Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 50060 del 01/12/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 50060 Anno 2015
Presidente: AMORESANO SILVIO
Relatore: MENGONI ENRICO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Giofrè Francesco, nato a Gioia Tauro (RC) il 22/4/1985

avverso l’ordinanza pronunciata dal Tribunale del riesame di Reggio Calabria
in data 23/7-10/8/2015;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
sentita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore generale Ciro Angelillis, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
sentite le conclusioni dei difensori del ricorrente, Avv. Natale Polimeni e
Francesco Calabrese, che hanno chiesto l’accoglimento del ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 23/7-10/8/2015, il Tribunale del riesame di Reggio
Calabria rigettava il ricorso proposto da Francesco Giofrè e, per l’effetto,
confermava il provvedimento emesso dal locale Giudice per le indagini
preliminari 1’11/5/2015, con il quale era stata disposta la misura cautelare della
custodia in carcere; allo stesso soggetto erano ascritti i reati di cui agli artt. 74,

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Data Udienza: 01/12/2015

commi 1, 2 e 3, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, nella qualità di partecipe (capo
1), 110 cod. pen., 73, comma 1, 80, stesso decreto, 4, I. 16 marzo 2006, n. 46
(capi 8, 9, 10 e 11) e 110, 81 cpv., 390 cod. pen. (capo 16), in ordine ai quali il
Collegio ravvisava – con motivazione estremamente ampia – il fumus commissi

dell’ai, in uno con le esigenze cautelari a carico.
2. Propone ricorso per cassazione il Giofrè, a mezzo del proprio difensore,
deducendo tre motivi:
– violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. pro. pen., in

l’eccezione di incompetenza per territorio, per esser competente il Tribunale di
Roma, pur risultando evidente che l’operatività della struttura criminosa
contestata sub 1) si era manifestata nella Capitale, laddove era avvenuta la
programmazione delle attività inerenti al traffico internazionale di stupefacenti e
si erano tenuti i contatti volti a definire quantità, prezzi e modalità di trasporto di
questi; non risponderebbe al vero, pertanto, che a Roma si sarebbero svolti
soltanto incontri di rilievo marginale, come affermato nell’ordinanza impugnata;
– violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) in relazione agli artt. 273,
stesso codice, 73, 74, d.P.R. n. 309 del 1990. Il Tribunale sarebbe pervenuto alla
sicura identificazione del Giofrè, come soggetto coinvolto nelle conversazioni in

chat ampiamente riportate nell’ordinanza, con argomenti insufficienti ed
apodittici, del tutto inidonei a riconoscere proprio nel ricorrente il soggetto
complice dei traffici di cocaina dal Sudamerica; in particolare, non potrebbe
esser utilizzato al riguardo il verbale del 31/3/2014, allorquando un soggetto
privo di documenti aveva dichiarato le generalità del ricorrente, addirittura
fornendone il numero di telefono; del pari, quanto ai nickname impiegati nelle
conversazioni (Aspide e Cupido), la cui riferibilità al ricorrente risulterebbe solo
presunta e priva di connotati di gravità e precisione indiziaria, così come in
ordine al riconoscimento vocale operato dalla p.g., del tutto inattendibile;
– violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) e c); in relazione all’art. 275
cod. proc. pen., come novellato più volte e, da ultimo, con la I. 16 aprile 2015, n.
47. L’ordinanza avrebbe sostenuto in modo apodittico ed immotivato che l’unica
misura idonea a soddisfare le esigenze cautelari risulterebbe la custodia in
carcere, senza prendere in adeguata considerazione l’ipotesi degli arresti
domiciliari, eventualmente rafforzati ai sensi dell’art.

275-bis cod. pen.; il

giudizio espresso in tal senso, quindi, emergerebbe come meramente
congetturale, specie alla luce del ruolo assai marginale che il Giofrè avrebbe
coperto nel sodalizio, giusta capi 1 e 8-10, ovvero di condotta di mero ausilio,
come nel capo 16, sì da giustificarsi la misura gradata di cui sopra.

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relazione agli artt. 8 e 16, stesso codice. Il Tribunale avrebbe rigettato

CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Costituisce indirizzo ermeneutico più volte affermato da questa Corte
quello per cui, in tema di impugnazione delle misure cautelari personali, il ricorso
per cassazione è ammissibile soltanto se denuncia la violazione di specifiche
norme di legge, ovvero la manifesta illogicità della motivazione del
provvedimento secondo i canoni della logica ed i principi di diritto, ma non anche
quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero si

