Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 49820 del 05/12/2013


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 49820 Anno 2013
Presidente: CONTI GIOVANNI
Relatore: APRILE ERCOLE

Data Udienza: 05/12/2013

SENTENZA

sui ricorsi presentati da
1. Billizzi Massimo Carmelo, nato a Gela il 06/04/1975
2. Caravotta Dario, nato a Vittoria il 11/07/1971
3. Casciana Nicola, nato a Gela il 23/05/1954
4. Giudice Giovanni, nato a Vittoria il 08/05/1962
5. Padovani Antonio, nato a Catania il 18/03/1952

avverso la sentenza del 26/07/2012 della Corte di appello di Caltanissetta;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere Ercole Aprile;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale
Francesco M. Iacoviello, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità dei ricorsi
del Billizzi e del Caravotta; il rigetto del ricorso del Padovani; l’annullamento con
rinvio nei confronti del Giudice limitatamente al capo A) e nei confronti del
Casciana; il rigetto del ricorso del Giudice nel resto;
udito per l’avv. Pierumberto Starace, in sostituzione dell’avv. Francesco Pizzuto,
per la parte civile F.A.I. Federazione Antiracket Italiana, che ha concluso come
da richiesta scritta depositata in udienza;

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uditi per gli imputati l’avv. Maria Carmela Guarino per il Billizzi che ha concluso
riportandosi ai motivi del ricorso, l’avv. Giacomo Ventura per il Caravotta e il
Casciana che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza
impugnata, e l’avv. Antonio Albano per il Padovani che ha concluso chiedendo
l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.

RITENUTO IN FATTO

parzialmente la pronuncia di primo grado del 09/06/2011 del Tribunale di Gela,
riducendo la pena inflitta a Nicola Casciana ed a Giovanni Giudice, e sostituendo
al primo la pena accessoria, e confermava nel resto la medesima sentenza di
primo grado con la quale il Tribunale aveva condannato alle pene di giustizia:
– Massimo Carmelo Billizzi, previo riconoscimento della circostanza attenuante
dell’art. 8 legge n. 203 del 1991, in relazione al reato di cui agli artt. 81 cpv.,
110, 629, commi 1 e 2, con riferimento all’art. 628, comma 3, n. 1 e 3, cod.
pen., 7 legge n. 203 del 1991, e 7 legge n. 575 del 1965 (capo F)
dell’imputazione), per avere, in Gela e Catania, in epoca anteriore e prossima al
maggio 2005 e fino al 2007, in concorso con il Giudice e con Carmelo Fiorisi,
previo accordo fra gli esponenti della ‘cosa nostra’ gelese e quelli della ‘cosa
nostra’ catanese, mediante minacce consistite nel far pesare, in modo implicito
ma inequivoco, la loro appartenenza alle organizzazioni di stampo mafioso
denominate ‘cosa nostra’ e ‘stidda’, e nell’intimare “che dovevano mettersi a
posto”, al fin di procurarsi un ingiusto profitto, costretto l’imprenditore Gaetano
Di Stefano, amministratore della GSM Generai Contractors, aggiudicataria dei
lavori per la realizzazione di un parcheggio presso l’area sud dell’ospedale di
Gela, a consegnare loro la somma di 30.000 euro, a rifornirsi di calcestruzzo
dalle ditte di Gianfranco Sansone, che provvedeva alla riscossione del ‘pizzo’
anche con il sistema della sovrafatturazione, ad assumere nel cantiere il Giudice
e tal Sandro Signorelli, per garantire il controllo e la riscossione del prezzo
dell’estorsione, conseguendo così un ingiusto profitto con corrispondente danno
dell’imprenditore; con l’aggravante di aver commesso il fatto avvalendosi delle
condizioni previste dall’art. 416 bis cod. pen. e, comunque, al fine di favorire le
attività delle anzidette associazioni mafiose, e con l’aggravante di aver
commesso il Billizzi il fatto durante il tempo in cui era sottoposto alla misura di
prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno;
– il Casciana in relazione al reato di cui agli artt. 110 e 416 bis cod. pen., così
correttamente qualificata la condotta ascrittagli al capo A), per avere, in Gela,
Niscemi e altre località, dal 2005 al 2008, concorso da esterno nell’anzidetto
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1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Caltanissetta riformava

