Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 5017 del 16/01/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 5017 Anno 2014
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: IANNELLO EMILIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
CURIA SALVATORE N. IL 02/07/1987
D’AMICO EMANUELE N. IL 27/07/1977
avverso la sentenza n. 1393/2012 CORTE APPELLO di CATANIA, del
16/11/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 16/01/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. EMILIO IANNELLO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. t O MAIN(
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che ha concluso per i(

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Con sentenza del 20/10/2011 emessa all'esito di giudizio abbreviato il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Catania riconosceva gli odierni ricorrenti responsabili dei delitti di detenzione a fini di spaccio di sostanza stupefacente ascritti, al Curia, ai capi A e B (commessi, il primo, in data 7 gennaio 2010, l'altro nel maggio e giugno 2009) e, al D'Amico, ai capi C, D, E, F, G, H, I, J e K (commessi tra aprile e luglio del 2009), e li condannava - operati per il rito - il primo alla pena di anni sette di reclusione ed euro 32.000 di multa, il secondo ad anni sette, mesi dieci e giorni venti di reclusione ed euro 38.000 di multa. Interposto gravame da parte di entrambi gli imputati, con la sentenza in epigrafe la Corte d'appello di Catania, in parziale riforma della sentenza impugnata, riconosciuta la circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 309/90 (nel testo ovviamente anteriore alla modifica introdotta dall'art. 2, comma 1, lett. a), d.l. 23 dicembre 2013, n. 146) in relazione al reato contestato al capo A della rubrica, riduceva la pena detentiva inflitta a Curia Salvatore ad anni sei e mesi otto di reclusione; assolveva il D'Amico dai reati a lui ascritti ai capi E, F, G, 3 e K per non aver commesso il fatto, rideterminando conseguentemente la. pena per le residue imputazioni (capi C, D, H, I) in anni sette e mesi due di reclusione ed euro 33.000 di multa. Confermava nel resto. Avverso tale sentenza entrambi gli imputati, a mezzo dei propri difensori di fiducia, hanno proposto ricorso per cassazione. 2. Curia Salvatore deduce violazione dì legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta responsabilità penale in ordine al capo B) di imputazione nonché alla mancata concessione per esso della circostanza attenuante speciale di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 309/90 e al trattamento sanzionatorio. Deduce in sintesi che la sentenza impugnata, essenzialmente basata su intercettazioni ambientali e telefoniche, interpreta in modo illogico e contraddittorio i dati da esse ricavabili, senza fornire adeguata risposta alle censure dedotte con l'atto d'appello. 2.1. Rileva in particolare l'inadeguatezza delle conversazioni intercettate il 28 maggio 2009 (il cui contenuto è sintetizzato a pag. 9 della sentenza d'appello) a fondare il convincimento di penale responsabilità espresso dai giudici di merito, atteso che «non vi è nessun atto che provi che la macchina del De Juri non si sia mossa da sotto casa del Curia». 2 per entrambi gli aumenti per recidiva e per continuazione, nonché la riduzione Sotto altro profilo osserva che se è vero che il legame d'amicizia tra il De Juri ed il Curia (pag. 8 della motivazione) non vale di per sé a togliere fondatezza all'impianto accusatorio, è anche vero l'opposto, che cioè non ogni contatto tra i due deve essere necessariamente spiegato in chiave accusatoria. Evidenzia che l'istruzione compiuta consentiva di accertare non solo che il De Juri ha comprato dal Curia il modestissimo quantitativo di stupefacente di cui al capo A), ma anche che lo stesso si riforniva sempre a Misterbianco da altro soggetto non collegato al Curia. di arresti domiciliari non esclude di per sé la possibilità di commettere reato di spaccio di stupefacenti, è comunque illogico ritenere che De Juri parlasse del Curia quando diceva che dal fornitore ne aveva presi, poco prima, 500 euro a settimana, così come è illogico