Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 49833 del 22/11/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 49833 Anno 2013
Presidente: CAMMINO MATILDE
Relatore: DI MARZIO FABRIZIO

SENTENZA
Sul ricorso proposto da Rollino Giuseppe, nato il 7.8.1956; Erbetti Sabato,
nato il 18.4.1981; D’Urso Gianluca, nato il 26.10.1974; D’Urso Pietrantonio,
nato il 23.5.1960,avverso la sentenza della Corte di Appello diNapoli del
3.12.2012.Sentita la relazione della causa fatta dal consigliere Fabrizio Di
Marzio; udita la requisitoria del sostituto procuratore generale Gianluigi
Pratola, il quale ha concluso chiedendo che i ricorsi siano rigettati; udito il
difensore degli imputati D’Urso Gianluca e D’Urso Pietrantonio, avv.
Alessandro Marino,i1 quale insiste per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Napoli ha confermato la
sentenza del Tribunale della medesima città in data 12 ottobre 2011 di
condanna degli odierni imputati per i delittiloro ascritti, procedendo a ridurre
le pene inflitte.
Nel ricorso presentato nell’interesse di D’Urso Gianluca e D’Urso Pietrantonio

Data Udienza: 22/11/2013

si contesta in primo luogo violazione di legge in relazione agli artt. 468,191 e
507 cod. proc. pen. rilevando come le sentenze di condanna si fondino sulle
deposizioni rese dai testimoni della pubblica accusa, come quest’ultima abbia
presentato la propria lista testimoniale oltre il termine stabilito dall’art. 468
cod. proc. pen.; come, nonostante l’inammissibilità della richiesta, le prove
testimoniali siano state assunte; e come nonostante la conseguente
inutilizzabilità di dette prove, le stesse siano state poste a base della decisione

Corte territoriale abbia ritenuto legittimo l’operato del Tribunale sul rilievo che
non si sarebbe verificata nessuna ipotesi di nullità (ma la difesa aveva
eccepito la mera inutilizzabilità delle prove acquisite), oltre che sulla
considerazione della legittimità di tali prove testimoniali essendo sempre nel
potere del giudice di disporre acquisizione d’ufficio ai sensi dell’art. 507 cod.
proc. pen. (ma la difesa osserva come non risulta agli atti che tale potere sia
stato mai esercitato dal Tribunale).
Gli imputati lamentano inoltre violazione degli articoli 197 e 197 bis, 210,371
20 comma lett. B cod. proc. pen. rilevando che la decisione del Tribunale,
confermata dalla Corte di appello, si fonda ampiamente sulla deposizione della
persona offesa, la quale tuttavia è stata ascoltata in veste di semplice
testimone e non quale persona indagata o imputata in un procedimento
connesso o collegato (e dunque con le modalità e le garanzie in tal caso
imperativamente prescritte dal cod. proc. pen.); dal che deriverebbe la
inutilizzabilità delle dichiarazioni rese. Nel ricorso si critica l’argomento svolto
dalla Corte di appello secondo cui non risulterebbe, agli atti, nessuna
allegazione da parte degli imputati circa incolpazioni o imputazioni della
persona offesa relativamente a procedimenti connessi o collegati al presente:
si osserva infatti come non sarebbe onere dell’interessato di dimostrare tale
/
(
condizione del dichiarante ma, molto diversamente, dovere del giudice di
accertare le qualità e le condizioni del teste onde stabilire lo specifico regime
legale di assunzione della prova.
In un ulteriore motivo si critica il merito della decisione, siccome ampiamente
basata sulle dichiarazioni rese dalle persona offesa, credute dai giudici benché
sotto più aspetti contraddittorie e comunque prive di riscontri esterni.
I ricorsi presentati nell’interesse di Rollino Giuseppe edErbetti Sabato
espongono identici motivi.
Innanzitutto, le critiche da ultimo riassunte sulla inutilizzabilità delle
dichiarazioni rese dalla persona offesa, non ascoltata secondo le modalità di