delitto associativo concernente le attività dell’organizzazione mafiosa armata
denominata ‘cosa nostra’ operante nella provincia di Caltanissetta ed in territorio
di Niscemi (con struttura piramidale costituita dalle ‘province’, divise in
‘mandamenti’, ciascuno dei quali composto da ‘famiglie, i cui affiliati si
avvalevano della forza di intimidazione e delle condizioni di assoggettamento e di
omertà da esso derivante, per commettere delitti di ogni genere ed acquisire il
controllo di attività economiche e procurare voti in occasione di consultazioni
elettorali;

esclusa l’aggravante di cui all’art. 629, comma 2, cod. pen., e ritenuta, anche per
questi, per il reato associativo l’ipotesi del concorso esterno ex art. 110 cod.
pen.;
– Antonio Padovani in relazione al reato di cui agli artt. 81 cpv. e 110 cod. pen.,
12 quinquies d.l. n. 306 del 1992, convertito nella legge n. 356 del 1992, esclusa
l’aggravante di cui all’art. 7 legge n. 203 del 1991 (capo C) dell’imputazione),
per avere, in Gela e Niscemi, in epoca imprecisata e fino all’ottobre 2006, in
concorso con altri, compiuto atti consistiti nella fittizia attribuzione della titolarità
dei “punti scommessa” della società “Sport & Games”, rispettivamente ad una
società di comodo non compiutamente identificata ed a tale Ivan Barbieri,
essendone, invece, reali titolari Giovanna Santoro, Maria Stella Madonia
(rispettivamente moglie e sorella del già citato capo clan mafioso Giuseppe
Madonia), Francesco Lombardo, Pasquala Cappello (suocera di Maria Stella
Madonia) e Marco Alessandro Barbieri (consuocero di Giuseppe Madonia);
– Alfonso Dario Renzo Caravotta in relazione al reato di cui agli artt. 81 cpv.,
110, 644, commi 1, 2, e 5 n. 4, cod. pen. (capo H) dell’imputazione, escluse
l’aggravante di cui all’art. 7 legge n. 203 del 1991 e all’art. 644, comma 5, n. 3,
cod. pen., per essersi fatti consegnare, in Gela, nel giugno 2006, in più
circostanze di tempo e di luogo, in concorso con Claudio, Aurelio e Maurizio
Domicoli e con altri, la somma di 2.500 euro, che si aggiungevano a quella di
4.000 euro corrisposta ai Domicoli, dai commercianti Salvatore Chiolo e Angelo
Chiantia, a titolo di corrispettivo per l’attività di mediazione svolta per fare
ottenere a tali due imprenditori un prestito di 20.000 euro al tasso usurario del
10% mensile;
con la condanna del Casciana e del Giudice anche al risarcimento dei danni in
favore delle costituite parti civili Comune di Gela, Associazione antiracket
‘G.Giordano’, Federazione Antiracket Italia, e Camera di Commercio di
Caltanissetta; del solo Giudice al risarcimento dei danni in favore della parte
civile GSM General Contractors s.r.l.

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– il Giudice in relazione ai due reati sub capi A) ed F) come appena tratteggiati,

Rilevava la Corte di appello come le emergenze processuali avessero
dimostrato che:
– il Billizzi, nonostante il apporto collaborativo, già ‘premiato’ a norma dell’art. 8
legge n. 203 del 1991 con una riduzione non in misura massima ma reputata
congrua, non era meritevole del riconoscimento delle circostanze attenuanti
generiche in ragione della obiettiva gravità e durate nel tempo delle condotte
delittuose accertate, del vissuto delinquenziale del prevenuto fino al momento di
inizio della collaborazione, nonché della posizione apicale a suo tempo rivestita