riferire al Curia la frase intercettata nella quale il De Juri, parlando del fornitore, dice: «me I 'ha presa apposta per me ....gli faccio ora ...siccome siamo ... gli faccio nascondere qualcosa a loro» (dovendosi considerare - assume il ricorrente - incompatibile con tale interpretazione l'uso del pronome plurale e l'ipotesi che il Curia, scarcerato da pochi giorni, avesse potuto procurare sostanza stupefacente per lui e soprattutto venderla per C 500 settimana). Rileva inoltre che illogicamente la Corte desume dall'espressione "fare una bella mangiata" altro elemento di prova della colpevolezza, osservando che a tutto voler concedere tale espressione evidenzierebbe l'intenzione di consumare assieme (mangiare) sostanza stupefacente di cui tanto il Curia che tanto il De Juri fanno abitualmente uso; e certamente non è dimostrativa di un attività di illecita cessione. Assume ancora che è contraddittorio, da un lato, ritenere che almeno in un caso, quello cui fanno riferimento le conversazioni intercettate in data 24 giugno 2009, la visita del De Juri e del Russo a casa del Curia non fosse legata all'acquisto di sostanza stupefacente (ma al taglio della sostanza acquistata da altro fornitore) e, dall'altro, ritenere che tutte le volte in cui De Juri e i suoi amici consumavano droga in Misterbianco, dopo aver incontrato l'amico Curia, il venditore era quest'ultimo. 2.2. Per le stesse considerazioni sopra illustrate, e in particolare per la dedotta illogicità della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui riferisce al Curia la cessione di stupefacente per C 500 a settimana, menzionata nelle conversazioni intercettate, il ricorrente denuncia inoltre vizio di motivazione oltre che violazione di legge penale per aver la Corte d'appello disatteso il motivo di gravame tendente al riconoscimento anche per il capo B dell'attenuante 3 Deduce ancora che se è vero che, come afferma la Corte d'appello, il regime speciale di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 309/90. Deduce che erroneamente a tal fine la corte territoriale ha attribuito rilievo ostativo al fatto che si trattava di più episodi di cessione in continuazione tra loro. Richiama in tal senso il principio affermato da questa stessa sezione, con sentenza n. 1736 del 27/11/1997 - dep. 11/02/1998, Fierro, Rv. 210161, e ribadito da altre pronunce successive conformi, secondo cui «lo svolgimento di attività di spaccio di stupefacenti non occasionale ma continuativo non è incompatibile con l'attenuante della lieve entità del fatto, come si desume un'associazione costituita per commettere fatti descritti dal quinto comma dell'art. 73, rende evidente che, a più forte ragione, è ammissibile configurare come lievi gli episodi che costituiscono attuazione del programma criminoso associativo». Rileva che peraltro tra le circostanze dell'azione da prendere in considerazione, insieme con altri elementi, per la valutazione della concedibilità dell'attenuante in parola, devono anche ricomprendersi le condizioni soggettive dell'agente, e in particolare, nella specie, il documentato stato di tossicodipendenza dell'imputato, rilevante anche ai fini della valutazione dell'intensità del dolo. Ciò in uno al fatto che il quantitativo di stupefacente non è stato rinvenuto e anche alle caratteristiche dell'acquirente, che non può considerarsi soggetto "vulnerabile" per età e condizioni psicofisiche. 2.3. Con un terzo ordine di censure, il ricorrente si duole infine della mancata concessione delle attenuanti generiche, della mancata esclusione della recidiva e del trattamento sanzionatorio. Rileva in particolare che la Corte d'appello ha omesso di illustrare le ragioni per cui, pur avendo escluso che le conversazioni intercettate in data 24/6/2009 potessero efficacemente dimostrare la riferibilità all'imputato delle cessioni da esse desunte, ciò non abbia comportato una corrispondente diminuzione della pena. Si duole ancora della mancata considerazione ai fini predetti del comportamento processuale dell'imputato, che ha confessato la sussistenza dei rapporti con il De Juri, di avergli a volte ceduto della sostanza in modica quantità, nonché del suo stato personologico e patologico di tossicodipendente. 