Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 50598 del 28/11/2013


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 50598 Anno 2013
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: ANDREAZZA GASTONE

SENTENZA

sul ricorso proposto da : Quarta Fernando, n. a Leverano il 29/01/1952;

avverso la sentenza della Corte di Appello di Lecce in data 26/10/2012;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Gastone Andreazza;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
generale A. Policastro, che liaxoncluso per l’inammissibilità del ricorso;
udite le conclusioni dell’AvvY , che si è riportato ai motivi e, in subordine, ha
chiesto l’annullamento senza rinvio della sentenza per intervenuta prescrizione;

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 26/10/2012 la Corte d’Appello di Lecce ha confermato la
sentenza di condanna di Quarta Fernando alla pena di mesi due di arresto ed
euro 8.000,00 di ammenda per il reato di cui all’art. 44, lett. b), del d.P.R. n.
380 del 2001 in relazione alla realizzazione di un locale della superficie di mq.
56,00 circa in assenza di permesso di costruire.

Data Udienza: 28/11/2013

2. Ha proposto ricorso l’imputato.
Con un primo motivo lamenta la contraddittorietà e manifesta illogicità della
motivazione quanto alla attribuzione al medesimo, unicamente proprietario del
terreno ma non committente, della responsabilità dei lavori. Nonostante
l’affermazione della sentenza circa la raggiunta acquisizione di elementi indicativi
della responsabilità, evidenzia che l’unico teste esaminato, ovvero il vigile
Pompilio,

autore

dell’accertamento

avvenuto

peraltro

non

nell’immediatezza dei fatti ma a distanza di tempo, ed autore anche
dell’avvenuta vendita del terreno, ha dichiarato di avere assunto notizie solo
sulla proprietà dell’immobile e non anche sulla committenza. In realtà la
sentenza ha fondato la condanna unicamente sulla comproprietà del terreno,
acquistato con la moglie prima che venisse edificato alcun manufatto, e sul
conseguente interesse dello stesso all’edificazione poi posta in essere a fronte
della non ipotizzabile iniziativa a cura della sola moglie. Ma tale conclusione
confligge con il principio giurisprudenziale secondo cui la sola posizione
dominicale non è sufficiente ad un’affermazione di responsabilità penale. Confuta
poi l’assunto secondo cui l’imputato si sarebbe qualificato nel ricorso avverso
l’ordinanza di sospensione dei lavori come esecutore dei lavori abusivi, essendo
in realtà tale qualifica stata ripresa dall’ordinanza di demolizione impugnata.
Con un secondo motivo lamenta che il verbale di sequestro, pur annullato dal
Tribunale del riesame, sia stato utilizzato per fondare la responsabilità
dell’imputato. Lamenta inoltre che sia stata confermata la legittimità
dell’ordinanza di demolizione emessa con la sentenza pur essendo stata
l’ordinanza in sede amministrativa annullata dal T.a.r. di Lecce e, dunque,
essendovi incompatibilità tra le due statuizioni.
Con un terzo motivo lamenta la violazione di legge e la mancanza di motivazione
in ordine alla ritenuta inammissibilità del motivo d’appello relativo al trattamento
sanzionatorio censurando anche, sul punto, il mero richiamo da parte della Corte
ai parametri dell’art. 133 c.p. e alla congruità rispetto alla gravità del fatto.
Invoca inoltre la prescrizione del reato nel frattempo maturata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Va ricordato che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la
responsabilità del proprietario o comproprietario, non formalmente committente
delle opere abusive, può dedursi da indizi quali la piena disponibilità della
superficie edificata, l’interesse alla trasformazione del territorio, i rapporti di
2

Sabetta

parentela o affinità con l’esecutore del manufatto, la presenza e la vigilanza
durante lo svolgimento dei lavori, il deposito di provvedimenti abilitativi anche in
sanatoria, la fruizione dell’immobile secondo le norme civilistiche sull’accessione
nonché tutti quei comportamenti (positivi o negativi) da cui possano trarsi
elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione anche morale
alla realizzazione del fabbricato (da ultimo, tra le altre, Sez.3, n. 25669 del