im pug n.);
– il Casciana, pur dopo essere stato condannato per il reato di cui all’art. 416 bis
cod. pen. e venuta meno la sua formale affiliazione, dopo la sua scarcerazione,
approfittando di non essere sottoposto a controlli da parte degli inquirenti, aveva
continuato ad avere contatti con Giuseppe Madonia, capo della frangia nissena
della organizzazione mafiosa ‘cosa nostra’, curando in maniera sistematica i
rapporti tra lo stesso ed i suoi familiari, ovvero tra l’associato Carmelo Barbieri
ed i familiari di questo, pure mettendosi a disposizione, in forma non
occasionale, degli appartenenti al clan mafioso facente capo a Alessandro
Emmanuello, così tenendo una condotta consapevolmente finalizzata ad
apportare dall’esterno un contributo all’intera organizzazione criminale (v. pagg.
8-14 sent. impugn.);
– rilevata la tardività della eccepita nullità del decreto che aveva disposto il
giudizio ed esclusa la violazione del principio di correlazione tra contestazione e
decisione, il Giudice aveva svolto la fondamentale funzione di intermediario tra
gli esecutori della estorsione consumata in danno del titolare della GSM Generai
Contractors (società dalla quale il Giudice era stato assunto come dipendente) e
la stessa vittima, agendo però nell’interesse dei primi, per conto dei quali aveva
anche stabilito le modalità esecutive del delitto e riscosso le somme, poi versate
ai suoi mandanti; imputato che con tale significativa condotta, oltre che
favorendo la latitanza dell’associato Giuseppe Trubia, operando affianco a
Carmelo Barbieri, affiliato al già menzionato clan mafioso del Madonia e
“mettendosi a disposizione” di Massimo Carmelo Billizzi, aveva così offerto
stabilmente i suoi servigi in favore del sodalizio ‘cosa nostra’, pur senza farne
formalmente parte, allo scopo di permettere la realizzazione degli scopi criminali
di tale organizzazione e di trarne vantaggi consistenti dell’attribuzione di
commesse e di posti di lavoro (v. pagg. 14-27 sent. impugn.);
– il Padovani, già titolare di una concessione statale per l’apertura di punti
scommessa, aveva messo a disposizione le sue credenziali in favore società che
avrebbero dovuto gestire l’apertura di nuovi punti scommessa a Gela e Niscemi
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all’interno dell’organizzazione mafiosa gelese ‘cosa nostra’ (v. pagg. 5-8 sent.

gestiti da società intestate a prestanomi, ma sostanzialmente facenti capo al
capo clan mafioso Giuseppe Madonia ed ai familiari di questo, pure dando la
disponibilità a finanziare in parte tale iniziativa imprenditoriale, che non doveva
essere in alcun modo riferibile ai suddetti Madonia, tant’è che le quote erano
state intestate fittiziamente ad Ivan Barbieri, per evitare di subire l’applicazione
di misure di prevenzione patrimoniali previste dalla normativa antimafia;
Padovani che non era neppure meritevole del riconoscimento delle attenuanti
generiche o di una riduzione della pena irrogata in primo grado (v. pagg. 28-34

– il Caravotta aveva concorso nella commissione del reato di usura addebitatogli
in quanto aveva svolto il fondamentale ruolo di mediazione tra l’usuraio Domicoli
ed i due imprenditori usurati Chianta e Chiodo, assicurando egli il buon esito
dell’affare, offrendo propri assegni in garanzia, ricevendo il denaro e
consegnandolo alle due vittime; essendo state smentire le, pure tra loro
contraddittorie, dichiarazioni del Chianta e del Chiodo che avevano cercato di far
credere che la somma versata al Caravotta, quale corrispettivo per l’opera di
intermediazione, fosse servita ad estinguere un debito che i primi avevano
maturato nei riguardi del secondo (v. pagg. 39-42 sent. impugn.).

Avverso tale sentenza hanno presentato ricorso i cinque imputati elencati in
epigrafe.