merito (Sez. 6, n. 11194 dell’8/3/2012, Lupo, Rv. 252178; Sez. 5, n. 46124
dell’8/10/2008, Pagliaro, Rv. 241997); allorquando, poi, sia denunciato un vizio
di motivazione in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla
Corte suprema spetta solo il compito di verificare, in relazione alla peculiare
natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il Giudice di
merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad
affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato e di controllare la
congruenza dell’argomento riguardante la valutazione degli elementi indizianti
rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano
l’apprezzamento delle risultanze probatorie (per tutte, Sez. 4, n. 26992 del
29/5/2013, Tiana, Rv. 255460).
4. Ciò premesso, ritiene la Corte che il Tribunale del riesame abbia fatto
buon governo di questo principio, confermando l’ordinanza genetica della misura
con una motivazione oltremodo adeguata, ispirata ad oggettive emergenze
investigative e connotata da evidente logicità.
Al riguardo, peraltro, occorre una premessa: non costituisce oggetto di
gravame l’ampia ed estremamente argomentata parte dell’ordinanza che ha
individuato gravi indizi di colpevolezza – a carico di numerosi soggetti – in ordine
ai reati ascritti in rubrica, come emersi dalle molteplici attività di indagine svolte
(captative, in primo luogo, ma anche di osservazione, controllo e, infine,
sequestro di centinaia di chili di cocaina) delle quali il provvedimento dà analitico
conto, con assai dettagliato richiamo ad ogni elemento individualizzante. Non è
contestato, pertanto, che l’insieme di questi riscontri confermi appieno quantomeno nella presente fase cautelare – l’esistenza di un’associazione per
delinquere finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, aggravata
dall’ingente quantità e dalla transnazionalità, in uno con singoli reati fine nello
stesso ambito illecito, parimenti aggravati, e con la violazione ripetuta dell’art.
390 cod. pen..
Il gravame, invero, censura l’ordinanza in esame sotto tre diversi e specifici
profili, quali l’incompetenza per territorio del Tribunale di Reggio Calabria,

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risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal Giudice di

l’identificazione del Giofrè come soggetto effettivamente partecipe di quelle
attività investigative sopra richiamate e, da ultimo, l’adeguatezza della misura
cautelare in atto; orbene, tutti questi profili, a giudizio della Corte, risultano
manifestamente infondati.
5. Con riguardo al primo, il Tribunale del riesame – pronunciandosi sulla
medesima questione – ha rilevato che, nella vicenda de qua, tutte le attività di
programmazione, ideazione e direzione delle condotte criminose erano venute in
essere nel distretto reggino, «in cui risiedevano i vertici dell’associazione e i

Alvaro Vincenzo), destinatari finali della sostanza e dei codici identificativi dei
vari carichi di droga che arrivavano nel porto di Gioia Tauro e non solo»; per
contro, a Roma erano state riscontrate soltanto attività di contorno, quali la
definizione di dettagli con corrieri esteri oppure il reperimento di risorse da parte
di accoliti, mentre «l’ideazione, la programmazione e, quasi interamente,
l’esecuzione del programma associativo si sono verificate nel distretto reggino».
Motivazione evidentemente adeguata e priva di illogicità, dunque, con la
quale la Corte ha aderito al costante indirizzo in forza del quale, in tema di reati
associativi, la competenza per territorio si determina in relazione al luogo in cui
ha sede la base ove si svolgono programmazione, ideazione e direzione delle
attività criminose facenti capo al sodalizio; in particolare, considerato che
l’associazione è una realtà criminosa destinata a svolgere una concreta attività,
assume rilievo non tanto il luogo in cui si è radicato il pactum sceleris, quanto
quello in cui si è effettivamente manifestata e realizzata l’operatività della
struttura (tra le altre, Sez. 2, n. 23211 del 9/4/2014, Morinelli, Rv. 259653; Sez.
5, n. 44369 del 13/3/2014, Robusti, Rv. 262920; Sez. 2, n. 19177 del
15/3/2013, Vallelonga, Rv. 255829); ovvero in Calabria, nel territorio reggino,
come da congrua motivazione del Tribunale.
Motivazione alla quale, peraltro, non sembrano opporsi efficacemente le
deduzioni difensive, invero del tutto generiche e prive di ogni sostegno
documentale; in particolare, il ricorso afferma, in modo apodittico, che «proprio
a Roma sarebbe avvenuta la programmazione delle attività di traffico
internazionale di droga» e che qui «si sarebbe realizzata e manifestata

ab

extemo, per la prima volta, l’operatività della struttura criminosa, attraverso i
contatti tra acquirenti e fornitori, con determinazione di quantità, prezzo,
modalità e strumenti di trasporto». Quel che, peraltro, emergerebbe «dalla
lettura dell’incarto procedimentale», non meglio precisato e tantomeno allegato
al ricorso.
5. Del tutto infondato, di seguito, risulta anche il secondo motivo.