del Tribunale; come, a fronte di un preciso motivo di appello sul punto, la

garanzia previste per la persona indagata in un procedimento connesso o
collegato e sulla attendibilità nel merito di quella testimonianza. È inoltre
presentato un motivo sulla violazione di legge in relazione alla / art. 629
cod.pen. giacché, nel caso di specie, la condotta di esazione di crediti dovuti
avrebbe dovuto essere qualificata non come estorsione ma come esercizio
arbitrario delle proprie ragioni. Nel motivo finale si contesta violazione di
legge in relazione art. 7 della legge 203 del 1991 essendo stata ritenuta la

sussistenza dell’aggravante ivi configurata pur in assenza di una doverosa
indagine sulla componente volitiva delle condotte e sulla effettiva sussistenza
della finalità agevolatrice di una consorteria di stampo mafioso.

CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono infondati.
Circa la doglianza relativa alla inutilizzabilità delle prove testimoniali
presentate in ritardo della pubblica accusa, occorre osservare quanto segue.
Innanzitutto, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il termine stabilito dal
giudice del dibattimento per la citazione dei testimoni (nonché di periti e
consulenti tecnici e dei soggetti indicati dall’art. 210 c.p.p.) è inserito in una
sequenza procedimentale che non ammette ritardi o rinvii dovuti alla mera
negligenza delle parti (se non, in via del tutto eccezionale, per caso fortuito o
forza maggiore), ed ha, pertanto, natura perentoria; ne consegue che la
parte, ove non effettui la citazione dei testimoni dei quali intende chiedere
l’ammissione entro il predetto termine, decade dal diritto di assumerne la
testimonianza (Cass. Sez. II, 27.2.2013, n. 14439).
Questa Corte ha pure precisato che la prova testimoniale, richiesta dal p.m.
che abbia depositato la lista oltre il termine perentorio di sette giorni previsto
dall’art. 468 c.p.p., è inammissibile se la difesa abbia ritualmente eccepito ai
sensi dell’art. 493 c.p.p. la decadenza dal termine. Pertanto, qualora le
testimonianze siano state comunque ammesse, la loro valutazione effettuata
dal giudice di merito nella sentenza è viziata da un errore di diritto rilevabile
in ogni stato e grado del giudizio (Cass. Sez- VI, 2.11.2004,n. 683).
Deve però anche rilevarsi che in ogni caso, il giudice può esercitare il potere
di disporre d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova, previsto dall’art. 507
c.p.p., anche con riferimento a quelle prove che le parti avrebbero potuto
richiedere e non hanno richiesto. Alla luce della nuova formulazione dell’art.
111 Cost., condizioni necessarie per l’esercizio di tale potere sono: l’assoluta
necessità dell’iniziativa del giudice, da correlare a una prova avente carattere

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di decisività, e il suo essere circoscritto nell’ambito delle prospettazioni delle
parti, la cui facoltà di richiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova resta,
peraltro, integra ai sensi dell’art. 495, comma 2, c.p.p. (Cass. sez. Un.,
17.10.2006,n. 41281).
La Corte costituzionale, nella sentenza del 26.2.2010,n. 73, ha a sua volta
chiarito che non è fondata, in riferimento all’art. 111 cost., la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 507 c.p.p., nella parte in cui – secondo