3. D'Amico Emanuele propone ricorso sulla base di due motivi. 3.1. Con il primo deduce vizio di illogicità e contraddittorietà della motivazione con riferimento alla ritenuta responsabilità penale in ordine ai reati 4 dall'art. 74, comma 6, d.P.R. n. 309 del 1990, che, con il riferimento ad di cui ai capi C, D, H e I. Rileva in particolare, che con riferimento al capo C, non si rinvengono in sentenza le ragioni per le quali sia da escludere la qualificazione del fatto in termini di consumo di gruppo, atteso che «il passaggio motivazionale non individua mai un momento di vera e propria cessione» e piuttosto quella ivi considerata è «una discussione sulla qualità della sostanza stupefacente». Con riferimento al capo D deduce che, dai dati istruttori valorizzati in sentenza, non è dato ricavare la presenza fisica del D'Amico: posto infatti che in dell'abitazione del D'Amico, alla presenza in Misterbianco di De Juri, Russo e Vecchio e, infine, dopo un determinato arco temporale, al rientro verso casa degli stessi, rileva che in allora l'abitazione del D'Amico non era a Misterbianco, bensì nella via Capo Passero di Catania, e che quest'ultimo riferimento, data la triste fama della zona proprio nel settore del traffico di stupefacenti, non è sufficiente a individuare il coinvolgimento del D'Amico. Analoghe considerazioni dedica poi al capo H e quanto poi al capo I, posto che l'affermazione di responsabilità per esso si fonda su intercettazioni telefoniche e ambientali che fanno riferimento ad un certo «testone», rileva che la sentenza omette di illustrare le ragioni per cui questo vada identificato col D'Amico, così come non v'è ragione di identificare con l'imputato il soggetto che nelle intercettazioni medesime viene chiamato «Emanuè». Soggiunge che contraddittoriamente le riferite argomentazioni vengono invece ritenute valide per escludere la responsabilità del D'Amico negli ulteriori capi di imputazione. 3.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione anche in ordine al trattamento sanzionatorio. Lamenta che l'impugnata sentenza non illustra il percorso logico seguito circa l'individuazione della pena base e l'aumento per le varie ipotesi di reato ritenute provate, non spiegando in particolare perché il reato più grave viene individuato in quello di cui al capo H, né chiarendo comunque quale sia la pena comminata per tale violazione e quali gli aumenti per la continuazione, ciò che impedisce di comprendere - soggiunge il ricorrente - com'è stata considerata l'incidenza della decisione di assoluzione per i capi E, F, G, J, K. Considerato in diritto 4. Appare utile ricordare, in via preliminare, i rigorosi limiti del controllo di legittimità sulla sentenza di merito. 5 sentenza si fa riferimento ad una intercettazione ambientale in prossimità Invero, ai sensi di quanto disposto dall'art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., il controllo di legittimità sulla motivazione non concerne né la ricostruzione dei fatti né l'apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell'atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l'esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l'assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità del provvedimento. Con l'ulteriore precisazione, quanto alla illogicità della motivazione, come vizio denunciai:Aie, che deve essere evidente («manifesta illogicità»), cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu °culi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento (v. e pluribus Sez. 4, n. 19710 del 03/02/2009, Buraschi, non mass. sul punto). In altri termini, l'illogicità della motivazione, deve risultare percepibile ictu ocu/i, in quanto l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Sez. 4, n. 4858 del 04/12/2003 - dep. 06/02/2004, Cozzolino, non mass. sul punto). Inoltre, va precisato, che il vizio della «manifesta illogicità» della motivazione deve risultare dal testo del provvedimento impugnato, nel senso che il relativo apprezzamento va effettuato considerando che la sentenza deve essere logica «rispetto a sé stessa», cioè rispetto agli