Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 4987 del 21/01/2015


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 4987 Anno 2015
Presidente: GENTILE MARIO
Relatore: ALMA MARCO MARIA

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
• CERAGIOLI Piero, nato a Massa il 7/9/1952
avverso la sentenza n. 828/2014 in data 26/2/2014 della Corte di Appello di
Genova
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita la relazione svolta dal consigliere dr. Marco Maria ALMA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.
Giulio ROMANO, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 26/2/2014 la Corte di Appello di Genova, provvedendo in sede
di rinvio disposto dalla Sesta Sezione della Corte di Cassazione con sentenza del
14/6/2013, ha escluso la pena pecuniaria comminata a CERAGIOLI Piero con la
sentenza del Tribunale di La Spezia in data 14/1/2008 ed ha confermato nel
resto la precedente decisione di merito.
Prima di proseguire oltre appare doveroso procedere ad una breve ricostruzione
dell’iter della vicenda processuale.
Il CERAGIOLI è chiamato a rispondere del reato di cui all’art. 12-sexies della I.
898/1970 (in riferimento all’art. 570, comma 2, cod. pen.) per avere omesso il
versamento della somma di € 300,00 mensili stabilita dal Tribunale civile con la

Data Udienza: 21/01/2015

sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio pronunciata in data
11/11/1997.
Il Tribunale di La Spezia in data 14/1/2008 lo ha aveva condannato per tale
reato alla pena di mesi 6 di reclusione ed C 600,00 di multa. Detta sentenza di
condanna veniva confermata dalla Corte di Appello di Genova 21/10/2011.
A seguito di ricorso in sede di legittimità, la Sesta Sezione Penale di questa Corte
Suprema, con la sentenza sopra citata ha annullato la decisione della Corte di
Appello del 21/10/2011 sotto due profili:

artigiano” lo stesso potesse avere percepito un reddito superiore a quello
dichiarato per l’anno 2003, situazione questa ritenuta frutto di un sillogismo
ritenuto manifestamente illogico;
b) il fatto che fosse stata comminata all’indagato un pena illegale, essendo state
inflitte al CERAGIOLI congiuntamente la pena detentiva e quella pecuniaria
mentre, come precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte Suprema il generico
richiamo effettuato dall’art. 12-sexies della legge n. 898/1970 all’art. 570 cod.
pen. deve intendersi riferito alle pene alternative previste dal comma primo di
quest’ultima disposizione.
La Corte di Appello, chiamata al giudizio in sede di rinvio, come detto ha
confermato la condanna dell’imputato limitandosi ad escludere la pena
pecuniaria comminata allo stesso.
Ricorre per Cassazione avverso la predetta sentenza l’imputato personalmente,
deducendo:
1. Contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione della sentenza in
ordine alla dedotta incapacità economica – Inosservanza e/o erronea
applicazione dell’art. 12-sexies della legge n. 898/1970.
Osserva, al riguardo, il ricorrente che i Giudici della Corte territoriale sarebbero
incorsi in un errore logico nel momento in cui hanno affermato, sulla base delle
testimonianze raccolte, che è emerso che l’imputato lavorava ancorché in modo
non continuativo il che dimostrerebbe che le sue condizioni economiche non gli
inibivano ogni attività lavorativa.
In realtà il fatto che ricorrente svolgeva saltuariamente piccoli lavori non può
essere utilizzato come elemento per stabilire la volontà dello stesso di non
ottemperare al mantenimento della ex moglie, ciò in quanto i redditi del
ricorrente sono a tal punto esigui da non consentirgli di provvedere al proprio
sostentamento tanto è vero che a ciò deve provvedere la propria figlia
CERAGIOLI Helga.

a) il fatto che i Giudici di merito avevano dato per possibile che “trattandosi di

