Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5028 del 17/01/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 5028 Anno 2014
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: SERRAO EUGENIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
USAI AMEDEO N. IL 21/05/1957
avverso la sentenza n. 5765/2008 CORTE APPELLO di ROMA, del
08/03/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 17/01/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. EUGENIA SERRAO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. VITO
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che ha concluso per
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Uditi difensor Avv.q7A S 91“’4-1-67

Data Udienza: 17/01/2014

RITENUTO IN FATTO
1. In data 8/03/2013 la Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della
sentenza emessa dal Tribunale di Roma in data 12/02/2008, ha dichiarato non
doversi procedere nei confronti di Usai Amedeo per essere il reato estinto per
prescrizione, confermando le statuizioni civili pronunciate dal giudice di primo
grado in relazione all’imputazione di cui agli artt.590 e 583 cod. pen. perché,
nella sua qualità di chirurgo che ebbe ad eseguire presso la Casa di cura Santa
Maria di Leuca in data 10/05/2004 un intervento di chirurgia plastica,

liposuzione ai fianchi e agli arti inferiori” sulla paziente Rita Vitali, cagionava alla
stessa lesioni personali consistenti nel prolungamento della malattia (infezione
post chirurgica delle protesi mammarie) per un periodo superiore a 40 giorni, per
colpa consistita in imperizia e negligenza e in particolare perché nella gestione
dell’infezione post chirurgica delle protesi mammarie ometteva di disporre
accertamenti specialistici e ritardava la rimozione delle protesi, così provocando
la comparsa di necrosi tessutale ed infezione diffusa. In Roma fino al mese di
agosto 2004.
2. Secondo la ricostruzione operata nel grado di merito, in data 10/05/2004
Amedeo Usai, chirurgo plastico, aveva effettuato su Rita Vitali le operazioni di
chirurgia estetica di cui all’imputazione; successivamente erano insorte
complicanze che avevano riguardato la plastica additiva al seno. L’imputato
aveva fatto analizzare il liquido che fuoriusciva dalle ferite praticate per
l’inserimento delle protesi e il dott. Massi, che aveva effettuato l’analisi, non
aveva rilevato sul campione cellule tumorali né colonie batteriche; non essendo
insorta febbre, il chirurgo non aveva ritenuto, in un primo momento, di
rimuovere le protesi inserite sino al 14 agosto quando, preso atto, anche in virtù
della insorgenza di febbre della paziente, della sussistenza di un’infezione, aveva
ritenuto di procedere alla rimozione delle protesi ed alla somministrazione di
antibiotici. Dalla consulenza tecnica espletata dal pubblico ministero era emerso
che il pericolo di infezione è previsto quale conseguenza possibile dell’intervento
di mastoplastica additiva e che, nel caso di specie, nonostante la presenza di
elementi indicatori quali fuoriuscita di pus, gonfiore e febbre, il chirurgo aveva
omesso la necessaria diligenza nella gestione della complicanza, omettendo di
adottare le cautele del caso: in particolare, non aveva prescritto alla paziente
terapia antibiotica, né provveduto alla rimozione delle protesi, per cui il protrarsi
dell’infezione aveva ritardato i tempi di guarigione e causato la distruzione del
tessuto mammario.

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consistente in una “mastoplastica additiva bilaterale, addominoplastica e

3. Sulla scorta di tale ricostruzione, il giudice di prime cure aveva ritenuto la
sussistenza nel comportamento dell’imputato di elementi di colpa ritenendolo
responsabile del reato contestatogli.
4. Con l’atto di appello, la difesa aveva chiesto: a) l’assoluzione sul rilievo
che alcun addebito per negligenza potesse essere mosso all’imputato il quale,
non appena avuta notizia il 13 agosto dell’infezione in atto, era tempestivamente
intervenuto il 14 successivo, rimuovendo le protesi e somministrando idonea
terapia antibiotica; il chirurgo si era peraltro attenuto alla certificazione redatta
dal dott. Massi, che aveva effettuato gli esami sul liquido che fuoriusciva dalle

