Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 49843 del 13/03/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 49843 Anno 2013
Presidente: BEVERE ANTONIO
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di
Gerbaudo Marco Andrea, nato a Cuneo 1’11/09/1968

avverso la sentenza emessa il 18/01/2012 dalla Corte di appello di Torino

visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Gioacchino Izzo, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito per il ricorrente l’Avv. Giampaolo Zancan, che ha concluso chiedendo
l’accoglimento del ricorso, e l’annullamento della sentenza impugnata

RITENUTO IN FATTO

1. Il 18/01/2012, la Corte di appello di Torino riformava parzialmente la
sentenza pronunciata dal G.u.p. del Tribunale di Cuneo il 04/11/2009 nei
confronti di Marco Andrea Gerbaudo, recante la condanna alla pena di anni 5 di

Data Udienza: 13/03/2013

reclusione (oltre che al pagamento delle spese processuali ed al risarcimento dei
danni lamentati dalla parte civile Cristina Cerea, con il riconoscimento di una
provvisionale), l’interdizione perpetua dell’imputato dai pubblici uffici e la revoca
di un provvedimento di indulto concessogli in precedenza ai sensi della legge n.
241 del 2006. I fatti si riferivano ad addebiti di lesioni pluriaggravate, in ipotesi
commessi il 12/04/2007, che il Gerbaudo aveva cagionato alla sua allora
convivente, colpendola con calci, pugni e spintoni sino a farla cadere da una
finestra della comune abitazione, da un’altezza di circa 3 metri.

equivalenti alle aggravanti ed alla recidiva contestate, riducendo così la pena ad
anni 2 di reclusione: eliminava quindi la condanna alla pena accessoria anzidetta
nonché, preso atto dell’intervenuta revoca della costituzione di parte civile, le
statuizioni civili.
Sulla ricostruzione del fatto, la Corte territoriale disattendeva le doglianze
dell’appellante circa la presunta impossibilità di provare che il Gerbaudo avesse
provocato la caduta della Cerea (caduta da cui erano derivate le lesioni di
maggiore gravità): pur evidenziando che non vi era certezza sulla effettiva
dinamica dell’accaduto, in particolare se la donna fosse stata spinta dal
prevenuto, i giudici di secondo grado ritenevano comunque che l’essere ella
precipitata dall’alto fosse «in relazione causale e psicologica con le condotte
poste in essere da Gerbaudo nei minuti immediatamente precedenti».
L’imputato aveva infatti ripetutamente colpito la convivente a seguito di un litigio
occasionato da motivi di gelosia, percuotendola a più riprese e impedendole di
uscire dalla camera dove si trovava, nel contempo minacciandola e rompendo
vari oggetti che le appartenevano: perciò, vuoi che avesse proseguito nell’azione
aggressiva con ulteriori spintonamenti, vuoi che avesse procurato alla Cerea uno
stato di forte timore sino a portarla a fuggire da lui, cadendo poi per una perdita
di equilibrio o per un maldestro tentativo di calarsi in strada, il comportamento
dell’uomo era stato sicuramente un antecedente causale dell’evento verificatosi.
La Corte territoriale segnalava in particolare che «il rapporto di causalità fra le
condotte violente di Gerbaudo e il verificarsi degli eventi lesivi, provocati
dall’urto fra gli arti della Cerea e il selciato del cortile sottostante l’abitazione,
non è […] interrotto dalla presenza di un fatto sopravvenuto che, per la sua
eccezionalità e imprevedibilità, possa essere considerato causa esclusiva degli
eventi lesivi: è infatti normale che una persona, duramente percossa, privata
della libertà personale e sconvolta dalla condotta violenta di un convivente,
reagisca ponendo in essere gesti disperati o cerchi di sottrarsi ad ulteriori
violenze agendo in maniera avventata».