L’immobile menzionato in sentenza sarebbe in realtà costituito da una quota di
nuda proprietà ereditata dal ricorrente, avente un valore del tutto irrisorio e del
quale lo stesso non poteva in alcun modo disporre disgiuntamente agli altri
eredi.
Per contro la parte civile, costituita in primo grado ed in appello, nonostante non
sia affetta da alcuna malattia invalidante, non ha mai svolto alcuna attività
lavorativa.

ordine alla presunta qualificazione del reato come continuato – Inosservanza e/o
erronea applicazione dell’art. 158 cod. pen.
Rileva, al riguardo, il ricorrente che la Corte di Appello ha erroneamente escluso
la prescrizione parziale del reato ritenendo che lo stesso non può qualificarsi
come continuato.
Infatti, secondo il ricorrente, fissare il momento di cessazione della permanenza
al momento della pronuncia della sentenza di primo grado violerebbe l’esclusiva
attribuzione al Pubblico Ministero dell’esercizio dell’azione penale nonché
l’obbligo di descrizione del fatto nel decreto che dispone il giudizio con grave
connpromissione del diritto di difesa.
Ritiene, pertanto, il ricorrente che il reato in contestazione era già prescritto
all’atto della pronuncia della sentenza della Corte di Appello.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Detto motivo di ricorso contiene infatti delle mere asserzioni di fatto (quali quelle
della situazione reddituale dell’imputato o dell’immobile del quale ha avuto la
disponibilità) che non risultano supportate da alcun elemento probatorio o
documentale sottoposto a questa Corte.
In proposito, può ritenersi ormai consolidato, nella giurisprudenza di legittimità,
il principio della c.d. “autosufficienza del ricorso”, inizialmente elaborato dalle
Sezioni civili di questa Corte Suprema, con la conseguenza che, quando la
doglianza abbia riguardo a specifici atti processuali, la cui compiuta valutazione
si assume essere stata omessa o travisata, è onere del ricorrente suffragare la
validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale
contenuto degli atti specificamente indicati (ovviamente nei limiti di quanto era
stato già dedotto in precedenza), posto che anche in sede penale – in virtù del
principio di autosufficienza del ricorso come sopra formulato e richiamato – deve
ritenersi precluso a questa Corte l’esame diretto degli atti del processo, a meno

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2. Contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione della sentenza in

che il fumus del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione
del ricorso» (Sez. I, sentenza n. 16706 del 18 marzo – 22 aprile 2008, CED Cass.
n. 240123; Sez. I, sentenza n. 6112 del 22 gennaio – 12 febbraio 2009, CED
Cass. n. 243225; Sez. V, sentenza n. 11910 del 22 gennaio – 26 marzo 2010,
CED Cass. n. 246552, per la quale è inammissibile il ricorso per cassazione che
deduca il vizio di manifesta illogicità della motivazione e, pur richiamando atti
specificamente indicati, non contenga la loro integrale trascrizione o allegazione
e non ne illustri adeguatamente il contenuto, così da rendere lo stesso

29263 dell’ 8 – 26 luglio 2010, CED Cass. n. 248192, per la quale il ricorso per
cassazione che denuncia il vizio di motivazione deve contenere, a pena di
inammissibilità e in forza del principio di autosufficienza, le argomentazioni
logiche e giuridiche sottese alle censure rivolte alla valutazione degli elementi
probatori, e non può limitarsi a invitare la Corte alla lettura degli atti indicati, il
cui esame diretto è alla stessa precluso).
Deve, inoltre, osservarsi che il ricorrente, sotto il profilo del vizio di motivazione,
tenta in realtà di sottoporre a questa Corte un giudizio di merito, non consentito
anche dopo la Novella. La modifica normativa dell’articolo 606 cod. proc. pen.,
lett. e), di cui alla legge 20 febbraio 2006 n. 46 ha lasciato infatti inalterata la
natura del controllo demandato la corte di Cassazione, che può essere solo di
legittimità e non può estendersi ad una valutazione di merito.
Al giudice di legittimità resta tuttora preclusa – in sede di controllo della
motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e
valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché
ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Tale
modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del
fatto, mentre la Corte, anche nel quadro della nuova disciplina, è – e resta giudice della motivazione.
Nel caso di specie va anche ricordato che con riguardo alla decisione in ordine
all’odierno ricorrente ci si trova dinanzi ad una c.d. “doppia conforme” e cioè
doppia pronuncia di eguale segno per cui il vizio di travisamento della prova può
essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti
(con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è
stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione della motivazione
del provvedimento di secondo grado.