ferite e aveva attestato l’assenza di qualsiasi infezione. La stessa parte lesa
aveva affermato a pag.7 della querela che il chirurgo le aveva prescritto prima
dell’accertamento dell’infezione una terapia antibiotica, confermando tale
circostanza in dibattimento; b) la declaratoria di nullità della sentenza per difetto
di corrispondenza tra la contestazione e la pronuncia di condanna; c) aveva
contestato che vi fosse in atti la prova che la durata della malattia fosse durata
oltre 40 giorni; d) la riapertura dell’istruttoria dibattimentale al fine di espletare
una perizia; e) la sospensione della condanna al pagamento della provvisionale
disposta dal primo giudice e, con ultimo motivo, l’estromissione della parte civile
ai sensi dell’art.75 cod.proc.pen., avendo il giudice civile pronunciato sentenza in
ordine alla vertenza in argomento.
5. La Corte di Appello di Roma disponeva perizia medico-legale anche sul
punto specifico della durata della malattia e, rilevata l’intervenuta estinzione del
reato per decorso del termine di prescrizione, procedeva a verificare se
esistessero le condizioni per una pronuncia assolutoria in ragione della presenza
della parte civile. Osservava la Corte territoriale che l’istanza di estromissione
della parte civile non potesse trovare accoglimento in quanto la parte lesa aveva
proposto atto di citazione dinanzi al giudice civile in data 14/06/2005 e si era
costituita parte civile nel processo penale in data 31/05/2006, antecedente la
pronuncia in sede civile della sentenza di merito in primo grado. Nel merito, la
Corte osservava che il perito aveva concluso in conformità con la consulenza
tecnica del pubblico ministero, evidenziando che la paziente, dimessa il
12/05/2004, dopo una settimana presentava una secrezione siero-corpuscolata
dalla ferita della mammella sinistra in assenza di febbre; erano state eseguite
numerose medicazioni ambulatoriali ma la secrezione era continuata fino a
quando si era verificata una deiscenza della ferita con esposizione della protesi;
il 13/07/2004 il liquido di secrezione era stato esaminato dal Prof. Massi ed era
stata eseguita una revisione della ferita con pulizia dello scavo protesico in
ambulatorio; la secrezione a livello della mammella sinistra era continuata e la
paziente era stata ripetutamente medicata fino a quando, il 13/08/2004, la
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gi

paziente aveva avvertito un forte dolore e gonfiore a livello della mammella
destra, associati a febbre alta, per cui il 14/08/2004 era stata sottoposta ad
intervento di rimozione delle protesi. La sutura era stata rimossa il 2/09/2004.
La Corte richiamava le conclusioni del perito, che aveva evidenziato che la
paziente era stata in cura a causa delle complicanze dal 18/05/2004 fino al
2/09/2004; che la possibilità di una complicanza settica negli interventi di
mastoplastica additiva protesica avviene con una percentuale dell’i o 2%; che il
trattamento dell’infezione di una protesi consiste sempre nella rimozione della

l’esposizione della protesi impone comunque la sua immediata rimozione in
quanto, per definizione, una ferita aperta è una ferita contaminata e non è
possibile riuscire a salvare una protesi esposta; che la terapia antibiotica, pur
essendo efficace nel ridurre la diffusione dell’infezione al resto dell’organismo,
non è in grado da sola di determinare il salvataggio della protesi. Il perito aveva
segnalato anche che le protesi inserite appartenevano ad una categoria di protesi
recentemente balzate all’onore delle cronache in quanto prodotte in maniera non
conforme e dotate di certificazioni CE false, che avevano provocato un forte
allarme nell’opinione pubblica e avevano portato, in Francia, alla condanna del
produttore, non potendosi escludere che i problemi insorti nel caso in esame
fossero da attribuire a tali protesi. Riteneva, tuttavia, che in ogni caso l’imputato
avrebbe dovuto, quanto meno a luglio, procedere alla rimozione delle protesi
perché la protesi di sinistra era esposta e quindi da considerarsi contaminata,
indipendentemente dal referto di laboratorio. Precisava che, nel momento in cui
la ferita si era aperta con esposizione della protesi, il medico aveva eseguito una
revisione della ferita nonchè un esame del liquido che fuoriusciva dalla stessa di
tipo morfologico microscopico e non colturale, optando in assenza di febbre per
continuare le medicazioni e commettendo un errore tecnico in quanto è noto che
in caso di esposizione di materiale protesico di qualsiasi tipo (protesi estetiche,
vascolari, ortopediche ecc.) esso deve considerarsi contaminato e pertanto va
rimosso. L’assenza di febbre era dovuta al fatto che, essendosi verificata
un’apertura della ferita, la secrezione veniva eliminata all’esterno e l’utilizzo o
meno degli antibiotici in tali ipotesi è ininfluente ai fini del salvataggio delle
protesi; la causa dell’infezione era verosimilmente da ascriversi al tipo di protesi
impiantate, ma tale fatto era divenuto noto solo di recente. Il perito concludeva
indicando l’errore del chirurgo nel non aver rimosso le protesi appena verificatasi
l’esposizione di quella di sinistra, cioè nel luglio 2004, attendendo ed eseguendo
medicazioni inefficaci; indicava la malattia residua a seguito di tale
comportamento in giorni 103 dal 18/05/2004 al 2/09/2004, chiarendo che i
postumi consistenti nelle cicatrici sottomammarie erano compatibili con gli
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protesi stessa e che, anche in assenza di sintomatologia da infezione,

interventi eseguiti e non determinavano un peggioramento della condizione
antecedente l’intervento.
6. Su tali basi la Corte di Appello confermava la pronuncia del Tribunale, che
aveva condannato l’imputato al risarcimento dei danni nei confronti della
costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché al pagamento di
una provvisionale immediatamente esecutiva pari ad euro 15.000,00.
7. Ricorre per cassazione Amedeo Usai sulla base dei seguenti motivi:
a) mancanza e manifesta illogicità interna ed esterna della motivazione in