atti processuali citati nella stessa ed alla conseguente valutazione effettuata dal giudice di merito, che si presta a censura soltanto se, appunto, manifestamente contrastante e incompatibile con i principi della logica (Sez. 4, n. 19710 del 2009, Buraschi, cit.). I limiti del sindacato della Corte non possono considerarsi mutati neppure a seguito della nuova formulazione dell'art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., intervenuta a seguito della legge 20 febbraio 2006, n. 46, laddove si prevede che il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve mirare a verificare che la motivazione della pronuncia: a) sia 6 evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo "effettiva" e non meramente apparente, cioè realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia "manifestamente illogica", in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell'applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente "contraddittoria", ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico. Alla Corte di Cassazione, infatti, non è tuttora consentito di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti magari finalizzata, nella prospettiva del ricorrente, ad una ricostruzione dei medesimi in termini diversi da quelli fatti propri dal giudice del merito. Così come non sembra affatto consentito che, attraverso il richiamo agli "atti del processo", possa esservi spazio per una rivalutazione dell'apprezzamento del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamento riservato in via esclusiva al giudice del merito. In altri termini, al giudice di legittimità resta tuttora preclusa - in sede di controllo della motivazione - la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa: un tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell'ennesimo giudice del fatto. Pertanto la Corte, anche nel quadro nella nuova disciplina, è e resta giudice della motivazione. Orbene, fatta questa doverosa premessa e sviluppando coerentemente i principi suesposti, deve ritenersi che la sentenza impugnata regge al vaglio di legittimità, non palesandosi assenza, contraddittorietà od illogicità della motivazione. 5. Tanto deve anzitutto affermarsi con riferimento alle doglianze del Curia mirate a contestare la tenutezza logica delle considerazioni svolte in sentenza a fondamento della ritenuta sua responsabilità in ordine al delitto di cui al capo B (detenzione e cessione a De Juri Antonio e Russo Salvatore sostanza stupefacente di tipo cocaina per un importo di circa C 500 a settimana, in Misterbianco, nel maggio e giugno 2009). Al riguardo la sentenza impugnata fa anzitutto riferimento a tre conversazioni intercettate intercorse nella stessa data del 28 maggio 2009 nell'arco temporale di poco più di tre ore, le prime, tra il Curia e il De Juri 7 nei motivi del suo ricorso per cassazione: c.d. autosufficienza) in termini tali da [conversazione telefonica delle ore 13:40 (n. 1220), nella quale i due concordavano un appuntamento per «prendersi il caffè»; conversazione telefonica delle ore 15:28 (n. 1229), in cui il De Juri invitava il Curia ad affacciarsi alla finestra], la terza, tra i due acquirenti all'interno dell'autovettura (intercettazione ambientale delle 16:57, n. 625), da cui si evince che i due consumavano una parte della cocaina acquistata precedentemente, affermando che ne avevano già comprati quantitativi per C 500 a settimana, per importi complessivi non minori di 3.000, 4.000 euro. sentenza di primo grado, ne desume la prova che non solo in quella data i due avevano acquistato dal Curia la cocaina poi subito dopo consumata in parte all'interno dell'autovettura ma, in forza dello scambio di battute captato nella terza intercettazione, che lo avessero fatto anche in precedenza per importi complessivi non minori di quelli suindicati. Ciò argomenta anzitutto dall'uso di espressioni - quale «prendersi il caffè» - spesso utilizzate dai due per alludere, con linguaggio evidentemente criptico, al rifornimento di partite di sostanza stupefacente e, in secondo luogo, dalla lettura combinata della seconda intercettazione, che di per sé dimostrava con ogni evidenza che alle