Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 49852 del 12/11/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 49852 Anno 2013
Presidente: FERRUA GIULIANA
Relatore: SABEONE GERARDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
DI MURO ANGELO N. IL 16/01/1963
DI MURO ANDREA N. IL 08/03/1988
avverso il decreto n. 8/2010 CORTE APPELLO di POTENZA, del
07/06/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GERARDO SABEONE ;
i- 41alA
lette/seAtite le conclusioni del PG Dott. 4A40 mL,
k J10

Uditi difensor Avv.;

(Ala,~4:

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Data Udienza: 12/11/2013

RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello di Potenza, con decreto del 7 giugno 2012, ha
rigettato l’appello e confermato i decreti del 17 marzo 2010 e 27 giugno 2011
Di Muro

Angelo, la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale con
obbligo di soggiorno nel Comune di residenza nonché quella reale del sequestro
e della confisca di quote societarie e beni aziendali, di beni immobili e mobili; con
i medesimi provvedimenti era stata disposta la confisca dei beni in sequestro non
solo nei confronti del suddetto Di Muro Angelo ma altresì nei confronti di Di
Muro Umberto e di DI Muro Andrea (figli del proposto),

quali terzi

intestatari dei beni.
2. Avverso tale ordinanza hanno proposto ricorso per cassazione Di Muro
Angelo e Di Muro Andrea lamentando:
a) in rito, la nullità del decreto di fissazione dell’udienza camerale per la
discussione della misura di prevenzione personale in quanto era stata omessa
qualsiasi indicazione relativa alla chiesta ed ottenuta applicazione della misura di
sicurezza personale nei confronti di Di Muro Angelo;
b) una violazione di legge, con riferimento alla motivazione per relationem
contenuta nel provvedimento della Corte territoriale;
c) l’erronea applicazione della legge, con particolare riferimento ad una
motivazione meramente apparente circa la sussistenza dei presupposti per
l’applicazione della misura di prevenzione personale e cioè l’attualità della
pericolosità sociale;
d) una violazione di legge, per avere il decreto impugnato confermato i
provvedimenti di sicurezza di natura reale anche nei confronti dei figli del
proposto.
3. Il Procuratore Generale presso questa Corte, nella sua requisitoria
scritta, ha chiesto l’inammissibilità dei ricorsi.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Pretestuoso è il primo motivo di ricorso.

1

con i quali il Tribunale di Potenza aveva applicato, nei confronti di

Con accertamento in fatto, incensurabile avanti questa Corte in quanto
congruamente motivato, si è affermato dai Giudici del merito che la proposta di
sottoposizione alla misura di sicurezza personale dell’odierno ricorrente gli fu
correttamente notificata (vedi provvedimento impugnato con riferimento, altresì,
al contenuto del provvedimento di primo grado).
Ciò vale, come correttamente osservato dal Procuratore Generale nella

sensi dell’articolo 181, comma 3 cod.proc.pen., che una corretta correlazione tra
accusa e decisione, avendo avuto il proposto conoscenza di tutti gli elementi di
fatto ascrittigli ed avendo potuto esercitare senza vincolo alcuno il proprio diritto
di difesa (v. di recente, Cass. Sez. I 25 febbraio 2009 n. 11494).
2. Questa Corte, quanto al secondo motivo, nel delineare i limiti di
legittimità della motivazione per relationem della sentenza di appello, ha avuto
modo di precisare che l’integrazione della motivazione tra le conformi sentenze di
primo e secondo grado sia possibile soltanto se nella sentenza d’appello sia
riscontrabile un nucleo essenziale di argomentazione, da cui possa desumersi
che il Giudice del secondo grado, dopo avere proceduto all’esame delle censure
dell’appellante, abbia fatto proprie le considerazioni svolte dal primo Giudice.
Più specificamente, l’ambito della necessaria autonoma motivazione del
Giudice d’appello risulta correlato alla qualità e alla consistenza delle censure
rivolte dall’appellante: se questi si limita alla mera riproposizione di questioni di
fatto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo Giudice,
oppure di questioni generiche, superflue o palesemente inconsistenti, il Giudice
dell’impugnazione ben può motivare per relazione e trascurare di esaminare
argomenti superflui, non pertinenti, generici o manifestamente infondati.
Quando, invece, le soluzioni adottate dal Giudice di primo grado siano
state specificamente censurate dall’appellante, sussiste il vizio di motivazione,
sindacabile ex articolo 606 cod.proc.pen., comma 1, lett. e), se il Giudice del
gravame si limiti a respingere tali censure e a richiamare la contestata
motivazione in termini apodittici o meramente ripetitivi, senza farsi carico di
argomentare sulla fallacia o inadeguatezza o non consistenza dei motivi di
impugnazione. (v. Cass. Sez. VI 12 giugno 2008 n. 35346).
Nella specie si è verificata l’ipotesi di legittima motivazione per relationem
a cagione della riproduzione, quali motivi dell’impugnazione, delle censure
proposte in prime cure ed a fronte della completezza della decisione del primo
Giudice; il tutto non senza considerare, con assorbente considerazione, che il
Giudice dell’appello si sia basato soprattutto sugli accertamenti di fatto contenuti
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sua requisitoria scritta, ad evidenziare sia una corretta vocatio in ius, sanata ai