Corte di Appello, si assume, non avrebbe potuto non prendere in considerazione
il fatto che la parte civile aveva dichiarato, in sede civile, di avere esercitato
l’azione anche in sede penale soltanto dopo che il giudice civile di primo grado
aveva, senza incertezze, statuito che il chirurgo non aveva alcuna colpa e dopo
che avverso questa sentenza la parte civile aveva proposto appello in sede civile.
L’art.75 cod.proc.pen., secondo il ricorrente, non lascia alla parte la facoltà di
decidere perché pone una vera e propria preclusione, per cui la Vitali, una volta
intervenuta la sentenza del giudice civile che le dava torto, non avrebbe potuto
continuare a stare nel processo penale perché avrebbe dovuto effettuare tale
scelta prima che il giudice civile le desse torto. Nè rilevava il fatto che la Corte di
Appello civile avesse dichiarato estinto il giudizio sulla base della rinuncia
espressa della Vitali al giudizio civile, essendo tale dichiarazione di estinzione
derivata dalla rinuncia della parte piuttosto che dalla sua decisione di stare nel
processo penale;
b) errata interpretazione dell’art.3 della 1.8 novembre 2012, n.189. Secondo
il ricorrente, il perito nominato dalla Corte non ha fatto alcun riferimento a
protocolli né a procedure standardizzate, nè ha indicato la dottrina alla quale si è
ispirato per affermare che, anche in assenza di sintomatologia da infezione,
l’esposizione della protesi impone, comunque, la sua immediata rimozione. Il
consulente nominato in sede civile aveva, invece, affermato che “l’infezione
rappresenta una seria complicanza della mastoplastica additiva. Decholnoky
(1970) riferisce una percentuale di casi attorno al 2,5%. Courtiss, Goldwin e
Anastasi (1979) osservano l’insorgenza dell’infezione, nella mastoplastica
additiva, in 20 pazienti operate su 899 (2,2%) o 24 casi su 1760 impianti
(1,4%)… Di solito l’infezione può comparire ovunque in un tempo compreso tra i
sei giorni e le sei settimane che seguono l’intervento… Secondo la casistica
Decholnoky 1’1,7% delle infezioni è insorto durante l’immediato periodo post
operatorio e lo 0,8% dei casi a distanza di tempo dall’intervento chirurgico.
Quando si verifica un’infezione, il normale

iter terapeutico prevede un

trattamento di tipo conservativo con la somministrazione di antibiotici ad alto
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relazione alla richiesta estromissione della parte civile dal giudizio di appello. La

dosaggio e la cura locale dei problemi relativi alla ferita. Se l’infezione
progredisce bisogna togliere le protesi”;
c) manifesta illogicità interna ed esterna della motivazione. Il ricorrente
sostiene che la sentenza impugnata ha fatto propria la perizia disposta in
appello, in cui si osservava che l’infezione si può verificare normalmente in una
percentuale dell’i% o 2% dei casi, che, nel caso di specie, era molto probabile
che l’infezione fosse da attribuire alle protesi che si era scoperto soltanto di
recente, nel 2010, essere state costruite in violazione delle più fondamentali

né prevedere né prevenire ed evitare l’infezione causata dalle protesi.
Ciononostante, osserva il ricorrente, la Corte nulla ha osservato in relazione alla
causalità o in ordine alla non rimproverabilità soggettiva, tanto più che la Corte
di Appello civile aveva osservato che un’infezione a seguito di mastoplastica
additiva costituisce un evento prevedibile ma non prevenibile e che