ore 15:28 di quel giorno il De Juri si trovava sotto casa del Curia, con le rilevazioni del sistema GPS che indicavano nel medesimo orario l'autovettura del De Juri in territorio di Misterbianco. A fronte di tale ragionamento - in sé dotato di piena coerenza logica interna e basato su una adeguata lettura coordinata e complessiva degli elementi di prova considerati - del tutto inconducente si rivela il rilievo del ricorrente secondo cui mancherebbe la prova che la macchina del De 3uri non si sia mossa da sotto casa del Curia. In realtà è al contrario l'eventuale prova di uno spostamento dell'autovettura rilevato dal sistema GPS che avrebbe potuto rappresentare eventualmente aspetto più difficilmente conciliabile con la complessiva ricostruzione dell'episodio. In mancanza di ciò, il ragionamento seguito dai giudici di merito appare pienamente congruo, anche tenuto conto del fatto che, attese le intercettazioni in corso, l'eventuale inserimento di altre persone o fatti nella cronologia degli eventi registrata nel detto arco temporale, sarebbe stato del tutto presumibilmente evidenziato. Ogni altra considerazione sul punto svolta dal ricorrente rappresenta con ogni evidenza nient'altro che la prospettazione di altre chiavi di lettura dei dati fattuali emergenti dalla istruzione acquisita, come tali tuttavia, come detto, del tutto inidonea ad attivare i limitati poteri di sindacato di questa S.C., volta che comunque non valgono in alcun modo a evidenziare una manifesta illogicità o intima contraddittorietà dell'alternativo ragionamento seguito dal giudice di 8 La Corte, condividendo le considerazioni svolte anche sul punto già nella merito, né significative lacune nella valutazione del materiale probatorio acquisito, ciò tanto più nella specie ove la Corte d'appello prende in esame espressamente ciascuno degli elementi e degli argomenti qui riproposti dal ricorrente e li confuta in modo puntuale e completo. Alle pagg. 9-10 della sentenza si rileva, infatti, che il carattere convenzionale e criptico dell'espressione «fare una bella mangiata», utilizzata nel senso di acquistare sostanza stupefacente, «emerge dalla conversazione ambientale del 12 giugno 2009 (n. 1269) tra De Juri e Russo Salvatore, nel corso chiedeva se l'indomani avrebbe mangiato, ma il Curia rispondeva che se ne parlava la settimana dopo, quindi il De Juri rispondeva che la spesa la facevano la settimana dopo ma l'indomani sarebbe venuto lo stesso ... [e poi commentava] ... stizzito con il Russo, dopo la telefonata, che l'indomani non si sarebbe mangiato»; logicamente congruente è dunque l'argomentazione che le trae la corte territoriale secondo cui «tale linguaggio, inserito in un contesto di acquisti di sostanza stupefacente precedenti successivi presso il Curia ... sia in realtà riferito alla detenzione e allo spaccio di stupefacente ..., essendo altrimenti incomprensibile il riferimento dell'esistenza o meno del mangiare presso il Curia». Così come conseguenti sul piano logico e idonei a loro volta a fondare le successive conclusioni sono i rilievi secondo cui (ancora pag. 10 della sentenza impugnata): «a fronte del suesposto quadro accusatorio, ed in particolare del contenuto della conversazione ambientale delle ore 16,57 del 28 maggio 2009, da cui emerge chiaramente il consumo dello stupefacente, non risulta necessario alcun riscontro proveniente da perquisizione; la circostanza che l'imputato si trovasse agli arresti domiciliari non risulta incompatibile sotto il profilo fattuale, come già esposto, con il compimento di delitti di tal genere (potendo certamente il Curia essersi approvvigionato della droga mediante l'ausilio di terzi non identificati); l'uso del plurale in talune intercettazione risulta non significativo e comunque compatibile con la circostanza che del traffico di droga era certamente consapevole anche la madre dell'imputato, come già esposto arrestata in data 8 dicembre 2009 unitamente al figlio per un episodio di detenzione di sostanza stupefacente di tipo cocaina; ... gli appuntamenti del De Juri con il Curia, e la successiva detenzione di droga escludono che tratta vasi di un consumo di gruppo di sostanza stupefacente, bensì di cessioni dal secondo al primo; ... lo stato di tossicodipendenza del Curia non incrina il sopra indicato quadro accusatorio, risultando al contrario frequente nella prassi giudiziaria la coincidenza tra consumatore e spacciatore». Tali considerazioni paiono indubbiamente idonee, come detto, a confutare la 9 della quale il primo riceveva una telefonata dal Curia ...