2. L’imputato Massimo Carmelo Billizzi, con atto sottoscritto personalmente, ha
dedotto i seguenti due motivi.
2.1. Violazione di legge, in relazione all’art. 8 legge n. 203 del 1991, per avere
la Corte di appello disatteso la richiesta difensiva di applicazione, nella sua
massima estensione, della circostanza attenuante prevista dal suddetto articolo,
senza considerare l’utilità obiettiva della collaborazione e valorizzando, invece,
criteri di disvalore sociale del fatto e della personalità dell’imputato.
2.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 62 bis, 133 e 133 bis cod. pen.,
per avere la Corte territoriale ingiustificatamente negato all’imputato il
riconoscimento della circostanze attenuanti generiche, senza tenere conto del
sincero percorso di collaborazione avviato dal Billizzi, della sua personalità e
delle sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale.

3. L’imputato Nicola Casciana, con atto sottoscritto dal suo difensore avv.
Giacomo Ventura, ha dedotto i seguenti due motivi.
3.1. Violazione di legge, in relazione alle norme di diritto penale contestate e
gli artt. 125, comma 3, 187, 192, commi 1 e 3, 238 bis e 546, comma 1, lett. e),
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‘9-1

(le

sent. impugn.);

cod. proc. pen., e vizio di motivazione, per mancanza, manifesta illogicità e
travisamento della prova, per avere la Corte distrettuale confermato la pronuncia
di condanna di primo grado sulla base di mere congetture; per avere sostenuto,
travisando la prova, che Giuseppe Madonia, mentre era detenuto in carcere, si
fosse avvalso di altri per mantenere i contatti con gli associati liberi, circostanza
questa non accertata in alcun altra sentenza né da altri atti acquisiti; per avere
riconosciuto la configurabilità di un concorso esterno nel reato associativo non
sulla base di concrete condotte tenute dal Casciana, bensì di una asserita

avere affermato che il Casciana curava le relazioni tra il predetto Madonia ed i
familiari di questo, laddove tali ultimi sono stati assolti in via definitiva da quel
reato associativo, talché quei rapporti dovevano essere considerati espressione di
meri sentimenti di amicizia; per avere accreditato la parola accusatrice del
collaboratore Billizzi, che aveva negato di essersi mai avvalso del Casciana per
contattare Marco Barbieri, che peraltro non era neppure un affiliato a ‘cosa
nostra’, e quella del collaboratore Smorta, che non risulta essersi mai
concretamente avvalso del Casciana per entrare in contatto con il predetto
Barbieri.
3.2. Vizio di motivazione, per contraddittorietà, avendo la Corte nissena
utilizzato contra reum il contenuto della sentenza irrevocabile emessa, per gli
stessi fatti o per fatti connessi, in sede di abbreviato, laddove, in altra parte della
motivazione, quella decisione passata in giudicato era stata valorizzata ex art.
238 bis cod. proc. pen. per escludere la configurabilità dell’aggravante dell’art. 7
legge n. 203 del 1991 con riferimento all’imputazione contestata al coimputato
Padovani, cui pure era stato originariamente addebitato di avere agito al fine di
favorire le attività del sodalizio mafioso facente capo a Giuseppe Madonia.

4. L’imputato Giovanni Giudice, con distinti atti sottoscritti rispettivamente dai
suoi due difensori avv. Dino Giovanni Milazzo e Rosaria Sammartino, ha dedotto i
seguenti sei motivi.
4.1. Violazione di legge, in relazione agli artt. 521, comma 2, e 522 cod. proc.
pen., per avere la Corte siciliana erroneamente escluso una violazione del
principio di correlazione tra contestazione e decisione, benché al Giudice, al capo
A), fosse stata contestata una condotta di partecipazione ad associazione
mafiosa in termini completamente differenti da quelli ritenuti in sentenza e
qualificati in termini di concorso esterno in associazione mafiosa; e benché, al
capo F), fosse stato addebitato un concorso materiale nella commissione della
estorsione, senza alcun cenno all’attività di intermediazione che era stata poi
riconosciuta con la decisione.

