ambito personale), intesa sia come condizione soggettiva per l’applicazione extraterritoriale della legge nazionale (artt. 7 n. 4 e 9 cod.
pen.) sia come uno dei requisiti (cittadinanza della persona offesa) per la punibilità dello straniero per delitto comune commesso all’estero (art. 10, comma 1, cod. pen.).
Quando, invece, il rapporto tra gli ordinamenti statali si imposta su basi diverse e sotto il profilo dell’efficacia, anche in vista dì una migliore collaborazione tra gli stessi, il criterio della cittadinanza (nazionale) perde progressivamente, anche se non del tutto, rilevanza, in favore di altri criteri, quali la residenza e il domicilio.

Orbene, la prima considerazione che viene in rilievo è che nei rapporti internazionali su base
bilaterale o multilaterale in materia penale, il criterio della cittadinanza ha da sempre svolto e
continua a svolgere un ruolo centrale per dirimere i dubbi concernenti l’ambito di estensione
della giurisdizione delle parti contraenti; in altri termini, è ancora in base al criterio della cittadinanza che si dirime la gran parte dei potenziali conflitti di giurisdizione tra Stati sovrani.

Costituisce, come anzidetto, dato normativo espresso l’esistenza tra gli Stati membri dell’Unione Europea di un cd. spazio giudiziario comune entro il quale i provvedimenti giurisdizionali da
ciascuno di essi emanati possono circolare e spiegare la propria efficacia, in base al principio
del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie, affermato per la prima volta al Punto
37 delle Conclusioni del Consiglio Europeo di Tampere del 1999.
Il mandato d’arresto europeo rappresenta l’antesignano di simili strumenti, la relativa introduzione essendo stata deliberata dal Consiglio GAI del 30 novembre 2000, venendo successivamente istituito con Decisione Quadro 2002/584/CEE, attuata nell’ordinamento interno con
legge n. 69 del 22 aprile 2005.

E’ noto, altresì, come la legge n. 69 del 2005 abbia stabilito una regolamentazione della materia talora in contrasto con il dettato formale e con la filosofia della disciplina europea, tanto che
solo la cd. interpretazione conforme delle sue previsioni rispetto alla Decisione Quadro ha consentito l’operatività anche in Italia di tale importante strumento di cooperazione giudiziaria in
materia penale (per la giurisprudenza delle Sezioni Unite si richiama la sentenza n. 4614 del
30/01/2007, Ramoci, Rv. 235348; per quella di questa sezione, v. ex plurimis sez. 6 sent. n.
34355 del 26/09/ 2005, Ilie Petre, Rv. 232053).
La differente rilevanza che la normativa interna attribuisce al criterio della cittadinanza nazionale rispetto alla disciplina europea è, del resto, ben illustrato dalla vicenda dell’art. 18 lett. r)
legge n. 69 del 22 aprile 2005, che ha previsto quale motivo di rifiuto della consegna da parte
dell’Italia la qualità di cittadino italiano della persona richiesta, ma com’è noto tale distonia è
stata eliminata per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 227 del 24 giugno 2010,
la quale ha stabilito che possa fungere da motivo di rifiuto alla consegna della persona richiesta
la sua condizione di cittadino di un altro Paese membro dell’Unione europea che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano.
La menzione di tale vicenda vale a confermare la tendenziale perdita di rilevanza della cittadinanza (nazionale) quale criterio specificante la natura e le modalità di cooperazione tra le giurisdizioni degli Stati interessati, membri dell’Unione europea e facenti parte del cd. spazio giudiziario europeo, ma non la sua scomparsa.
Il requisito della cittadinanza nazionale riacquista, infatti, rilevanza, proprio in tema di reciproco riconoscimento delle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della
libertà personale ai fini della loro esecuzione nel territorio dell’Unione Europea.
L’art. 5 (Condizioni di emissione) par. 3 del d. Igs. 7 settembre 2010 n. 161, che ha attuato
nell’ordinamento interno la Decisione Quadro 2008/909/GAI relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento di tali sentenze, stabilisce invero che la trasmissione all’estero
(delle sentenze penali, del certificato del casellario giudiziale e della documentazione rilevante) e’ disposta: a) verso lo Stato membro dell’Unione europea di cittadinanza della persona
condannata in cui quest’ultima vive; b) verso lo Stato membro dell’Unione europea di cittadinanza della persona condannata in cui quest’ultima sarà espulsa, una volta dispensata dall’esecuzione della pena o della misura di sicurezza, a motivo di un ordine di espulsione o di allontanamento inserito nella sentenza di condanna o in una decisione giudiziaria o amministrativa o
in qualsiasi altro provvedimento adottato in seguito alla sentenza di condanna; c) verso lo Stato membro dell’Unione europea che ha acconsentito alla trasmissione (cioè che abbia espresso
il consenso a riceverla).
Il criterio della cittadinanza nazionale mantiene, invece, piena la sua valenza nel rapporto tra
ordinamenti nazionali impostati su base bilaterale o convenzionale, che si collocano cioè al di
fuori di ambiti di integrazione anche politica tra gli stessi.
Ai fini della soluzione della questione in esame, il rilievo preminente del criterio della cittadinanza nazionale impone, a giudizio di questo collegio, di dare valore assoluto al riferimento

Così ad es. l’art. 4 n. 6 della Decisione Quadro 2002/584/CEE parifica il criterio della residenza
e della dimora, peraltro riferita ai cittadini degli altri Stati dell’Unione europea, a quello della
cittadinanza dello Stato richiesto, ai fini della rilevanza come motivo, solo facoltativo, di rifiuto
alla consegna.

normativo che l’art. 730 cod. proc. pen. fa di tale condizione soggettiva, nel senso di risultare
applicabile a tutti i cittadini italiani, a prescindere dal luogo della loro residenza o dalla circostanza della loro sottoposizione a procedimento penale in Italia.
Né è dato rinvenire nella norma o individuare quale argomento di interpretazione sistematica
della medesima quello, propugnato dal ricorrente, della concreta utilità processuale dell’espletanda procedura giurisdizionale, rappresentando infatti l’art. 730 cod. proc. pen. uno degli istituti presenti nell’ordinamento volti a delimitare l’ambito soggettivo di estensione della giurisdizione penale dello Stato.
3. Al rigetto del ricorso segue, come per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle
spese processuali.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Roma, 06/12/201

P. Q. M.

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