l’iter

terapeutico, in caso di complicanza infettiva, prevede un trattamento a base di
antibiotici e la pulizia locale della ferita, non potendosi imputare al chirurgo
l’inadempimento in relazione al risultato voluto dall’attrice, la quale era stata
prima dell’intervento posta a conoscenza delle possibili complicanze e soprattutto
dei rischi connessi all’impianto di protesi mammarie;
d) violazione dell’art.521 cod.proc.pen. in quanto il fatto descritto nel capo
d’imputazione non fa alcun riferimento ad una “protesi esposta” ma considera
tardiva la rimozione ricollegandola all’aver omesso l’Usai di disporre accertamenti
specifici, ossia quegli accertamenti che, è stato dimostrato, erano stati eseguiti
tempestivamente;
e) manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione nella parte in cui
ravvisa una malattia di 103 giorni laddove la colpa viene indicata come
consistente in un colpevole ritardo dovuto al fatto che le protesi avrebbero
dovuto essere rimosse il 13/07/2004 invece sono state rimosse il 13/08/2004;
f) omessa motivazione sulla provvisionale, nonostante con i motivi di appello
fosse stato puntualmente evidenziato che il giudice di primo grado l’aveva
determinata senza che la parte civile avesse fornito alcuna prova sul quantum
del danno sofferto.
8. Il difensore del ricorrente ha depositato, in data 31/12/2013, memoria
difensiva nella quale ha aggiunto che, quando è iniziato il processo penale di
appello, nel giudizio civile era stata già pronunciata sentenza di primo grado,
dovendosi interpretare la formula di cui all’art.75 cod.proc.pen. come
comprensiva anche della non proseguibilità del giudizio penale; che le
argomentazioni svolte dal perito erano del tutto personali e non prendevano in
esame né le linee-guida né i protocolli, nonostante le chiare indicazioni
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regole di sicurezza, e che il chirurgo, quando aveva fatto l’intervento, non poteva

provenienti dalla miglior scienza ed esperienza citata dai consulenti incaricati dal
giudice civile.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile in quanto manifestamente
infondato.
1.1. La sentenza impugnata ha correttamente interpretato e applicato al
caso concreto la previsione di cui all’art.75 cod.proc.pen., che autorizza il
trasferimento nel processo penale dell’azione civile fino a quando in sede civile

come, la persona offesa, pur avendo proposto azione dinanzi al tribunale civile
con atto di citazione del 14/06/2005, si fosse poi costituita parte civile nel
processo penale in data 31/05/2006, prima della pronuncia della sentenza di
primo grado in sede civile, avvenuta in data 5/02/2008.
1.2. Il ricorrente propone una diversa interpretazione della norma che non
può considerarsi corretta, ritenendo che l’art.75 cod.proc.pen. imponga
l’estromissione della parte civile dal processo penale una volta che sia
intervenuta la sentenza di primo grado in sede civile, in contrasto con il testo
della norma e con l’interpretazione che della stessa è stata costantemente fornita
da questa Corte, secondo la quale la revoca della costituzione di parte civile nel
processo penale può desumersi per facta condudentia per effetto dell’esercizio
dell’azione civile nella competente sede civile, ossia nel caso in cui l’azione
davanti al giudice civile venga iniziata in data successiva alla costituzione di
parte civile nel processo penale, a norma dell’art. 82, comma 2, cod.proc.pen.
Qualora, invece, come nel caso concreto, si sia verificato il trasferimento nel
processo penale dell’azione civile in precedenza intrapresa dinanzi al giudice
civile, a norma dell’art.75 cod.proc.pen. il giudice civile è tenuto a dichiarare
l’estinzione del processo per rinuncia agli atti del giudizio, come effettivamente
avvenuto nel caso di specie. La sentenza impugnata ha espressamente motivato
sul punto facendo buon governo dei principi di cui sopra.
2. Occorre, a questo punto, esaminare con precedenza il quarto motivo di
ricorso, in quanto logicamente antecedente. Si tratta di censura infondata.
2.1. E’ dedotta la violazione dell’art.521 cod.proc.pen., che disciplina la
correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza. Secondo tale norma il
giudice, pur potendo dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella
enunciata nell’imputazione, è tenuto a disporre con ordinanza la trasmissione
degli atti al pubblico ministero se accerti che il fatto è diverso da come descritto
nell’imputazione.
2.2. Secondo il ricorrente, tale norma sarebbe stata violata in quanto il fatto
descritto nel capo d’imputazione non faceva alcun riferimento ad una “protesi
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non sia stata pronunciata la sentenza di merito di primo grado, evidenziando

esposta”, contestandosi al chirurgo la tardiva rimozione della protesi in quanto lo
stesso avrebbe omesso di disporre accertamenti specifici.
2.3. Ma, come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez.U, n.36551
del 15/07/2010, Carrelli, Rv.248051) per aversi mutamento del fatto occorre una
trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta
nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si
configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale
pregiudizio dei diritti di difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la

