Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 49836 del 07/12/2015


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 49836 Anno 2015
Presidente: D’ISA CLAUDIO
Relatore: MONTAGNI ANDREA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
BEQIRI IZET N. IL 05/04/1968
avverso l’ordinanza n. 1193/2014 CORTE APPELLO di ROMA, del
29/12/2014
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ANDREA MONTAGNI;
lette/set4ite-le conclusioni del PG Dott. ” -t.2.,11 t” tzi,,0

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Uditi dif sor Avv.;

Data Udienza: 07/12/2015

Ritenuto in fatto
1. Beqiri Izet, a mezzo del difensore, ha proposto ricorso per cassazione
avverso l’ordinanza della Corte di Appello di Roma in data 29.12.2014, con la quale
è stata rigettata l’istanza di restituzione nel termine, ex art. 175, cod. proc. pen.
L’esponente si sofferma in primo luogo sulle circostanze di fatto relative alla
posizione del Beqiri, osservando che il prevenuto ebbe ad evadere nel mese di
ottobre del 1999, per recarsi in Kosovo, Paese teatro di un conflitto bellico.
Osserva che il prevenuto era assistito da due difensori di fiducia, che hanno

Ciò posto, l’esponente invoca l’operatività della disciplina che consente al
condannato in contumacia, di ottenere la restituzione nel termine; ed osserva che
non può ritenersi sussistente la volontaria assenza dal processo, sulla base della
semplice conoscenza della apertura di un procedimento penale a carico
dell’esponente e che occorre, di converso, la dichiarazione di contumacia.
2.

Il Procuratore Generale, con requisitoria scritta, ha chiesto che la

Suprema Corte annulli l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame. Al
riguardo, osserva che il prevenuto evase per recarsi in zona di guerra; considera
tale evenienza indicativa della interruzione dei rapporti intercorrenti tra l’istante ed i
propri difensori di fiducia; e sottolinea che la nomina dei difensori di fiducia, nel
caso, è antecedente rispetto alla dichiarazione di contumacia.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato.
La valutazione espressa dalla Corte di Appello di Roma, con l’ordinanza oggi
impugnata, è immune dalle dedotte censure.
Esaminando l’art. 175, comma 2, cod. proc. pen., è bene ricordare che si
tratta di una norma che nasce originariamente come misura ripristinatoria, per
garantire al contumace inconsapevole la possibilità di esercitare adeguatamente il
suo diritto di difesa in giudizio. Come noto, tenendo conto delle indicazioni espresse
dalla giurisprudenza della Corte EDU, il legislatore ha modificato la formulazione
dell’art. 175 cod. proc. pen., con il di. 21 febbraio 2005, n. 17, conv. con
modificazioni dalla L. 22 aprile 2005, n. 60, dettando le seguenti regole: a) il
contumace non deve più provare l’inconsapevolezza dell’esistenza del procedimento
o del provvedimento, per la cui impugnazione chiede di essere rimesso in termini,
con la conseguenza che l’onere della prova ricade su chi sostenga invece la
consapevolezza; b) il termine per la richiesta è aumentato a trenta giorni dalla
conoscenza dell’atto; c) non è riprodotta l’esplicita preclusione ad una restituzione
dell’imputato, nel termine per impugnare, in caso di impugnazione già proposta dal
difensore. Il legislatore aveva, dunque introdotto un ampliamento delle ipotesi in
cui era ammessa l’impugnazione tardiva della sentenza contumaciale, sostituendo

coltivato tutte le impugnazioni esperibili.

alla prova della non conoscenza del procedimento – che in precedenza doveva
essere fornita dal condannato – una sorta di presunzione iuris tantum di non
conoscenza (Cass. Sez. 1, n. 16002 del 06/04/2006, Latovic, Rv. 233615), ponendo
a carico del giudice l’onere di reperire negli atti l’eventuale prova in contrario e, più
in generale, l’onere di effettuare tutte le verifiche occorrenti, al fine di accertare se
il condannato avesse avuto effettiva conoscenza del procedimento e avesse
volontariamente rinunciato a comparire. Tale norma è stata oggetto di una