Successivamente, si è addirittura affermato che ai fini del disconoscimento del
concorso del proprietario del terreno non committente dei lavori nel reato
previsto dall’art. 44 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, è necessario escludere
l’interesse o il suo consenso alla commissione dell’abuso edilizio ovvero
dimostrare che egli non sia stato nelle condizioni di impedirne l’esecuzione (Sez.
3, n. 33540 del 19/06/2012, P.M. in proc. Grilli ed altri, Rv. 253169).
Nella specie, escluso che una tale ultima dimostrazione risulti essere stata data
in sede di giudizio di merito, la sentenza impugnata ha fatto corretta
applicazione dei principi suddetti ove, una volta premessa la veste di
proprietario, unitamente alla moglie, del terreno agricolo in questione, ha posto
in rilievo il significativo, e addirittura dirimente, dato della autoqualifica, nel
ricorso presentato al T.a.r. avverso l’ordinanza di demolizione del manufatto, di
esecutore della costruzione dello stesso e sul cui significato il ricorrente dà, in
definitiva, una sua interpretazione che, quand’anche plausibile (la qualifica
sarebbe, in realtà, secondo il ricorso, la mera “trasposizione” del dato come
riportato nella stessa ordinanza – ingiunzione impugnata) non è tuttavia idonea
ad oltrepassare la soglia del vizio di legittimità quale confine della cognizione di
questa Corte. Tale elemento ha corroborato dunque, in maniera logica,
nell’impostazione motivata della Corte, l’attribuzione al ricorrente della paternità
dei lavori, peraltro fondante, evidentemente, come già posto in risalto dai giudici
di merito, l’interesse del ricorrente ad opporsi alla demolizione in sede
amministrativa.

4. Quanto al secondo motivo, premesso che la doglianza relativa alla pretesa

utilizzazione del verbale di sequestro appare connotata da genericità posto che il
ricorrente non appare contestare espressamente la natura ed abusività delle
opere come accertate in sentenza, va osservato che, con riguardo alla ulteriore
censura volta a sostenere una incompatibilità tra l’ordinanza di demolizione
contenuta in sentenza e l’ordinanza del T.a.r. di annullamento dell’ordinanza
adottata invece in sede amministrativa, lo stesso è manifestamente infondato.

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30/05/2012, Zeno ed altro, Rv. 253065).

Questa Corte ha più volte affermato che l’obbligo di revocare l’ordine
di demolizione del manufatto abusivo impartito con la sentenza di condanna o di
patteggiamento sussiste ove sopravvengano atti amministrativi con esso del
tutto incompatibili (tra le altre, Sez. 3, n. 3456 del 21/11/2012, Oliva, Rv.
254426; Sez. 3, n. 25212 del 18/01/2012, Maffia, Rv. 253050; Sez. 3, n. 24273
del 24/03/2010, P.G. in proc. Petrone, Rv. 247791). Ne deriva che l’intervenuto
annullamento della ordinanza di demolizione da parte del Tar non si pone, di per

tenore contenuta in sentenza, spettando al giudice valutare, in concreto, se le
ragioni che hanno condotto all’annullamento del provvedimento in sede
giurisdizionale amministrativa siano tali da coinvolgere anche il provvedimento
emesso dal giudice penale. Nella specie, la Corte d’Appello ha correttamente e
logicamente escluso che il motivo di annullamento della ordinanza, ricollegato
non già alla non abusività dell’opera posta in essere bensì, su un piano
meramente formale, all’omessa indicazione dell’area da acquisire al patrimonio
comunale, potesse riverberarsi sulla ordinanza adottata in sede penale.

5. Con riguardo infine al terzo motivo, la Corte territoriale ha motivato la
ritenuta inammissibilità della doglianza sollevata in ordine alla determinazione
della pena sottolineando la genericità della stessa, sfornita di alcuna indicazione
circa le ragioni di diritto e di fatto invocate; ha inoltre motivato il quantum di
pena inflitto, individuato peraltro in mesi due di arresto ed euro 8.000,00 di
ammenda a fronte di una sanzione, prevista, nel massimo, sino a due anni di
arresto ed euro 51.645,00 di ammenda, e con prossimità, dunque, al minimo
della pena irrogata, sul legittimo presupposto della gravità del fatto; in tal modo
ha fatto corretta applicazione dei principi più volte ribaditi da questa Corte
secondo cui la determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale
rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in
cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, e
ciò anche laddove il giudicante si fosse limitato a richiamare criteri di
adeguatezza, di equità e simili, in questi essendo impliciti gli elementi di cui
all’art. 133 c. p. (da ultimo, Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv.
256197). Il motivo è, pertanto, manifestamente infondato.

6. Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile. L’inammissibilità del ricorso per
motivi originari in conseguenza della sua manifesta infondatezza preclude il
rilievo delle cause di non punibilità, ivi compresa l’estinzione del reato per
prescrizione, maturate successivamente alla pronuncia della sentenza
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sé, necessariamente, in situazione di incompatibilità con la statuizione di analogo

impugnata, essendo, come già enunciato da questa Corte a Sezioni Unite, detto
ricorso inidoneo ad instaurare validamente il rapporto di impugnazione (per
tutte, Sez. U., n. 32 del 22/11/2000, De Luca). Ne segue la condanna del
ricorrente al pagamento delle processuali e, non essendovi ragione di ritenere
che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione
della causa di inammissibilità”, quella al versamento della somma, determinata

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa
delle ammende.
Così deciso in Roma, il 28 novembre 2013
Il Consi

t.

Presidente

in euro 1.000,00, in favore della Cassa delle Ammende.

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