può esaurirsi nel mero confronto puramente letterale fra contestazione e
sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del
tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, si sia venuto
a trovare nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto
dell’imputazione.
2.4. Ad ulteriore specificazione è stato affermato che, a fondamento del
principio di correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza sta l’esigenza
di assicurare all’imputato la piena possibilità di difendersi in rapporto a tutte le
circostanze rilevanti del fatto che è oggetto dell’imputazione. Ne discende che il
principio in parola non è violato ogni qualvolta siffatta possibilità non risulti
sminuita. Pertanto, nei limiti di questa garanzia, quando nessun elemento che
compone l’accusa sia sfuggito alla difesa dell’imputato, non si può parlare di
mutamento del fatto e il giudice è libero di dare al fatto la qualificazione giuridica
che ritenga più appropriata alle norme di diritto sostanziale. In altri termini,
quindi, siffatta violazione non ricorre quando nella contestazione, considerata
nella sua interezza, siano contenuti gli stessi elementi del fatto costitutivo del
reato ritenuto in sentenza (Sez.5, n.2074 del 25/11/2008, dep.20/01/2009,
Fioravanti, Rv.242351; Sez.4, n.10103 del 15/01/2007, Granata, Rv.236099;
Sez.6, n.34051 del 20/02/2003, Ciobanu Rv.226796; Sez.5, n.7581 del
5/05/1999, Graci, Rv.213776; Sez.6, n.9213 del 26/09/1996, Martina,
Rv.206208; Sez.6, n.7955 del 21/04/1995, P.M. in proc. Innocenti, Rv.202572;
Sez.1, n.2421 del 26/01/1995, Di Raimondo, Rv. 200474; Sez.2, n.5907
dell’11/04/1994, De Vecchi, Rv.197831). Sussiste, invece, violazione del
principio di correlazione della sentenza all’accusa formulata quando il fatto
ritenuto in sentenza si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di
eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una
vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali
dell’addebito nei confronti dell’imputato, posto, così, di fronte – senza avere
avuto alcuna possibilità di difesa – ad un fatto del tutto nuovo (Sez.3, n.9916 del
12/11/2009, dep.11/03/2010, Scarfò, Rv.246226; Sez.3, n.818 del 6/12/2005,
8

violazione del principio di correlazione tra imputazione contestata e sentenza non

dep.12/01/2006, Pavanel, Rv.233257; Sez.6, n.21094 del 25/02/2004, Faraci,
Rv.229021; Sez.3, n.3471 del 9/02/2000, Pelosi, Rv.216454; Sez.4, n.9523 del
18/09/1997, Grillo, Rv.208784; Sez.6, n.10362 del 30/09/1997, Poggi,
Rv.208872).
2.5. Il fatto, di cui agli artt. 521 e 522 cod.proc.pen., va poi definito come
l’accadimento di ordine naturale dalle cui connotazioni e circostanze soggettive
ed oggettive, geografiche e temporali, poste in correlazione tra loro, vengono
tratti gli elementi caratterizzanti la sua qualificazione giuridica. Per fatto diverso

episodio della vita umana, cioè la fattispecie concreta e non la fattispecie
astratta, lo schema legale nel quale collocare quell’episodio della vita umana
(Sez.1, n.28877 del 4/06/2013, Colletti, Rv.256785; Sez.U, n.16 del
19/06/1996, dep.22/10/1996, Di Francesco, Rv.205619). La violazione del
suddetto principio postula, quindi, una modificazione – nei suoi elementi
essenziali – del fatto, inteso appunto come episodio della vita umana,
originariamente contestato. Si ha, perciò, mancata correlazione tra fatto
contestato e sentenza quando vi sia stata un’immutazione tale da determinare
uno stravolgimento dell’imputazione originaria (Sez. U., n. 36551 del
15/07/2010, Carelli, Rv.248051).
2.6. In applicazione di tale principio interpretativo, è stata esclusa la
violazione della norma in esame nel caso in cui sia stata contestata la condotta
di cessione della sostanza stupefacente e l’imputato è stato condannato per la
condotta di offerta in vendita di sostanza stupefacente (Sez.6, n.6346 del
9/11/2012, dep. 8/02/2013, Domizi, RV. 254888), ovvero nel caso in cui sia
stato inizialmente contestato un delitto in forma consumata e nella sentenza
l’imputato è stato condannato per il tentativo (Sez.6, n.29533 del 2/07/2013,
Tomasso, Rv.256150), ovvero nel caso in cui l’imputazione riguardi un’ipotesi di
concorso di persone nel reato e la sentenza di condanna è stata emessa nei
confronti di un solo imputato (Sez.5, n.7581 del 5/05/1999, Graci, Rv.213776),
ovvero nel caso in cui l’imputazione riguardi l’ipotesi di diffamazione e sia stata
emessa condanna per il reato, di natura colposa, di omesso controllo sul
contenuto di un periodico (Sez.5, n.46203 del 9/11/2004, Mauro, Rv.231169)
ovvero, ancora, nel caso in cui alla contestazione del reato di lesioni personali
volontarie sia seguita la condanna per quello di lesioni colpose (Sez.4, n.41663
del 25/10/2005, Cannizzo, Rv.232423), mentre è stata ritenuta sussistente la
violazione della norma nel caso in cui il fatto ritenuto nella sentenza si trovi in
rapporto di incompatibilità ed eterogeneità rispetto a quello contestato con un
vero e proprio stravolgimento dei termini dell’accusa (Sez.1, n.28877 del
4/06/2013, Colletti, Rv.256785, in un’ipotesi in cui era stato ritenuto in sentenza
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deve, perciò, intendersi un dato empirico, fenomenico, un accadimento, un