nell’impugnata decisione e vi abbia sovrapposto le proprie logiche considerazioni
proprio in funzione delle doglianze degli appellanti.
3. Il ricorso di Di Muro Angelo con riferimento all’applicazione della
misura personale di prevenzione è manifestamente infondato.
Giova premettere come il sindacato di legittimità sui provvedimenti in
materia di prevenzione, in coerenza con la natura e la funzione del relativo

4, comma 11) e non si estenda al controllo dell’iter giustificativo della decisione,
a meno che questo sia del tutto mancante, nel qual caso ci sarebbe comunque
violazione di legge.
La riserva del ricorso in materia di prevenzione alla “violazione di legge”
non consente di dedurre il vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 606
cod.proc.pen. comma 1, lett. e), perché il motivo preveduto da tale norma si
riferisce all’articolo 192 cod.proc.pen., che disciplina la valutazione di prova del
fatto costitutivo di reato.
Come tale si tratta di motivo inconciliabile con il fine del procedimento
che, giurisdizionalizzato per affinità alla materia penale, ha ad oggetto quella
amministrativa di prevenire un pericolo per se stesso, cioè presunto per
“elementi di fatto”.
Il controllo di motivazione del provvedimento, perciò qualificato decreto,
consiste solo nella verifica di rispondenza degli elementi esaminati ai parametri
legali che, imposti da ciascuna norma per l’applicazione della singola misura,
sono vincolanti a differenza dei liberi criteri valutativi, autorizzati dall’articolo 192
per la prova del fatto costitutivo di reato.
Pertanto o il decreto offre elementi e ne trae inferenza secondo parametri
prestabiliti o la sua motivazione è solo apparente.
Nel primo caso non è censurabile, perché il motivo sfocia inevitabilmente
in una alternativa di merito.
Di qui la riserva del ricorso (v. Cass. Sez. V 8 aprile 2010 n. 19598).
Nella specie, il ricorrente, pur denunciando formalmente e soprattutto con
riferimento alla misura di prevenzione personale la violazione e l’erronea
applicazione di legge, in sostanza confuta, nell’illustrazione delle doglianze, la
motivazione del provvedimento impugnato, nella chiara prospettiva di
accreditare una diversa interpretazione delle circostanze di fatto emerse e di
togliere così valenza agli elementi posti a base del giudizio di pericolosità sociale
formulato e delle misure di prevenzione adottate.

3

procedimento, sia limitato alla sola violazione di legge (L. n. 1423 del 1956, art.

Il decreto impugnato è sorretto, viceversa, da un apparato argomentativo
corretto e correlato alle risultanze in atti, le quali sono state apprezzate e
valutate nel pieno rispetto di principi normativi esattamente interpretati e
applicati, sicché non è a parlarsi di motivazione mancante o apparente.
In diritto, appare opportuno, altresì, rammentare che il Giudice delle
leggi, sin dal 22 dicembre 1980, con la sentenza n. 177, dichiarò la illegittimità,