consente al giudice di disporre l’assunzione di nuovi mezzi di prova anche
quando si tratti di prove dalle quali le parti sono decadute per mancato o
irrituale deposito della lista prevista dall’art. 468 c.p.p. e, a seguito di tale
decadenza, non vi sia stata alcuna acquisizione probatoria. La questione è
sollevata sulla base di una premessa – quella che il potere di ammissione delle
prove previsto dall’art. 507 c.p.p. abbia carattere necessariamente officioso che contrasta con il dato normativo, dal quale emerge inequivocamente, al
contrario, che il potere in discussione può essere esercitato dal giudice sia
d’ufficio che su istanza di parte. Né tale interpretazione vanifica la sanzione
dell’inammissibilità, prevista dall’art. 468, comma 1, c.p.p. per il mancato o
irrituale deposito della lista dei testimoni di cui le parti intendano chiedere
l’esame, in quanto diritto delle parti alla prova e potere(-dovere) di
ammissione della prova ai sensi dell’art. 507 c.p.p. hanno parametri diversi:
negativo il primo (non manifesta superfluità o irrilevanza); positivo la seconda
(assoluta necessità), sicché l’esercizio del potere di cui all’art. 507 c.p.p. non
“neutralizza” la sanzione di inammissibilità, in quanto la parte decaduta ai
sensi dell’art. 468, comma 1, c.p.p. rischia di vedersi comunque denegata, o
ristretta, l’ammissione delle prove a suo favore, anche nel caso in cui non vi
sia stata alcuna precedente acquisizione probatoria, fermo restando, peraltro,
che, nel caso di esercizio di detto potere, spetta ad ogni parte con interesse
contrapposto il diritto alla prova contraria ai sensi dell’art. 495, comma 2,
c.p.p. (sent. n. 111 del 1993).
Nel caso di specie, la Corte di appello ha precisato come il Pubblico ministero
abbia depositato lista testimoniale oltre il termine perentorio di 7 giorni
previsto dalla 468 cod. proc. pen.; ha tuttavia precisato che la difesa non
formulò in udienza alcuna eccezione di inammissibilità; hapunque richiamato il
sopra ricordato arresto di questa Corte del 2004 per cui la sanzione di
inammissibilità deve pronunciarsi dietro la relativa eccezione dell’interessato,
nel caso non formulata; ha ricostruito, in ogni caso, la pur ricordata

l’interpretazione accolta dalle Sezioni unite della Corte di cassazione –

giurisprudenza di legittimità e costituzionale sul potere del giudice di
ammettere d’ufficio le prove ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen. quando si
tratti di iniziativa istruttoria assolutamente necessaria ai fini della decisione,
iniziativa esercitata nel rispetto del dovere di » ricercare la verità sostanziale,
nell’ambito delle rispettive prospettazioni delle parti, quand’anche le stesse
siano decadute dalla prova (pertanto, negli esposti limiti, legittimamente
ammissibile di ufficio).

Egualmente infondata è l’ulteriore doglianza sulla qualità della persona offesa,
non esaminata nel presente processo con le garanzie previste per gli imputati
in un procedimento collegato a norma dell’art. 371 comma 2 0 lett. B cod.
proc. pen. Argomenta infatti compiutamente la Corte territorialla pagina 1011 della sentenza impugnata che tale eventuale condizione della persona
offesa non è emersa nel corso del processo, risultando soltanto a carico della
persona offesa un procedimento per calunnia a carico della persona offesa e ai
danni dell’odierno imputato D’Urso Gianluca relativamente a un fatto avvenuto
il 30 maggio 2006, laddove i fatti di questo processo sono successivi, in
quanto relativi al mese di ottobre dello stesso anno; cosicché non risultano
integrati, nella specie, i presupposti di applicazione della disciplina relativa
all’ipotesi di reati commessi da più persone in danno reciproco le une delle
altre (cfr., con specifico riguardo al delitto di calunnia, Cass. Sez. III,
8.5.2013, n. 26409).
Con particolare riguardo alle risultanze della testimonianza resa dalla persona
offesa – su cui si imperniano le più rilevanti censure – deve osservarsi, in
primo luogo, che le dichiarazioni della persona offesa possono essere assunte
anche da sole come prova della responsabilità dell’imputato, purché siano
sottoposte ad un attento controllo circa la loro attendibilità, senza la necessità
di applicare le regole probatorie di cui all’articolo 192, commi terzo e quarto
c.p.p. che richiedono la presenza di ricorsi esterni (Cass., sez. H, 20.9.11, n.
43307). Il che è avvenuto nel caso di specie, come emerge dalla accurata
motivazione resa a riguardo nelle pr,12-17 della sentenza impugnata. Non
possono invece definirsi accurate né tantomeno dettagliate le doglianze svolte
al riguardo dei ricorsi, in cui non si evidenziano le effettive contraddizioni in
cui si sarebbe imbattuta la persona offesa limitandosi ad una apodittica
contestazione del dichiarato.
Inammissibile, per insuperabile genericità, è il motivo sulla errata
qualificazione del fatto comeAf estorsione anziché ,eft esercizio arbitrario delle
proprie ragioni, non essendo sufficiente la preesistenza di una pretesa