accertato un incontro tra l’imputato ed un pregiudicato, da cui inferire l’abitualità
della condotta, che non risultava menzionato nel capo d’imputazione), ovvero sia
stata contestata l’associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze
stupefacenti e la sentenza di condanna è stata emessa per il reato continuato di
spaccio di stupefacenti (Sez.5, n.14991 del 12/01/2012, P.G. in proc.
Strisciuglio, Rv.252324; Sez.6, n.775 del 21/1/2006, dep.16/01/2007, Attolino,
Rv.235804), oppure vi sia diversità circa la data di consumazione e le
circostanze di luogo dell’azione criminosa contestata e di quella ritenuta in

2.7. Tanto premesso, ed il caso in esame neppure involge il tema affrontato
dalla CEDU in relazione all’art.6 della Convenzione (Corte EDU 11/12/2007,
Drassich c. Italia), concernente l’ipotesi della diversa qualificazione giuridica del
fatto effettuata dal giudice di appello, è evidente come, nel caso di specie, la
circostanza che la condotta omissiva ascritta all’imputato consista nel non aver
disposto accertamenti specialistici e nell’aver ritardato la rimozione delle protesi
ha trovato piena e diretta corrispondenza nelle sentenze di merito. Con
particolare riferimento all’esito della perizia disposta in sede di appello, a seguito
della quale è emersa la riconducibilità dell’errore medico all’ulteriore elemento
sintomatico della deiscenza della ferita, si tratta di acquisizione istruttoria
richiesta dallo stesso appellante che, in ragione della natura del mezzo
istruttorio, ha avuto modo di esercitare il suo diritto di difesa in relazione alla
circostanza, esaminata dal perito, per cui tra gli elementi dei quali il chirurgo
avrebbe dovuto tener conto vi fosse anche la cosiddetta deiscenza della ferita
con esposizione della protesi. Tale elemento, sintomatico della necessità di
immediata rimozione delle protesi, non h inciso in alcun modo sulla descrizione
o

dell’episodio della vita umana

nel capo d’imputazione né sugli elementi

costitutivi del reato contestato, essendo semmai funzionale alla specificazione
della data alla quale far risalire l’omissione contestata, ossia all’indicazione di un
elemento che, secondo quanto si dirà, costituisce un’acquisizione istruttoria
favorevole all’imputato.
3. Il secondo ed il terzo motivo di ricorso, che possono essere esaminati
congiuntamente, sono, del pari, inammissibili in quanto manifestamente
infondati.
3.1. Il ricorrente contesta la violazione dell’art.3 della 1.189/2012 sul
presupposto che la decisione della Corte territoriale si fondi su affermazioni del
perito che individuano la colpa medica senza alcun riferimento a linee guida,
protocolli o procedure standardizzate, citando tuttavia letteratura scientifica
concernente la percentuale dei casi in cui si manifesta l’infezione come
complicanza della mastoplastica additiva, i tempi in cui solitamente compare
10

sentenza (Sez.6, n.21094 del 25/02/2004, Faraci, Rv.229021).

l’infezione e il normale iter terapeutico previsto quando si verifica un’infezione,
con la precisazione che “se l’infezione progredisce bisogna togliere la protesi”.
3.2. Si tratta con evidenza di un motivo, oltrecté genericamente formulato,
privo di stretta correlazione con la decisione impugnata, in cui la colpa del
chirurgo non è stata correlata causalmente all’insorgere dell’infezione ré tanto
meno alla gestione del normale iter terapeutico quanto, piuttosto, all’omissione
di accertamenti specialistici tali da acquisire la corretta e completa diagnosi circa
l’esistenza di un’infezione e, soprattutto, alla ritardata rimozione delle protesi

