Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 50585 del 07/11/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 50585 Anno 2013
Presidente: LOMBARDI ALFREDO MARIA
Relatore: SETTEMBRE ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
ROMANO VINCENZO N. IL 07/07/1983
avverso la sentenza n. 3062/2011 CORTE APPELLO di BARI, del
08/05/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 07/11/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ANTONIO SETTEMBRE
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per

Udito, per la parte civile, l’Avv
Uditi difensor Avv.

Data Udienza: 07/11/2013

- Udito il Procuratore generale della repubblica presso la Corte di Cassazione, dr.
Eduardo Scardaccione, che ha chiesto l’annullamento senza rinvio della sentenza
impugnata per essere il reato estinto per prescrizione.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte d’appello di Bari, con sentenza dell’8-5-2012, in parziale riforma di

giustizia per aver declinato false generalità ai carabinieri durante un’ordinaria
attività di controllo (art. 495 cod. pen.).

2.

Contro la sentenza suddetta ha proposto personalmente ricorso per

Cassazione l’imputato, lamentando la violazione dell’art. 533 cod. proc. pen., per
essere stata affermata la sua responsabilità senza la prova “oltre il ragionevole
dubbio”; dell’art. 192 cod. proc. pen., per carenza di prova in ordine all’elemento
oggettivo e soggettivo; dell’art. 132 cod. pen., per essere stata applicata la pena
senza adeguata motivazione. Lamenta, poi, la contraddittorietà e l’illogicità della
motivazione resa in punto di responsabilità, non essendo stati esaminati i testi
che procedettero al controllo su strada.
Deduce, infine, l’avvenuta prescrizione del reato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è inammissibile perché solleva doglianze manifestamente
infondate.
La responsabilità dell’imputato è stata affermata perché lo stesso,
sottoposto a controllo dai carabinieri della Compagnia di intervento operativo di
Bari, dichiarò di chiamarsi Di Fonte Luigi ed esibì un documento di identità, su
cui era apposta una sua foto. Accompagnato (o “invitato”, come sostiene il
ricorrente) presso la caserma di Bari-San Paolo, il Romano fu però riconosciuto
dal mar. D’Onofrio, presente in loco, che aveva avuto a che fare con lui, in
precedenza. Infatti, interpellato il sistema informativo e confrontata la foto
apposta sul documento con quella presente negli archivi segnaletici, fu subito
chiara la vera identità del soggetto.
In questa ricostruzione della vicenda non sono presenti nessuno dei vizi
lamentati: né violazione dell’art. 495 cod. pen., né violazione delle regole di
valutazione probatoria, né illogicità di motivazione, giacché la responsabilità
dell’imputato può ben essere affermata sulle base delle dichiarazioni di un unico
operatore di polizia, che verificò la discordanza tra la (vera) identità
2

quella emessa dal locale Tribunale, ha condannato Romano Vincenzo a pena di

4
dell’imputato e quella dichiarata ai carabinieri che effettuarono il controllo
personale (e riportata sul cartellino segnaletico). E’ invece il ricorrente che,
contro ogni evidenza e in maniera persino arbitraria, mette in discussione il
contenuto della testimonianza dell’ufficiale di P.G. e si duole del fatto che non
sono stati ascoltati i carabinieri che eseguirono il controllo (peraltro, non
specifica nemmeno se l’escussione di questi ultimi fu da lui richiesta, ex art. 495
cod. proc. penale, ovvero ex art. 603 cod. proc. penale. In ogni caso, non ne fa
motivo specifico di ricorso in Cassazione).

alla “gravità” del fatto e alla “personalità dell’imputato”, desunta dai suoi
precedenti penali. Vale a dire, a parametri che, per legge, devono guidare il
giudice nella determinazione del trattamento sanzionatorio. Né il ricorrente
segnala circostanze a lui favorevoli, appellandosi a censure generiche e
immotivate.
Deve inoltre rilevarsi che la sentenza impugnata è stata pronunciata (‘8-52012 e che a tale data non era ancora maturato il termine massimo di
prescrizione di anni sette e mesi sei, ai sensi del combinato disposto degli artt.
157 e 160 c.p. per quel che attiene ai delitti puniti con pena edittale massima
inferiore a sei anni di reclusione. Trova quindi applicazione il principio affermato
da questa Corte (Sezioni Unite, sent. n. 32 del 2000, De Luca), secondo cui
l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza
dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e
preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità
a norma dell’art. 129 c.p.p.
Consegue alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria in
favore della Cassa delle Ammende che, in ragione dei motivi di ricorso, si stima
equo quantificare nella misura di Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 1.000 a favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 7/11/2013

Inammissibili sono anche le doglianze sulla pena, che è stata commisurata

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