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creditoris ai fini di tale effetto qualificatorio. Ciò si dice anche alla luce della
puntuale motivazione svolta dalla Corte di appello alle pagine 17-18 della
sentenza impugnata in cui la qualificazione giuridica del fatto come gir
estorsione piuttosto che A esercizio arbitrario delle proprie ragioni è difesa
argomentando: sulla la qualità dei soggetti intervenuti nell’esazione su
richiesta dell’imputato, noti alla persona offesa come intranei alla associazione
camorristica operativa sul territorio; sulle modalità minacciose del fatto; e,

infine, sulla evidente ingiustizia del profitto perseguito dall’imputato (che in
tutti i modi ha cercato di essere pagato con minaccia e violenza dal proprio
debitore, pur essendo consapevole che lo stesso versava in stato di
insolvenza), ha fatto corretta applicazione della giurisprudenza di questa
Corte secondo cui il delitto di estorsione si differenzia da quello di esercizio
arbitrario delle proprie ragioni con minaccia alla persona non tanto per la
materialità del fatto, che può essere identica, quanto per l’elemento
intenzionale nell’estorsione caratterizzato, diversamente dall’altro reato, dalla
coscienza dell’agente che quanto egli pretende non gli è dovuto (V. Cass. Sez.
2^ sent. n. 47972 del 1.10.2004 dep. 10.12.2004 rv 230709).
Manifestamente infondata, infine, è la doglianza sulla riconoscimento
dell’aggravante di cui all’art. 7 della legge 203 del 1991, attesa la compiuta
motivazione della Corte di appello – alle pagine 18-19 della sentenza
impugnata – in cui si premette come acclarata a seguito di sentenze passate
in giudicato e depositate agli atti del presente processo l’esistenza di una
associazione camorristica denominata “Clan Alberto” , ritenuta operativa sul
territorio in cui si svolsero i fatti; in cui si puntualizza il collegamento tra gli
odierni imputati e detto clan camorristico; in cui si precisa che le modalità
dell’azione sono di natura tipicamente mafiosa; in cui si osserva come da
parte degli odierni imputati sia stato attivato un canale alternativo di tutela
dei diritti di credito fondato su attività di recupero connotate da modalità
minacciose, modalità rese possibili dall’autorevolezza del clan; in cui, infine / si
rileva come sia indubbia l’agevolazione della consorteria di stampo mafioso da
parte di chi, in nometper conto della stessa (come nel caso di specie) si
proponga ed effettivamente operi come soggetto capace di risolvere
controversie private, dettando regole di condotta, pretendendone
l’osservanza, e sanzionando le inadempienze: così rafforzando la presenza del
sodalizio nell’ottica propria dei gruppi malavitosi organizzati di presentarsi alla
collettività anche come entità garanti di un ordine alternativo rispetto a quello
statuale, vigente sul territorio assoggettato a controllo.

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Ne consegue il rigetto dei ricorsi e, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la
condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
PQM
Rigetta i ricors condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deliberato il 22.11.2013
Il Presidente

Il Consigliere estensore

••■•■••••«.11»,

Matilde Cammino

Fabrizio Di Marzio

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