di ulteriori accertamenti specialistici, avrebbero dovuto indurre ad intervenire
onde evitare il protrarsi della malattia.
3.3. Va, peraltro, evidenziato che la sentenza impugnata ha espressamente
preso in considerazione la disciplina introdotta dalla I.n.189/2012 (pag.5),
giustificando l’affermazione della responsabilità dell’imputato ai soli fini civili sul
presupposto che l’imputato sarebbe stato assolto da responsabili ii penale solo se
fosse stato in colpa lieve e si fosse attenuto a linee guida e buone pratiche
accreditate dalla comunità scientifica, non potendosi escludere, in ogni caso,
l’obbligazione risarcitoria ex art.2043 cod.civ. che, secondo la Corte territoriale,
alla luce della nuova normativa permarrebbe anche in caso di errore medico non
rilevante penalmente.
3.4. Tale motivazione appare corretta, esaustiva ed in linea con il testo della
norma e con l’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza di legittimità. La
nuova ipotesi normativa, derivante dall’esigenza di soddisfare il duplice obiettivo
di escludere la responsabilità penale dell’operatore sanitario per colpa lieve e di
parametrare lo standard cautelare su strumenti valutativi pùaffidabili, identificati
nelle linee guida e nelle best practices accreditate dalla comunità scientifica, deve
interpretarsi, in positivo, nel senso che l’operatore sanitario risponde penalmente
solo per colpa grave, rimanendo peraltro ferma la disciplina generale della
responsabilità risarcitoria aquiliana. La disciplina speciale sancita dall’art. 2236
cod. civ., che limita la responsabilità professionale ai soli casi di errore
macroscopico riguarda, peraltro, le ipotesi in cui la prestazione richiesta presenti
speciali difficoltà tecniche, ed inoltre la limitazione dell’addebito ai soli casi di
colpa grave riguarda l’ambito della perizia e non, invece, quelli della prudenza e
della diligenza. Sotto tale profilo, la nuova normativa non presenta carattere
innovativo con riguardo al principio per cui la valutazione della colpa medica
debba essere compiuta con speciale cautela nei casi in cui si richiedano
interventi particolarmente delicati e complessi che coinvolgano l’aspetto pti
squisitamente scientifico dell’arte medica, rimanendone esclusi i casi in cui sia

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nonostante l’esistenza di sintomi, quali l’apertura della ferita, che, pur in assenza

contestato, come nel caso in esame, un comportamento negligente (Corte Cost.,
ord.n.295 del 2 dicembre 2013).
3.5. E’ ben vero che il riferimento contenuto nella norma alle buone pratiche
pone nuovi dubbi all’interprete. Le cosiddette buone pratiche non di rado si
traducono, infatti, in regole che indicano la procedura da seguire al fine di
evitare condotte negligenti ed imprudenti, cosicchè il criterio interpretativo del
limite di operatività della norma alle sole ipotesi in cui venga contestato un
comportamento imperito (Corte Cost. n.166 del 22 novembre 1973) risulta oggi

interpretare la norma invocata dal ricorrente come inclusiva della limitazione di
responsabilità anche nei casi in cui la colpa lieve sia correlata ad una condotta
negligente ovvero imprudente, tanto non muterebbe la correttezza della
pronuncia impugnata in ragione della motivata esclusione (pag.5) della condotta
colposa del sanitario dal novero dei comportamenti sussumibili nell’ambito della
colpa lieve in un quadro di rispetto delle buone prassi.
3.6. Tenuto conto, poi, del fatto che la pronuncia di merito è stata emessa in
ragione della presenza della parte civile pur sussistendo una causa estintiva del
reato, il giudice ha escluso la possibilità di pervenire ad una pronuncia
assolutoria (Sez. U, n.35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244273) sulla
base di una motivazione che, contrariamente a quanto dedotto con il terzo
motivo di ricorso, ha congruamente dato conto del percorso logico seguito, sia
sotto il profilo del nesso di causalità tra la condotta omissiva del sanitario ed il
prolungamento della malattia, implicitamente desunta dalla pronta guarigione
seguita all’intervento di rimozione delle protesi, sia sotto il profilo dell’elemento
soggettivo, individuato sulla base delle regole di comune esperienza medica
quanto all’apprezzabilità dell’apertura della ferita con esposizione della protesi e
sulla base della letteratura scientifica indicata dagli esperti, quanto
all’opportunità, in relazione alla contingenza del caso concreto, di procedere
all’immediata rimozione della protesi (pagg.3-5).
3.7. Vale in proposito evidenziare come le linee guida, definite come
raccomandazioni di comportamento clinico prodotte attraverso un processo
sistematico allo scopo di assistere medici e pazienti nel decidere quali siano le
modalità di assistenza più appropriate in specifiche circostanze cliniche,
conferiscano alla fattispecie colposa un livello di maggiore determinatezza,
indicando in sostanza la regola cautelare suggerita nel caso concreto ed in
presenza di determinate emergenze. Non si può, tuttavia, trascurare che
l’elaborazione delle linee guida può tener conto di esigenze estranee al bene
protetto dalla norma incriminatrice e può assumere il ruolo di scudo della
cosiddetta medicina difensiva, nel senso che il sanitario può essere indotto ad
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messo in crisi dal nuovo testo normativo. Tuttavia, anche ove si volesse

attenervisi comunque nella prospettiva di garantirsi l’impunità. Da ciò discende,
da un lato, che l’adeguamento del sanitario alle linee guida può non essere
sufficiente, come conferma il tenore letterale dell’art.3 I.n.189/2012, ad
escludere la colpa, e, per altro verso, che il giudizio di responsabilità colposa
fondato sul paradigma normativo dell’art.43 cod. pen. esige che vengano presi in
considerazione elementi ulteriori, segnatamente i profili della causalità della
colpa per negligenza ed imprudenza, rispetto alla mera violazione di regole
cautelari.