1423, art. 1, n. 3, nella parte in cui elencava tra i soggetti passibili delle misure
di prevenzione previste dalla legge medesima, coloro che, per le manifestazioni
cui avevano eventualmente dato luogo, davano fondato motivo di ritenere che
erano proclivi a delinquere.
Tanto per sottolineare che, in forza del regime risultante dall’intervento
della Corte Costituzionale, nel giudizio di prevenzione va categoricamente
esclusa la prognosi negativa in ordine alla proclività a commettere azioni
delittuose, dovendosi invece ancorare il relativo giudizio all’accertamento
dell’attualità di una apprezzabile pericolosità (v. da ultimo Cass. Sez. I 17
gennaio 2011 n. 5838).
Nella specie, il ricorrente è stato correttamente ritenuto socialmente
pericoloso sulla base, da un lato, delle condanne per reati in materia di
detenzione illegale di armi e di estorsione ma anche dall’appartenenza al clan
mafioso operante nel territorio del Vulture-Melfese e con riferimento a due
condanne per il delitto di cui all’articolo 416 bis cod.pen. emesse negli anni 1995
e 2005.
A ciò si aggiungono gli ulteriori elementi di fatto indicati alla pagina 6 del
provvedimento impugnato, relativi ad indagini per ulteriori gravissimi episodi
delittuosi nonché alla sua frequentazione con elementi di spicco della citata
consorteria territoriale.
A tal proposito, in diritto, l’indirizzo giurisprudenziale cui questo Collegio
intende dare continuità, è quello secondo il quale tra il procedimento di
prevenzione e il processo penale sussistono profonde differenze funzionali e
strutturali, essendo il secondo ricollegato ad un determinato fatto reato ed il
primo riferito a una valutazione di pericolosità, espressa mediante condotte che
non necessariamente costituiscono reato; sicché, la reciproca autonomia dei due
processi spiega gli interventi del legislatore per regolare i punti di possibile
interferenza, abbandonando originarie sovrapposizioni e, di seguito, regole
atipiche di pregiudizialità per pervenire, da ultimo, alla configurazione di ambiti
di totale autonomia.
4

per violazione dell’articolo 25 Cost., comma 3, della L. 27 dicembre 1956, n.

Da tale autonomia deriva che, nel procedimento di prevenzione, la prova
indiretta o indiziaria non deve essere dotata dei caratteri prescritti dall’articolo
192 codproc.pen., mentre le chiamate in correità o in reità, le quali devono
essere sorrette da riscontri esterni individualizzanti per giustificare la condanna,
non devono essere necessariamente munite di tale carattere ai fini
dell’accertamento della pericolosità (v. Cass. Sez. I 29 aprile 2011 n. 20160).

insegnamento di questa Corte secondo cui anche una pronuncia assolutoria e
irrevocabile non comporta l’automatica esclusione della pericolosità sociale,
quando la valutazione di tale requisito sia effettuata dal Giudice della
prevenzione in base ad elementi distinti, ancorché desumibili dai medesimi fatti
storici venuti in rilievo nella sentenza (v. Cass. Sez. V 8 maggio 2000 n. 2542 e
Sez. V 17 gennaio 2006 n. 9505).
In particolare, occorre considerare che il concetto di “appartenenza”
richiesto ai fini dell’applicazione della misura di prevenzione è più sfumato e
meno tecnico di quello di “partecipazione” occorrente al fini della commissione
del reato.
Quest’ultima richiede una presenza attiva nel sodalizio criminoso, laddove
la nozione più generica di “appartenenza” è comprensiva di ogni comportamento
che, pur non integrando gli estremi del reato di associazione di tipo mafioso, sia
funzionale agli interessi dei poteri criminali e costituisca una sorta di terreno
favorevole permeato di cultura mafiosa (v. Cass. Sez. H 21 febbraio 2012 n.
19943).
Questa differenza si ripercuote sul piano probatorio, graduando di minore
intensità e specificità il quadro sufficiente per giustificare l’applicazione di una
misura di prevenzione personale.
Nella specie i Giudici di merito si sono attenuti ai principi di diritto testè
illustrati, formulando un attento giudizio sulla pericolosità sociale del prevenuto,
che prescinde dalla pretesa vetustà dei fatti ascritti sul presupposto della natura
permanente del vincolo associativo in assenza di concreti elementi dai quali far
discendere l’accertamento dell’avvenuta cessazione dell’appartenenza alla
consorteria criminale.
4. Quanto alla misura patrimoniale nei confronti del ricorrente principale
giova premettere come la giurisprudenza di questa Corte Suprema abbia da
tempo condivisibilmente chiarito che, in tema di appartenenza a sodalizi mafiosi,
le disposizioni sulla confisca mirano a sottrarre all’indiziato tutti i beni che siano
frutto di attività illecite o ne costituiscono il reimpiego, senza distinguere se tali
5