[al quale lo stesso] ... conducenza degli argomenti proposti dal ricorrente a fondamento del ricorso; risultano esse stesse logicamente valide e credibili e non vengono peraltro fatte segno di alcuna specifica censura da parte del ricorrente. 4.2. Il ricorso del Curia è infondato anche con riferimento al secondo dei profili oggetto di censura, ossia il mancato riconoscimento della ipotesi di cui all'art. 73, comma 5, d.p.r. 309/90. Anche sul punto la motivazione della corte territoriale risulta congrua e su una completa e bilanciata considerazione degli elementi rilevanti ai sensi della richiamata norma e in particolare sia sulla caratteristica di stabile fornitore di sostanza stupefacente (desunta dal fatto che il reato si è protratto in forma continuata per diverse settimane), sia sulle quantità consistenti dì droga ceduta (tali da giustificare introiti illeciti anche di C 500,00 a settimana). Alla stregua delle considerazioni sopra esposte, tale elemento della fattispecie deve ritenersi validamente posto a fondamento della decisione, in quanto oggetto di accertamento congruamente motivato. Inconferente poi risulta il riferimento al richiamato principio giurisprudenziale secondo cui la lieve entità del fatto può in astratto predicarsi anche in presenza di attività di spaccio di stupefacenti non occasionale ma continuativo, atteso che l'esclusione dell'ipotesi detta è nella specie motivata non dal mero rilievo del carattere ripetitivo delle cessioni di stupefacente (e comunque non solo da esso), ma dalla considerazione che tale reiterata attività si è caratterizzata anche in modo così frequente e sistematico da porsi quale «sintomo di una non trascurabile potenzialità diffusiva dell'attività di spaccio» (citandosi a conforto peraltro anche il precedente di Sez. 6, n. 27058 del 14/04/2008, Rinaldo, Rv. 240981). 5. Si appalesano altresì infondati i motivi del ricorso proposti dalla difesa di D'Amico Emanuele. 5.1. Quanto al primo, deve invero osservarsi che la corte territoriale, con motivazione pienamente coerente sul piano logico e del tutto conseguente in termini argomentativi, richiamando le diffuse considerazioni sul punto contenute nella sentenza di primo grado, ha tilnDlgeongruamente motivato (alle pagine 14-17) il proprio convincimento in punto di responsabilità penale dell'imputato con riferimento ai capi suindicati sulla scorta di un'attenta e diffusa analisi degli elementi di prova raccolti (essenzialmente rappresentati da intercettazioni ambientali e dei rilevamenti satellitari dei movimenti dei soggetti intercettati) e 10 intrinsecamente coerente oltre che corretta in punto di diritto in quanto fondata di una loro lettura coordinata, tale da evidenziarne l'univoco significato nel senso confermativo dell'ipotesi d'accusa e l'assoluta non plausibilità di una lettura alternativa, in particolare di quella di consumo di gruppo, specificamente confutata con argomentazioni non fatte segno di specifica critica nell'odierno ricorso, che sul punto si risolve nella mera inammissibile riproposizione di censura già espressamente disattesa in grado d'appello. Anche con riferimento al capo D la corte territoriale motiva espressamente e congruamente l'affermazione della sussistenza della fattispecie contestata, intercettate e ì rilevamenti satellitari, dai quali emergeva: la presenza dell'autovettura dei due tossicodipendenti interessati all'acquisto di stupefacente in prossimità dell'abitazione del D'Amico; contatti telefonici con quest'ultimo; il maneggio di denaro da parte dei predetti; circa un'ora dopo l'assunzione di sostanza stupefacente all'interno dell'autovettura da parte dei due occupanti. Il collegamento logico e cronologico di tali elementi giustifica pienamente alla stregua di un corretto ragionamento