quali ragioni le linee-guida non possono ritenersi esaustive quali criteri di
valutazione della colpa, sottolineando che :”… alla stregua della logica della
norma, la regola d’imputazione soggettiva della sola colpa non lieve non
interviene in tutte le situazioni in cui, nel corso del trattamento, vi sia stata, in
qualche frangente, l’attuazione di una direttiva corroborata. Al contrario, occorre
individuare la causa dell’evento, il rischio che in esso si è concretizzato. Si
richiede altresì di comprendere se la gestione di quello specifico rischio sia
governata da linee guida qualificate, se il professionista si sia ad esse attenuto,
se infine, nonostante tale complessivo ossequio ai suggerimenti accreditati, vi sia
stato alcun errore e, nell’affermativa, se esso sia rimarchevole o meno.
Naturalmente, si tratterà pure di valutare se una condotta terapeutica
appropriata avrebbe avuto qualche qualificata probabilità di evitare l’evento, ma
in ciò non vi è nulla di nuovo rispetto agli ordinari criteri di accertamento della
colpa. … l’indagine sulla correttezza della condotta medica potrà esulare
dall’ambito segnato da accreditate direttive scientifiche. Ciò potrà senz’altro
accadere quando tali direttive manchino o quando la questione di cui si discute
nel processo concerna comunque un aspetto del trattamento che esuli dal tema
dell’aderenza alle ridette linee guida” (Sez.4, n.16237 del 29/01/2013, Cantore,
Rv.255105).
3.9. A fronte di un’esauriente motivazione, che ha peraltro spostato i criteri
di giudizio dell’elemento soggettivo sul distinto piano delle norme di comune
diligenza, non senza sottolineare l’evidenza del rischio verificabile dal sanitario,
il ricorrente ha svolto censure generiche e non pertinenti, fondate su regole del
sapere scientifico che, non ponendosi in contraddizione con i criteri di giudizio,
anche di natura tecnica, posti a base della decisione, risultano inidonee a
scardinare l’assetto motivazionale sopra illustrato ed a porre in dubbio la
congruità delle valutazioni effettuate dai giudici di merito con riguardo ai profili di
colpa del sanitario.
4. Il quinto motivo di ricorso risulta infondato.

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3.8. E questa Corte ha recentemente indicato, per quanto qui rileva, per

4.1. E’ vero che, nonostante la condotta omissiva colposa del sanitario sia
stata descritta, sulla base delle conclusioni peritali, individuando nella data del
13/07/2004 il momento in cui sarebbe stato da lui esigibile il comportamento
alternativo corretto, ossia la rimozione delle protesi, in ragione della possibilità di
percepire la deiscenza della ferita con esposizione della protesi, la pronuncia ha
erroneamente ascritto all’imputato, quale evento causalmente correlabile a tale
omissione, la malattia della paziente a far data dal 18/05/2004, ma simile errore
non inficia la correttezza della motivazione laddove ha confermato la statuizione

in relazione al reato di lesioni colpose aggravate ai sensi dell’art.583 cod. pen.
4.2. Emerge, infatti, dallo stesso provvedimento impugnato che il
prolungamento della malattia causalmente correlabile all’omissione colposa del
sanitario ha avuto durata pari al periodo intercorso tra il 13/07/2004 e la
guarigione, essendosi protratta per un periodo comunque corrispondente ad un
numero di giorni tale da integrare la circostanza aggravante di cui all’art.583
cod.pen.
5. Inammissibile, in quanto manifestamente infondato, è l’ultimo motivo di
ricorso, avendo la Corte fornito una, sia pure succinta, motivazione delle ragioni
per le quali riteneva congrua la concessione in favore della parte civile di una
somma a titolo di provvisionale. E’ peraltro costante, nella giurisprudenza di
questa Corte, l’affermazione sia del principio per cui, il provvedimento con il
quale il giudice di merito, nel pronunciare condanna generica al risarcimento del
danno, assegna alla parte civile una somma da imputarsi nella liquidazione
definitiva non è impugnabile per cassazione, in quanto per sua natura
insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere travolto dall’effettiva
liquidazione dell’integrale risarcimento (Sez. 5, n.5001 del 17/01/2007, Mearini,
Rv. 236068), sia del principio per cui, in tema di provvisionale, la determinazione
della somma assegnata è riservata insindacabilmente al giudice di merito, che
non ha l’obbligo di espressa motivazione quando l’importo rientri nell’ambito del
danno prevedibile (Sez. 6, n.49877 del 11/11/2009, R.C. e Blancaflor, Rv.
245701).
6. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente, ai sensi
dell’art.616 cod.proc.pen., al pagamento delle spese processuali.
P.Q. M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso il 17/01/2014

del giudice di primo grado, seppure ai soli effetti civili, di condanna dell’imputato

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