In proposito, va ulteriormente richiamato e ribadito il costante

attività siano o no di tipo mafioso; con la conseguenza che è del tutto irrilevante
che nel provvedimento ablativo manchi la motivazione in ordine al nesso causale
fra presunta condotta mafiosa e illecito profitto, essendo sufficiente la
dimostrazione dell’illecita provenienza dei beni confiscati, qualunque essa sia (v.
da ultimo, Cass. Sez. H 27 marzo 2012 n. 27037).
Nel medesimo senso, si è più specificamente osservato che, sempre in

mirano a sottrarre alla disponibilità dell’indiziato di appartenenza a sodalizi di
tipo mafioso tutti i beni che siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il
reimpiego, senza distinguere se tali attività siano o meno di tipo mafioso, non
assume rilievo, nel provvedimento ablativo, l’assenza di motivazione in ordine al
nesso causale fra presunta condotta mafiosa ed illecito profitto, essendo
sufficiente la dimostrazione della illecita provenienza dei beni confiscati,
qualunque essa sia.
È certamente corretta, al riguardo, la motivazione del Giudice a quo che
ha fatto applicazione del testo novellato della L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 2ter.
Ed invero, ai sensi dell’anzidetta normativa, per la parte che qui interessa,
con l’applicazione della misura di prevenzione il Tribunale dispone la confisca dei
beni sequestrati di cui la persona, verso la quale è instaurato il procedimento,
non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta
persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi
titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte
sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere
frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego.
La chiara formulazione letterale della norma non consente dubbi in ordine
all’assoggettabilità a confisca sia dei beni il cui valore risulti sproporzionato alla
capacità reddituale del proposto sia dei beni che risultino essere frutto di attività
illecite o ne costituiscano il reimpiego.
Il perspicuo tenore letterale non consente una lettura combinata nel
senso, cioè, che il parametro della sproporzione debba coesistere con la rilevata
provenienza illecita degli stessi beni.
L’uso della congiunzione nonché, con riferimento a due distinte categorie
di beni suscettivi di ablazione (beni il cui valore sia sproporzionato e beni rispetto
ai quali sia positivamente accertato essere frutto di attività illecita ovvero
reimpiego), non lascia adito a dubbi di sorta in proposito.

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tema di misure di prevenzione patrimoniali, poiché le disposizioni sulla confisca

Il legislatore non ha prescritto per la confisca da prevenzione alcun nesso
di pertinenzialità con una determinata tipologia di illecito, ma ha consentito una
generalizzata apprensione di beni solo che sia accertato il presupposto della
pericolosità sociale del proposto, siccome appartenente ad organizzazione
delinquenziale, sulla base di un dato presuntivo che quei beni, in valore
sproporzionato, non siano stati legittimamente acquisiti.

consolidata interpretazione di questo Giudice di legittimità, che siano soggetti a
confisca anche i beni acquisiti dal proposto, direttamente od indirettamente, in
epoca antecedente a quella cui si riferisce l’accertamento della pericolosità,
purché risulti una delle condizioni anzidette, ossia la sproporzione rispetto al
reddito ovvero la prova della loro illecita provenienza da qualsivoglia tipologia di
reato (v. da ultimo la citata, Cass. Sez. V 21 aprile 2011 n. 27288).
È vero, dunque, che per dettato normativo la pericolosità sociale del
proposto finisce con l’estendersi al suo patrimonio; ciò in quanto l’accertata
appartenenza a consorteria organizzata riflette uno stile di vita la cui origine non
si è ritenuto che possa farsi coincidere con la data del riscontro giudiziario,
essendo, evidentemente, maturato per precise scelte esistenziali, anche in epoca
antecedente, sia pure non determinata.
Si tratta, certamente, di misura draconiana, la cui severità si giustifica,
però, in ragione delle precipue finalità della legislazione antimafia, e
specialmente dell’obiettivo strategico di colpire, anche con evidenti finalità
deterrenti, l’intero patrimonio, ove di ritenuta provenienza illecita, degli
appartenenti a consorterie criminali, posto che l’accumulo di ricchezza
costituisce, comunemente, la ragione primaria, se non esclusiva, di
quell’appartenenza.
Il limite di operatività della detta misura, che la rende compatibile con i
principi costituzionali, segnatamente con il rispetto del valore della proprietà
privata, presidiato dall’articolo 42 Cost., e con la normativa comunitaria, è
costituito dalla riconosciuta facoltà per il proposto di fornire la prova della
legittima provenienza dei suoi beni.
Il sistema resta così affidato alla dinamica di una presunzione, temperata,
nondimeno, dalla facoltà della controprova, che attribuisce al meccanismo
presuntivo la connotazione della relatività, rendendolo così del tutto legittimo nel
quadro di una interpretazione costituzionalmente orientata.