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generica messa a disposizione del prevenuto in favore di altri affiliati mafiosi; per

4.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 110, 416 bis cod. pen., 192,
comma 3, cod. proc. pen., per avere la Corte di appello riconosciuto la
sussistenza di una ipotesi di concorso esterno nel reato di associazione mafiosa,
senza dimostrare l’esistenza di alcuna concreta condotta del Giudice inidonee ad
integrare gli estremi di una specifica e consapevole forma di contributo ai fini
della conservazione o del rafforzamento del sodalizio criminale; e per avere
valorizzato le dichiarazioni accusatorie rese da diversi collaboratori, rimaste,
però, prive di adeguati riscontri estrinseci.

pen., per avere la Corte di merito omesso di chiarire in base a quali prove
dovesse ritenersi sussistente l’elemento soggettivo, in capo al Giudice, con
riferimento all’ipotesi estorsiva addebitatagli, essendo contraddittorie o generiche
le deposizioni di accusa provenienti dai collaboratori di giustizia che avevano
parlato di quell’episodio.
4.4. Violazione degli artt. 2 e 157 cod. pen., per avere la Corte territoriale
ingiustificatamente disatteso la sollecitazione difensiva finalizzata ad ottenere
una declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, considerato che non è
stata determinata la data di cessazione del supposto concorso esterno
dell’imputato nell’associazione mafiosa de qua.
4.5. Violazione di legge, in relazione all’art. 597 cod. proc. pen., per avere la
Corte nissena lasciata immutata la pena o mi -le all’imputato, benché con la
sentenza di primo grado gli fossero state riconosciute le circostanze attenuanti
generiche indicate, in dispositivo, come equivalenti alle contestate aggravanti, e,
in motivazione, invece, prevalenti.
4.6. Violazione di legge, in relazione all’art. 7 legge n. 203 del 1991, per avere
la Corte distrettuale calcolato la pena erroneamente formulando il giudizio di
equivalenza tra circostanze ex art. 69 cod. pen. prima di aver operato l’aumento
della pena ai sensi del predetto art. 7, e non anche dopo, così come stabilito da
tale disposizione.

5. L’imputato Antonio Padovani, con atto sottoscritto dai suoi difensori avv.
Gian Domenico Caiazza e avv. Antonio Albano, ha dedotto i seguenti due motivi.
5.1. Nullità della sentenza, per violazione dell’art. 546, comma 1, lett. e), cod.
proc. pen., per avere la Corte di merito omesso di rispondere alla specifica
doglianza formulata con l’atto di appello, con il quale si era evidenziato come i
Giudici di primo grado avessero confuso i due progetti di apertura di sale
scommesse, il primo a Niscemi realizzato, il secondo a Gela naufragato, e per
avere attribuito ad uno dei due progetti elementi di prova (in particolare quelli

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4.3. Violazione di legge, in relazione agli artt. 629 cod. pen. e 192 cod. proc.

riferibili alla ricerca del prestito che avrebbe interessato Maria Stella Madonia)
invece riferibili all’altro.
5.2. Vizio di motivazione, per contraddittorietà processuale ovvero per
travisamento della prova, per avere la Corte territoriale erroneamente attribuito
al Padovani un concorso nel reato contestatogli sulla base dell’affermazione di un
prestito che il prevenuto avrebbe fatto ai coimputati per l’apertura della sala
giochi di Niscemi, laddove quella dazione di danaro aveva riguardato il progetto
di apertura di un’altra sala giochi, a Gela, che non era stato portato a termine;

avevano provato essere stata il frutto esclusivamente di una iniziativa economica
reale e non fittizia di Pasquala Cappello, la quale aveva impegnato il ricavato
della vendita di beni personali, avente lo scopo di dare una opportunità di lavoro
al figlio Ivan Barbieri, cui erano rimasti estranei i familiari del Madonia.
5.3. Con memoria depositata il 28/11/2013 i difensori del Padovani hanno
richiamato i passaggi fondamentali dei motivi già dedotti con il ricorso, tornando
a sottolineare come il loro assistito fosse stato condannato per l’attività
asseritamente svolta in relazione all’apertura della sala scommesse di Niscemi,
alla quale era risultato del tutto estraneo il capo mafia Madonia.