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La Corte di appello riconosceva al Gerbaudo circostanze attenuanti generiche

In punto di elemento soggettivo, la Corte di appello di Torino riteneva che
fosse in ogni caso configurabile il dolo, giacché – pure nell’ipotesi più favorevole
all’imputato, e cioè qualora egli non avesse fisicamente provocato la caduta della
donna – doveva intendersi sussistente almeno il dolo eventuale, «configurabile
tutte le volte in cui un soggetto priva della libertà un’altra persona o mediante
condotte violente ne determina uno stato di costrizione e sofferenza, e quindi
accetta il rischio che quella, per sottrarsi a tale condizione, possa riportare un
danno».

ridurre poi per la scelta del rito abbreviato, era motivata dai giudici di merito
richiamando «la brutalità delle condotte poste in essere dal prevenuto,

il

rapporto di convivenza esistente con la vittima, la rilevante entità dei danni
all’integrità fisica della stessa provocati dall’azione, la tardività del risarcimento,
l’esistenza di precedenti specifici».

2. Propone ricorso il difensore del Gerbaudo, deducendo due motivi.
2.1 Con il primo, la difesa lamenta contraddittorietà della motivazione nella
parte in cui la Corte di appello dà contezza dell’impossibilità di pervenire ad una
certa ricostruzione dei fatti, ma al contempo ritiene che l’imputato avrebbe
quanto meno posto in essere un minaccioso inseguimento della persona offesa
sino in prossimità della finestra da cui quest’ultima cadde, evenienza
rappresentata dalla Cerea in una delle sue versioni ma contraddetta da quelle
ulteriori e dunque immeritevole di fede.
2.2 Con il secondo motivo, il ricorrente si duole ancora di contraddittorietà
della motivazione della sentenza impugnata, laddove viene ammessa l’ipotesi del
dolo eventuale, al contempo determinando però la pena base nel massimo
edittale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non può trovare accoglimento.
1.1 Quanto al primo motivo, è evidente che gli argomenti utilizzati dal
difensore dell’imputato tendono a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti che
riguardano la ricostruzione del fatto e l’apprezzamento del materiale probatorio,
da riservare alla esclusiva competenza del giudice di merito e già adeguatamente
valutati sia in primo che in secondo grado.
Sino alla novella introdotta con la legge n. 46 del 2006, la giurisprudenza di
questa Corte affermava pacificamente che al giudice di legittimità deve ritenersi

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La quantificazione della pena nel massimo edittale ex art. 582 cod. pen., da

preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione
impugnata e l’autonoma adozione di nuovi o diversi parametri di ricostruzione e
valutazione dei fatti, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore
capacità esplicativa, dovendo soltanto controllare se la motivazione della
sentenza di merito fosse intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e
spiegare l’iter logico seguito. Quindi, non potevano avere rilevanza le censure
che si limitavano ad offrire una lettura alternativa delle risultanze probatorie, e la
verifica della correttezza e completezza della motivazione non poteva essere

«non deve accertare se la decisione di merito propone la migliore ricostruzione
dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma limitarsi a verificare se
questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una
plausibile opinabilità di apprezzamento» (v., ex plurimis, Cass., Sez. IV, n. 4842
del 02/12/2003, Elia).
I parametri di valutazione possono dirsi solo parzialmente mutati per effetto
delle modifiche apportate agli artt. 533 e 606 cod. proc. pen. con la ricordata
novella: in linea di principio, questa Corte potrebbe infatti ravvisare un vizio
rilevante in termini di inosservanza di legge processuale, e per converso in
termini di manifesta illogicità della motivazione, laddove si rappresenti che le
risultanze processuali avrebbero in effetti consentito una ricostruzione dei fatti
alternativa rispetto a quella fatta propria dai giudici di merito, purché tale
diversa ricostruzione abbia appunto maggior spessore sul piano logico
(realizzando così il presupposto del “ragionevole dubbio” ostativo ad una
pronuncia di condanna).
Si è peraltro più volte ribadito che anche all’esito della suddetta riforma «gli
aspetti del giudizio che consistono nella valutazione e nell’apprezzamento del
significato degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono
rilevanti nel giudizio di legittimità se non quando risulti viziato il discorso
giustificativo sulla loro capacità dimostrativa e […], pertanto, restano
inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano nella sostanza rivolte a
sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio» (Cass., Sez. V, n.
8094 dell’11/01/2007, Ienco, Rv 236540). E, proprio con riguardo al principio
dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, si è da ultimo precisato che esso non ha
comunque inciso sulla natura del sindacato della Corte di Cassazione in punto di
motivazione della sentenza e non può, quindi, «essere utilizzato per valorizzare e
rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto,
eventualmente emerse in sede di merito e segnalate dalla difesa, una volta che
tale duplicità sia stata oggetto di attenta disamina da parte del giudice
dell’appello» (Cass., Sez. V, n. 10411 del 28/01/2013, Viola, Rv 254579).