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principali committenti dello stupefacente (il latitante Alvaro Giuseppe e il fratello

Il Tribunale del riesame – ancora pronunciandosi sulla stessa doglianza – ha
ritenuto pienamente certa l’identificazione del Giofrè in forza di molteplici
elementi, dei quali l’ordinanza dà analitico conto: 1) il controllo avvenuto il
31/3/2014, laddove un uomo era stato rinvenuto a bordo del gommone che
inseguiva l’imbarcazione POL HIN per recuperare il carico di droga; soggetto che
– sedicente – aveva declinato le generalità del ricorrente, fornendo addirittura il
suo numero telefonico (345-3560689); 2) i tabulati della medesima utenza e
celle telefoniche agganciate durante gli spostamenti dell’utenza 339-1485261,

14/4/2014 tra “Aspide” (Giofrè) e “Spiderman” (Giuseppe Alvaro), nelle quali si
programma un incontro tra i due, poi confermato dalla localizzazione delle
utenze (incontro, peraltro, sul quale l’ordinanza si diffonde molto,
confermandone il verificarsi con “perfetta sovrapponibilità” delle risultanze); 4) le
conversazioni telematiche a nome “Cupido” sull’utenza 380-2446609, in uso al
Giofrè da giugno 2014, oggetto di riconoscimento vocale (in occasione di una
ricarica) poi confermato dal raffronto con conversazioni dallo stesso effettuarte
con la fidanzata (oggi moglie) Federica Cedro e con il padre di lei.
Orbene, a fronte di questa compiuta motivazione, il gravame si diffonde in
considerazioni del tutto astratte ed in censure oltremodo generiche, evocando
conclusioni congetturali (il sedicente Giofrè, identificato il 31/3/2014, potrebbe,
in realtà, essere un’altra persona) o contestando le affermazioni del Collegio quanto alla riferibilità di “Aspide” e “Cupido” proprio al ricorrente – sol perché
«prive dei connotati di gravità e precisione indiziaria»; al pari, poi, delle
localizzazioni satellitari (che non garantirebbero soddisfacente precisione), del
riconoscimento vocale sull’utenza 380-2446609 (che potrebbe essere riferito «al
c.d. “terzo conversante”», per essersi l’indagato «avvicinatosi alla fonte captativa
per uno “scambio di battute” con il reale possessore del dispositivo di interesse»)
e di quello vocale (del tutto equivoco), all’evidenza oggetto di considerazioni che
non costituiscono effettiva censura all’ordinanza gravata.
6. Da ultimo, l’adeguatezza della misura cautelare; anche sul punto, ritiene
la Corte che la motivazione stesa dal Tribunale di Reggio Calabria sia logica ed
immune da vizi.
Premesso che si verte in un’ipotesi di presunzione (relativa) di idoneità della
sola custodia cautelare in carcere, ai sensi dell’art. 275, comma 3, cod. proc.
pen., attesa la contestazione associativa sub 1), si osserva che il Collegio del
riesame ha escluso che siano stati acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le stesse
possono essere soddisfatte con altre misure. L’ordinanza, infatti, ha evidenziato
1) con riguardo alla (non contestata esistenza della) associazione

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ex art. 74,

ancora in uso al ricorrente; 3) le conversazioni telematiche intercettate il

d.P.R. n. 309 del 1990, che il ruolo ricoperto dal Giofrè è risultato di particolare
rilievo, essendosi «egli reso responsabile di ben quattro importazioni di ingenti
quantitativi di cocaina, denotando discrete capacità di coordinamenti degli altri
portuali (che materialmente eseguivano i tentativi di recupero, mentre lui
supervisionava e teneva informato Alvaro Giuseppe)»; 2) l’elevato grado di
fiducia che lo stesso Alvaro – vertice del sodalizio, unitamente al fratello riponeva nel ricorrente, «l’unico, tra i portuali, ad esser destinatario dei codici
identificativi delle navi e dei container, nonché l’unico a cui l’Alvaro affidava la

di reati della stessa specie – particolarmente concreto ed attuale, a fronte del
solido inserimento del Giofrè nel contesto criminoso associato – può esser
fronteggiato soltanto con la misura custodiale, non essendo emerso alcun
elemento (diverso dall’incensuratezza e dalla prossima paternità) – neppure
dedotto in questa sede – che renda adeguata qualsivoglia misura gradata. Anche
quella domiciliare, che richiederebbe un’autodisciplina, in capo al ricorrente, allo
stato non ravvisabile alla luce del ruolo fondamentale ricoperto nel corpo
dell’associazione, che risulta ancora esistente e dalla quale il soggetto non pare
essersi dissociato; senza che, pertanto, appaia sufficiente – come
adeguatamente affermato dal Collegio di merito – lo stato di incensuratezza e
l’imminente paternità.
Orbene, anche in questo caso la doglianza proposta risulta molto generica,
atteso che – disattendendo del tutto le considerazioni che precedono, tamquam

non essent –

richiama soltanto un ruolo asseritamente marginale che il Giofrè

avrebbe ricoperto nell’associazione, e di mero ausilio con riguardo al reato ex
art. 390 cod. pen., in evidente contrasto con le condotte tenute, di ben altro
spessore, come descritte in modo analitico nell’ordinanza impugnata.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della
sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a
norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché
quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende,
equitativamente fissata in euro 1.000,00.
La Corte dispone, inoltre, che copia del presente provvedimento sia
trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario competente, a norma dell’art.
94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen..

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sicurezza dei suoi spostamenti»; 3) che, in forza di ciò, il pericolo di reiterazione

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Dispone che copia del presente provvedimento sia trasmessa al direttore
dell’istituto penitenziario competente, a norma dell’art. 94, comma

1-ter, disp.

att. cod. proc. pen..

Il Pres e te

Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2015

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