6. L’imputato Alfonso Dario Renzo Caravotta, con atto sottoscritto dal suo
difensore avv. Giacomo Ventura, ha dedotto, formalmente con un unico punto, la
violazione di legge, in relazione agli artt. 644, comma 2, cod. pen., e 125,
comma 3, cod. proc. pen., e vizio di motivazione, per mancanza, manifesta
illogicità e travisamento della prova, per avere la Corte di appello confermato la
pronuncia di condanna di primo grado, dando una lettura incompleta della
conversazione, intercettata durante le indagini, tra il Caravotta da una parte, il
Chiantia ed il Chiolo dall’altra, che i Giudici di merito avevano posto a base della
loro decisione: lettura che, se completa, avrebbe permesso di avere riscontro
della versione difensiva secondo la quale il Caravotta avrebbe ricevuto la somma
indicata nel capo d’imputazione a mero titolo di prestito.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Ritiene il Collegio che il ricorso dell’imputato Billizzi vada rigettato.

1.1. Il primo motivo del ricorso è infondato.
Il ricorrente ha preteso che in questa sede si proceda ad una rinnovata
valutazione delle modalità mediante le quali il giudice di merito ha esercitato il
potere discrezionale a lui concesso dall’ordinamento ai fini della determinazione
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apertura della sala giochi di Niscemi che, peraltro, le emergenze processuali

della estensione operativa di una circostanza attenuante e, dunque, della
quantificazione della pena irrogata: esercizio che, come noto, deve essere
motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero del
giudice in ordine all’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del
reato ed alla personalità del reo.
Nella specie, del tutto correttamente – con un giudizio congruamente motivato,
che perciò non può essere censurato dal Giudice di legittimità – la Corte di
merito ha ritenuto giustificata la scelta del Tribunale di riconoscere all’imputato

del 1991, convertito nella legge n. 203 del 1991, ma di negarne l’applicazione
con una riduzione della pena nella misura massima consentita, ciò allo scopo di
adeguare la sanzione finale ad una personalità che, pur recuperata dagli
importanti contributi di conoscenza forniti dall’autorità giudiziaria, restava,
comunque, negativamente qualificata da una militanza mafiosa protrattasi per
decenni, da una posizione di vertice rivestita nell’ambito del gruppo criminale di
riferimento e dalla partecipazione a numerose vicende delinquenziali di grande
allarme sociale che, negli ultimi anni, avevano profondamente turbato la vita
degli abitanti del comune di Gela (v. pag. 7-8 sent. impugn.).

1.2. Anche il secondo motivo del ricorso del Billizzi è infondato.
Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo
il quale, in tema di reati di criminalità organizzata, il riconoscimento della
circostanza attenuante di cui all’art. 8 d.l. n. 152 del 1991, convertito nella legge
n. 203 del 1991, non implica necessariamente, data la diversità dei relativi
presupposti, il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, le quali si
fondano su una globale valutazione della gravità del fatto e della capacità a
delinquere del colpevole (così, tra le diverse, Sez. 6, n. 20145 del 15/04/2010,
Cantiello e altri, Rv. 247387; Sez. 1, n. 14527 del 03/02/2006, Cariolo e altri,
Rv. 233938; Sez. 1, n. 26003 del 21/05/2003, Tangredi, Rv. 224995): con
l’inevitabile conseguenza che non è consentito utilizzare gli elementi posti a
fondamento della concessione della circostanza attenuante ad effetto speciale
della cosiddetta “dissociazione attuosa”, prevista dal suddetto art. 8, una
seconda volta anche per giustificare ‘automaticamente’ il riconoscimento delle
circostanze attenuanti generiche, perché ciò condurrebbe a un’inammissibile
ripetuta valorizzazione dei medesimi elementi (in questo senso Sez. 5, n. 34574
del 13/07/2010, Russo, Rv. 248176).
Di tale principio la Corte di appello di Caltanissetta ha fatto buon governo,
evidenziando come la scelta del Billizzi di “rompere con il suo passato” ed il suo
buon comportamento processuale fossero stati elementi idonei a giustificare il
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QIY”?