7

E per quanto riguarda il dato temporale, è ius receptum, alla stregua di

Nella specie i Giudici del merito, hanno chiaramente espresso il loro
motivato convincimento circa la sproporzione tra la capacità reddituale e
consistenza patrimoniale del proposto.
Né, per quanto dianzi espresso, il proposto si è peritato di dimostrare la
legittima provenienza dei beni oggetto della misura reale.
La decisione di merito non è, poi, tenuta a compiere un’analisi

dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche
attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in
modo logico ed adeguato, le ragioni del convincimento, dimostrando che ogni
fatto decisivo è stato tenuto presente, sì da potersi considerare implicitamente
disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate,
siano logicamente incompatibili con la decisione adottata.
Inoltre, nell’insegnamento consolidato di questa Corte e con riferimento
alla precedente revoca nell’anno 2001 di altra misura di sicurezza personale nei
confronti dell’odierno ricorrente, si osserva come una volta divenuta definitiva e
posta in esecuzione la misura personale, quella patrimoniale fa sì che i beni di
pertinenza del sottoposto siano considerati pericolosi per se stessi, in quanto
possibile strumento di sviluppo dell’attività criminosa, per cui non è possibile
eccepire a posteriori l’inesistenza pregressa o sopravvenuta della pericolosità
sociale, al fine di evitare l’applicazione delle misure patrimoniali (v. a partire da
Cass. Sez.Un. 3 luglio 1996 n. 18 fino a Sez. VI 12 gennaio 2012 n. 5022).
5. Con riferimento, invece, agli stretti familiari intestatari di beni, questa
Corte ha più volte affermato che nei confronti dei soggetti, rientranti nel novero
di quelli considerati dalla L. n. 575 del 1965, articolo 2 bis, comma 3,
separatamente da tutti gli altri terzi operi una fondata presunzione di essere solo
formalmente nell’effettiva disponibilità dei beni in testa al proposto, salvo
rigorosa e fondata prova contraria posta a carico dei predetti soggetti legati da
vincoli di parentela o di convivenza con detto proposto, essendo intuibilmente più
accentuato, in caso di titolarità dei beni in capo a costoro, il pericolo di una
intestazione meramente fittizia “a copertura” di quella concreta e reale in testa al
detto proposto raggiunto dalla misura di prevenzione personale.
Nel caso in cui, come nella fattispecie, i beni dei quali si intenda
dimostrare la disponibilità in capo al proposto, siano stati nella formale titolarità
del coniuge e dei parenti stretti (figli) del medesimo proposto, la disponibilità di
tali beni deve intendersi presunta in capo all’indiziato di appartenenza
all’associazione mafiosa, in quanto tali soggetti sono considerati separatamente
8

approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame

dagli altri terzi (L. n. 575 del 1965, art. 2 bis, comma 3), nei cui confronti,
invece devono risultare elementi di prova circa la disponibilità concreta dei beni
da parte dell’indiziato.
Infatti, il concetto di disponibilità non può ritenersi limitato alla mera
relazione naturalistica o di fatto con il bene, ma deve essere esteso, al pari della
nozione civilistica del possesso, a tutte quelle situazioni nelle quali il bene