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confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite: la Corte, infatti,

Nella fattispecie oggi in esame, al contrario, la difesa punta proprio a far
rivalutare a questa Corte le emergenze istruttorie, occupandosi soltanto degli
elementi di fatto a dispetto della dedotta sussistenza di vizi ex art. 606 lett. e)
cod. proc. pen. Si deve osservare, infatti, che l’evenienza secondo cui il
Gerbaudo inseguì la Cerea sino al davanzale della finestra da cui costei cadde
viene indicata dai giudici di appello come quella minima, rispetto alle altre
possibili che imporrebbero di qualificare la condotta dell’imputato in termini di
maggiore gravità: si tratta dunque di una opzione che la Corte territoriale ha

penale – l’ipotesi che risulta meno gravosa per il reo, in punto di ricostruzione
dell’intensità del dolo.
Né si rileva alcuna contraddittorietà della motivazione della sentenza
impugnata, laddove i giudici di appello assumono esservi nesso eziologico fra la
condotta dell’imputato e le lesioni riportate dalla donna, ivi comprese quelle
conseguenti alla caduta; a pag. 18, viene infatti spiegato che «il rapporto di
causalità fra le condotte violente di Gerbaudo e il verificarsi degli eventi lesivi,
provocati dall’urto fra gli arti della Cerea e il selciato del cortile sottostante
all’abitazione, non è quindi interrotto dalla presenza di un fatto sopravvenuto
che, per la sua eccezionalità ed imprevedibilità, possa essere considerato causa
esclusiva degli eventi lesivi: è infatti normale che una persona, duramente
percossa, privata della libertà personale e sconvolta dalla condotta violenta di un
convivente, reagisca ponendo in essere gesti disperati o cerchi di sottrarsi ad
ulteriori violenze agendo in maniera avventata».

Ergo,

nel percorso

argomentativo della Corte territoriale si distinguono chiaramente le lesioni che
l’imputato aveva direttamente cagionato alla persona offesa («duramente
percossa») e quelle derivate dalla caduta successiva, per il cui verificarsi non era
intervenuto alcun fattore ulteriore e dotato di forza causale esclusiva rispetto alla
condotta violenta del Gerbaudo.
1.2 Infondata è la censura formulata con il secondo motivo di ricorso: come
sopra rilevato riportando lo specifico passo della motivazione adottata, la Corte
di appello ha infatti congruamente esposto le ragioni che rendevano necessario
ancorare il trattamento sanzionatorio sui massimi edittali; fra l’altro, vengono
evocati fattori non immanenti all’addebito – come l’esistenza di precedenti
specifici – che certamente consentivano di individuare una pena base elevata, a
prescindere dalla possibilità di ravvisare in concreto, sul piano dell’elemento
soggettivo, solo una ipotesi di dolo eventuale.
Del resto, deve ricordarsi che la graduazione della pena rientra nella
discrezionalità del giudice di merito, il quale la esercita, così come per fissare la
pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen..,

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esercitato formulando – in ossequio ai principi generali che informano il sistema

sicché è inammissibile la censura che, nel giudizio di legittimità, miri ad una
nuova valutazione della congruità della pena (v. Cass., Sez. III, n. 1182 del
17/10/2007, Cilia).

2. Il rigetto del ricorso comporta la condanna del Gerbaudo al pagamento
delle spese del presente giudizio di legittimità.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 13/03/2013.

P. Q. M.

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