inferenziale basato su presunzioni gravi precise e concordanti (art. 192, comma 2, cod. proc. pen.) - il convincimento espresso dai giudici di merito, e non possono valere a confutarne l'efficacia persuasiva i generici rilievi formulati in ricorso in quanto inidonei a confrontarsi puntualmente con gli specifici passaggi motivazionali predetti, ma piuttosto basati sulla considerazione di circostanze di per sé neutre o generiche (l'esatta localizzazione dell'abitazione del D'Amico), delle quali non si spiega la capacità di contraddire la fondatezza e la valenza indiziaria dei più ampi e diversi elementi invece considerati in sentenza (tra le quali in particolari le risultanze di intercettazioni ambientali e telefoniche che, anche in base a diversi indizi ricavabili dal tenore e dal contenuto delle conversazioni, identificavano nel D'Amico il fornitore cui i conversanti facevano riferimento). Analogamente generica e inidonea a confrontarsi con l'ampio quadro di elementi di prova dettagliatamente analizzati e congruamente valutati in sentenza (pagg. 16-17) si appalesa la censura riferita dal ricorrente ai capi H e I, risolventesi, per il primo, nel rilievo, evidentemente inconferente (se non addirittura incomprensibile) rispetto alle risultanze delle intercettazioni ambientali e dei rilevamenti satellitari specificamente indicate in sentenza, secondo cui non vi sarebbe prova della «presenza fisica del D'Amico» e, per il secondo, nella contestazione della interpretazione dei termini «Emanuè», «testone» e utilizzati nelle conversazioni intercettate, come identificativi del predetto. Trattasi con ogni evidenza di contestazioni del tutto inconsistenti già isolatamente considerate, apparendo evidente che quanto meno il secondo termine di per sé è tanto prossimo al prenome dell'imputato da risultare 11 collegando in modo del tutto coerente sul piano logico le conversazioni tutt'altro che criptico e anzi esso stesso ulteriore indizio grave e convergente nella identificazione dello stesso quale fornitore di stupefacente al quale i conversanti si riferivano. Tanto più ciò deve ritenersi se letti quei riferimenti all'interno dell'ampio compendio probatorio considerato e avuto riguardo al generale contesto in cui tali conversazioni sono andate sviluppandosi. A fronte di un percorso argomentativo congruamente esaustivo e convincente, esente da manifesto vizio di illogicità il ricorrente si limita, in sostanza, a dedurre genericamente carenze motivazionali e a prospettare, in imputazione, che «manca la sede interpretativa per poter dire, sulla base dello stesso contesto probatorio, perché le medesime considerazioni sulla evanescenza del quadro stesso, vengono ritenute valide in determinati momenti di in altri no». Trattasi con ogni evidenza di rilievi mirati a contestare in modo generico e complessivo la valutazione delle circostanze di causa effettuata dai giudici del merito, in guisa dunque da porsi ben al di là dei visti limiti e del contenuto del sindacato del vizio di motivazione in sede di legittimità. 5.2. Quanto poi al secondo motivo di ricorso, impingente il trattamento sanzionatorio, è sufficiente rilevare che, diversamente da quanto dedotto dal ricorrente, la corte territoriale da un lato giustifica chiaramente e in modo adeguato la ragioni per cui ha ritenuto di individuare nell'ipotesi contestata al capo H il reato più grave sul quale determinare la pena base (individuato nel fatto, evidenziato tra parentesi, che trattavasi di acquisto di cocaina per un importo di C 180,00: e del resto lo stesso ricorrente non spiega le ragioni per le quali tale passaggio del ragionamento dei giudici di merito sarebbe da considerare erroneo), dall'altro offre elementi altrettanto espliciti per poter giungere alla ricostruzione, chiara e univoca, del calcolo sia della pena base sia degli aumenti per gli altri reati unificati dal vincolo della continuazione. 6. In definitiva, entrambi i ricorsi vanno rigettati, con la conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 16/01/2014 modo altrettanto generico, con riferimento alla assoluzione per altri capi di

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