costui eserciti il proprio potere su esso per il tramite di altri che pure ne godano
direttamente.
Questa Corte intende infine dare in subiecta materia per l’evidente
affinità, continuità alla giurisprudenza enucleata in tema di sequestro e confisca
antimafia ai sensi del D.L. 306/92 convertito nella L. 356/92 secondo la quale, al
fine di disporre la confisca conseguente a condanna per uno dei reati indicati
nella citata normativa, allorché sia provata l’esistenza di una sproporzione tra il
reddito dichiarato dal condannato o i proventi della sua attività economica e il
valore economico dei beni da confiscare e non risulti una giustificazione credibile
circa la provenienza di essi, è necessario, da un lato, che, ai fini della
“sproporzione”, i termini di raffronto dello squilibrio, oggetto di rigoroso
accertamento nella stima dei valori economici in gioco, siano fissati nel reddito
dichiarato o nelle attività economiche non al momento della misura rispetto a
tutti i beni presenti, ma nel momento dei singoli acquisti rispetto al valore dei
beni di volta in volta acquisiti, e, dall’altro, che la “giustificazione” credibile
consista nella prova della positiva liceità della loro provenienza e non in quella
negativa della loro non provenienza dal reato per cui è stata inflitta condanna (v.
a partire da Cass. Sez. Un. 17 dicembre 2003 n. 920 fino di recente a Sez. V 26
maggio 2011 n. 26041).
A tali principi si sono ispirati i Giudici dell’appello e la loro motivazione, da
un lato, è sufficientemente logica e d’altra parte non presenta violazioni di legge
tutelabili avanti questa Corte di legittimità.
6. Il ricorso redatto nell’interesse di

Di Muro Andrea deve essere

dichiarato inammissibile, in quanto non sottoscritto da procuratore speciale.
Nell’incarto processuale, infatti, non si rinviene alcuna procura speciale
che, d’altro canto non viene nemmeno allegata al ricorso.
Quanto al ricorso sottoscritto nell’interesse dei terzi interessati da un
difensore non munito di procura speciale va, al riguardo, confermato il pacifico
indirizzo di questa Corte secondo il quale, per i soggetti portatori di un interesse
meramente civilistico, come è il caso delle indicate ricorrenti, valga
9

medesimo ricada nella sfera degli interessi economici del soggetto, anche se

analogicamente la regola, espressamente menzionata dall’articolo 100
cod.proc.pen. per la parte civile, il responsabile civile e la persona civilmente
obbligata per la pena pecuniaria, secondo cui essi “stanno in giudizio col
ministero di un difensore munito di procura speciale”, al pari di quanto previsto
nel processo civile dall’articolo 83 cod.proc.civ.; mentre solo l’indagato o
imputato, che è assoggettato all’azione penale, sta in giudizio di persona, avendo

lege e che è titolare di un diritto di impugnazione in favore dell’assistito per il
solo fatto di rivestire la qualità di difensore, senza alcuna necessità di procura
speciale, imposta soltanto per i casi di atti riservati espressamente dalla legge
all’iniziativa personale dell’imputato; valendo la stessa regola per il soggetto
assoggettato a misure di prevenzione, estendendosi ad esso la posizione
dell’imputato (v. L. n. 1423 del 1956, art. 4, u.c.).
Invece, il terzo interessato, quali le suddette ricorrenti, al pari dei soggetti
considerati espressamente dall’articolo 100 cod.proc.pen., è portatore di interessi
civilistici, sicché anche esso, in conformità a quanto previsto per il processo civile
(articolo 83 cod.proc.civ.), non può stare personalmente in giudizio, ma ha un
onere di patrocinio, che è soddisfatto attraverso il conferimento di procura
speciale alle liti al difensore (v. da ultimo, Cass. Sez. I 20 gennaio 2011 n.
13798, Sez. III 20 ottobre 2011 n. 8942 e Sez. VI 23 ottobre 2012 n. 7510).
7. In definitiva, entrambi i ricorsi devono essere dichiarato inammissibili
con la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e di una
sanzione in favore della Cassa delle Ammende che appare equo determinare
nella somma di euro 1.000,00.
P.T. M.
La Corte, dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al
pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore
della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 12 novembre 2013.

solo necessità di munirsi di difensore che, oltre ad assisterlo, lo rappresenta ex

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