2009) che, alla luce dei parametri di cui all’art. 117, comma 1 – in relazione all’art.
6 CEDU, quale interpretato dalla Corte di Strasburgo – art. 24 Cost. e art. 111
Cost., comma 1, ne ha dichiarato la illegittimità costituzionale, nella parte in cui
non consentiva la restituzione dell’imputato, che non avesse avuto effettiva
conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre
impugnazione contro la sentenza contumaciale, nel concorso delle ulteriori
condizioni indicate dalla legge, quando analoga impugnazione fosse stata proposta
in precedenza dal difensore dello stesso imputato.
Attualmente l’art. 175 cod. proc. pen., comma 2, risulta poi modificato ad
opera della Legge n. 67 del 2014. La disciplina della restituzione in termini è stata,
sino a tale ultima modifica, uniforme con riguardo alla sentenza contumaciale ed al
decreto penale di condanna e gli interventi del legislatore e della Consulta hanno
interessato, con decisiva prevalenza, le ricadute della disciplina originaria sul
processo contumaciale, che ha costituito l’elemento trainante sia delle censure
mosse al sistema italiano dalla CEDU, sia delle conseguenti modifiche normative
che delle pronunce d’incostituzionalità della norma.
Giova pure richiamare – in considerazione dello specifico tema di diritto oggi
devoluto all’esame di questa Corte – l’orientamento espresso dalla più recente
giurisprudenza di legittimità, in base al quale si è evidenziato che, ai fini della
dichiarazione di latitanza, la completezza delle ricerche deve essere valutata non
con riferimento a parametri prefissati, ma avendo presente le concrete evenienze di
fatto, e, in particolare, la connotazione dell’attività criminosa e la condizione
personale del soggetto agente; con la conseguenza che non è in ogni caso
necessario estendere gli accertamenti all’estero, nei luoghi indicati dall’art. 169,
comma quarto, cod. proc. pen. (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 47528 del 13/11/2013,
dep. 29/11/2013, Rv. 257279).
Deve poi considerarsi che, sul tema di interesse, sono da ultimo intervenute
le Sezioni Unite della Corte regolatrice, le quali hanno chiarito che, ai fini della
dichiarazione di latitanza, tenuto conto delle differenze che non rendono compatibili
tale condizione con quella della irreperibilità, le ricerche effettuate dalla polizia
giudiziaria ai sensi dell’art. 295 cod. proc. pen. – pur dovendo essere tali da
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pronuncia additiva della Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 317 del 4 dicembre

risultare esaustive al duplice scopo di consentire al giudice di valutare l’impossibilità
di procedere alla esecuzione della misura per il mancato rintraccio dell’imputato e la
volontaria sottrazione di quest’ultimo alla esecuzione della misura emessa nei suoi
confronti – non devono necessariamente comprendere quelle nei luoghi specificati
dal codice di rito, ai fini della dichiarazione di irreperibilità e, di conseguenza,
neanche le ricerche all’estero quando ricorrano le condizioni previste dall’art. 169,
comma quarto, dello stesso codice (Cass. Sez. U, Sentenza n. 18822 del

citata, hanno osservato che occorre soddisfare l’esigenza di evitare procedimenti

in

absentia che si presentino, in concreto, di dubbia compatibilità con i valori del
giusto processo tracciati tanto dall’art. 111 Cost. che dalla giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’uomo. Ed hanno sottolineato la necessaria rigorosità
che deve orientare il sindacato giurisdizionale volto ad accertare l’esistenza dei
presupposti per la declaratoria di latitanza. Ciò posto, il supremo consesso ha
osservato che gli artt. 295 e 296 del codice di rito, individuano alcuni snodi di
significativa pregnanza. In tale ambito, si è richiamato l’art. 295, comma 1, cod.
proc. pen., ove è stabilito, anzitutto, che, se la persona nei confronti della quale è
stata disposta la misura non viene “rintracciata” e non è possibile procedere agli
adempimenti di cui all’art. 293, l’ufficiale o l’agente di polizia giudiziaria redige
ugualmente il verbale, “indicando specificamente le indagini svolte”; e si è precisato
che si tratta di una attività composita, che passa da una fase di tipo constatativo – il
mancato “rintraccio” – ad una di tipo squisitamente investigativo, che può anche
assumere caratteri di notevole complessità. Nel procedere alla ricostruzione
dell’istituto, le Sezioni Unite hanno quindi considerato che delle indagini svolte deve
essere fornita indicazione “specifica” nel relativo verbale, dal momento che è
proprio dalla analitica rassegna degli accertamenti che può apprezzarsi il “merito”
delle scelte compiute dalla polizia giudiziaria e della impossibilità di battere altre
strade che possano condurre alla cattura del latitante. Le Sezioni Unite hanno
chiarito che tra il verbale di vane ricerche e la dichiarazione di latitanza si inserisce
il sindacato del giudice, senza che vi sia alcun automatismo tra gli esiti negativi
delle prime e la “ratifica” giurisdizionale che quella declaratoria comporta: lo stato
di latitanza, infatti, è dichiarato soltanto se il giudice ritenga “le ricerche esaurienti”.
E si è precisato che si tratta di una esaustività investigativa, che deve essere
concretamente misurata in una duplice e concorrente prospettiva: da un lato, le
indagini svolte per pervenire al rintraccio del latitante devono essere tali da
escludere possibilità ulteriori ai fini della esecuzione della misura, rendendo quindi
evidente che, laddove sussistano concreti elementi che indichino un preciso luogo di
rifugio all’estero del soggetto, gli strumenti di cooperazione internazionale di polizia
non possono non essere attivati; dall’altro, le ricerche e le correlative indagini
4