autosufficiente con riferimento alle relative doglianze; Sez. VI, sentenza n.

Il vizio di motivazione può infatti essere fatto valere solo nell’ipotesi in cui
l’impugnata decisione ha riformato quella di primo grado nei punti che in questa
sede ci occupano, non potendo, nel caso di c.d. “doppia conforme”, superarsi il
limite del “devolutum” con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il
giudice d’appello, per rispondere alle critiche dei motivi di gravame, abbia
richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (Cass.
Sez. 4, sent. n. 19710/2009, Rv. 243636; Sez. 1, sent. n. 24667/2007; Sez. 2,
sent. n. 5223/2007, Rv 236130).

probatorio già sottoposto al tribunale e, dopo aver preso atto delle censure
dell’appellante, è giunto, con riguardo alla posizione dell’imputato, alla medesima
conclusione della sentenza di primo grado esplicitando con una motivazione
congrua, logica e priva di contraddizioni le ragioni per le quali, tenuto conto delle
condizioni reddituali e lavorative del CERAGIOLI nonché dell’immobile dallo
stesso posseduto (cfr. pagg. 1 e 2 della sentenza impugnata) ha ritenuto
giustificata la condanna dello stesso.
2. Anche il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
La condotta attribuita all’imputato è di natura meramente omissiva: i Giudici
territoriali hanno dato atto che l’imputato non ha mai versato alla ex moglie la
somma mensile stabilita dal Tribunale di La Spezia con la sentenza di cessazione
degli effetti civili del matrimonio emessa in data 11/12/2007. La contestazione
contenuta nell’imputazione è una c.d. “contestazione aperta” nel senso che il
tempus commissi delicti è testualmente indicato come segue: “fatto commesso a
La Spezia e tuttora in corso”.
Correttamente la Corte di Appello ha ritenuto che ci si trova di fronte ad un’unica
condotta criminosa e non ad una serie di episodi in continuazione tra loro.
Per il resto è giurisprudenza consolidata di questa Corte Suprema ed applicabile
anche al reato in contestazione all’odierno ricorrente, quella alla quale anche
l’odierno Collegio ritiene di aderire secondo la quale “il reato di violazione degli
obblighi di assistenza familiare è reato permanente che si protrae unitariamente
per tutto il periodo in cui perdura l’omesso adempimento, con la conseguenza
che, anche con riferimento alla fase iniziale della condotta illecita, il termine di
prescrizione inizia a decorrere dalla cessazione della permanenza, coincidente
con il sopraggiunto pagamento o con l’accertamento della responsabilità nel
giudizio di primo grado” (cfr. ex ceteris Cass. Sez. 6, Sent. n. 51499 del
04/12/2013, dep. 19/12/2013, Rv. 258504).

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Nel caso in esame, invece, il giudice di appello ha esaminato lo stesso materiale

Ora, essendo intervenuta la sentenza di primo grado di condanna dell’imputato
in data 14/1/2008 il reato in contestazione non solo non era prescritto alla data
della sentenza in grado di appello ma non è prescritto neppure in data odierna.
Per le considerazioni or ora esposte, dunque, il ricorso deve essere dichiarato
inammissibile.
Segue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese del procedimento ed al pagamento a favore della Cassa delle

1.000,00 (mille) a titolo di sanzione pecuniaria.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di € 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma il giorno 21 gennaio 2015.

Ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma ritenuta equa di €

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