27/03/2014, dep. 07/05/2014, Rv. 258792). Le Sezioni Unite, nella sentenza ora

devono consentire al giudice di affermare la sussistenza del presupposto della
volontaria sottrazione alla esecuzione della misura, giacché, altrimenti, la
declaratoria di latitanza risulterebbe priva dell’accertamento “sostanziale” che
qualifica la condizione normativa di quello status. Le Sezioni Unite hanno quindi
considerato che, ove non risulti positivamente riscontrata la completezza delle
ricerche, nella duplice prospettiva ora richiamata, il giudice è chiamato a disporre
ulteriori accertamenti; e che, in tale contesto, vengono in rilievo le peculiarità che
possono caratterizzare le singole vicende, fra le quali – anche e forse soprattutto –

Le Sezioni Unite hanno pertanto affermato il seguente principio di diritto, che deve
in questa sede ribadirsi:

“Tenuto conto delle differenze che rendono non

comparabili fra loro la condizione della irreperibilità e quella della latitanza, le
ricerche effettuate dalla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 295 cod. proc. pen. non
devono necessariamente comprendere quelle nei luoghi specificati dal codice di rito
ai fini della dichiarazione di irreperibilità e, di conseguenza, anche le ricerche
all’estero quando ricorrano le condizioni previste dall’art. 169, comma 4, dello
stesso codice. La polizia giudiziaria, tuttavia, deve compiere le ricerche e svolgere
le relative indagini in modo tale che le stesse risultino esaustive al duplice scopo di
consentire al giudice di valutare, in sede di adozione del decreto di latitanza, da un
lato, l’impossibilità di procedere alla esecuzione della misura custodiate per
l’assenza di ulteriori elementi che consentano di pervenire al rintraccio
dell’imputato, e, dall’altro, la volontarietà del ricercato di sottrarsi alla esecuzione
della misura emessa nei suoi confronti. Con la conseguenza che, ove dalle indagini
emergano concreti elementi che denotino la presenza in un determinati luogo
all’estero della persona ricercata, la polizia giudiziaria sarà chiamata ad attivare gli
strumenti di cooperazione internazionale, atti a consentire il rintraccio
dell’imputato, in vista della eventuale instaurazione del procedimento di consegna
attraverso i canali della collaborazione giudiziaria”.
2. E bene, la valutazione espressa dalla Corte di Appello, con l’ordinanza
oggi impugnata, si colloca, del tutto coerentemente, nell’alveo dei principi ora
sinteticamente richiamati.
Invero, il Collegio ha del tutto correttamente valorizzato la circostanza di
fatto data dalla intervenuta evasione del Beqiri, nel corso del procedimento penale
a suo carico. Segnatamente, la Corte territoriale ha evidenziato: che Beqiri
comparve per il giudizio avanti al Tribunale di Roma in stato di custodia cautelare in
carcere; che nel corso del procedimento l’estrema misura cautelare venne sostituita
con quella degli arresti domiciliari; che l’imputato, in data 3.10.1999, si sottrasse al
regime degli arresti domiciliari, facendo perdere le proprie tracce; che, in seguito a
tali evenienze, intervenne la dichiarazione di latitanza; che il processo di primo
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le condizioni personali del ricercato, rispetto alla declaratoria dello stato di latitanza.

grado si concluse con la condanna dell’imputato “latitante e contumace”; e che i
difensori dell’imputato promossero le successive fasi del giudizio, sino al rigetto, da
parte della Suprema Corte, in data 2.12.2002, del ricorso proposto avverso la
sentenza di Appello.
Sulla scorta di tali rilievi, la Corte di Appello ha quindi del tutto logicamente
evidenziato che non risultava rievocabile in dubbio l’intervenuta volontaria
sottrazione dell’imputato alla esecuzione della misura cautelare in atto nei suoi

principi che presiedono all’accertamento della effettiva conoscenza del processo a
suo carico, da parte dell’imputato, posto che, nel caso, vi era stata una volontaria
sottrazione al regime cautelare gradato, applicato in costanza di processo, come
chiarito; e tenuto pure conto del fatto che i due difensori di fiducia, nel coltivare il
mandato difensivo in tutti i gradi di giudizio, non avevano altrimenti rappresentato
all’autorità giudiziaria l’intervenuta interruzione del rapporto con il proprio assistito.
A questo punto della trattazione, preme allora conclusivamente sottolineare
che i rilievi svolti dalla Corte di Appello trovano specifico e puntuale riscontro in
recenti arresti giurisprudenziali, relativi al caso di imputato contumace che abbia
nominato, come nella fattispecie che occupa, un difensore di fiducia. La Corte
regolatrice ha infatti chiarito che non ha diritto alla restituzione nel termine per
l’impugnazione della sentenza l’imputato contumace che abbia nominato un
difensore di fiducia, il quale lo abbia assistito nello svolgimento di tutti i gradi del
giudizio, proponendo le relative impugnazioni, a meno che non risulti un’esplicita
comunicazione al giudice dell’avvenuta interruzione di ogni rapporto tra il difensore
ed

il

suo assistito (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 5332 del 21/01/2011,

dep. 11/02/2011, Rv. 249466).
3. Al rigetto del ricorso, che si impone, segue la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma in data 7 dicembre 2015.

confronti; e che la fattispecie di giudizio non era perciò regolabile sulla base dei

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