Billizzi la circostanza attenuante della collaborazione di cui all’art. 8 d.l. n. 152

riconoscimento della considerata attenuante ad effetto speciale, ma non
potessero legittimare la concessione anche delle circostanze attenuanti
generiche, a tanto ostandovi la obiettiva gravità del reato accertato, commesso
nell’ambito di un programma strategico di sistematico condizionamento e
sfruttamento delle attività economiche nel comune di Gela, gli effetti di tale
delitto, protrattisi per molti anni, ed il vissuto delinquenziale del Billizzi che,
prima di iniziare la sua apprezzabile collaborazione con l’autorità giudiziaria,
aveva rivestito un ruolo apicale nell’ambito della consorteria mafiosa gelese

2. Il ricorso presentato nell’interesse dell’imputato Nicola Casciana va rigettato.

2.1.1. In relazione al primo motivo, va sottolineato come lo stesso sia privo di
pregio nella parte in cui il Casciana si è doluto del fatto che, richiamando il
contenuto della motivazione di altra sentenza irrevocabile emessa dalla
medesima Corte il 01/02/2011, acquisita ai sensi dell’art. 238

bis cod. proc.

pen., i Giudici di secondo grado avessero affermato che era stato accertato che il
capo clan mafioso Giuseppe Madonia, durante il suo periodo di detenzione in
carcere, si era avvalso dei suoi parenti per fare arrivare all’esterno le direttive
agli affiliati, circostanza questa che l’anzidetta sentenza aveva escluso.
Ed infatti, se è vero che la novella dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc.
pen. ad opera della legge n. 46 del 2006, consente che per la deduzione dei vizi
della motivazione il ricorrente faccia riferimento come termine di comparazione
anche ad atti del processo a contenuto probatorio, avendo introdotto un nuovo
vizio definibile come “travisamento della prova”, per utilizzazione di
un’informazione inesistente o per omissione della valutazione di una prova, è
anche vero che entrambe le forme devono essere accomunate dalla necessità che
il dato probatorio, travisato o omesso, abbia il carattere della decisività
nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica (così, tra le molte,
Sez. 2, n. 19848 del 24/05/2006, P.M. in proc. Todisco, Rv. 234162).
Alla stregua di tale criterio di giudizio, va rilevata l’aspecificità del motivo de
quo, in quanto nel ricorso è stato omesso il riferimento al connesso passaggio
motivazionale della sentenza gravata nel quale era stata espressamente
sottolineata la non decisività del considerato elemento di conoscenza, avendo la
Corte territoriale puntualizzato come l’accertamento contenuto in quella sentenza
del 01/02/2011 non avesse affatto inficiato la riconosciuta valenza dimostrativa
delle dichiarazioni di ben tre collaboratori di giustizia (Barbieri, Smorta e Billizzi)
i quali avevano diversamente riferito che il Casciana aveva curato le

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9-7

facente parte di ‘cosa nostra’ (v. pagg. 5-7 sent. impugn.).

comunicazioni tra i familiari del detenuto e gli altri affiliati in libertà (v. pag. 1213 sent. impugn.).

2.2.2. Lo stesso primo motivo del ricorso del Casciana, nella parte concernente
la verifica degli altri elementi di prova, è inammissibile perché presentato per
fare valere ragioni diverse da quelle consentite dalla legge.
Il ricorrente solo formalmente ha indicato, come motivi della sua
impugnazione, la violazione delle norme sulla valutazione della prova penale

prospettato alcuna reale contraddizione logica, intesa come implausibilità delle
premesse dell’argomentazione, irrazionalità delle regole di inferenza, ovvero
manifesto ed insanabile contrasto tra quelle premesse e le conclusioni; né ha
lamentata una incompleta descrizione degli elementi di prova rilevanti per la
decisione, intesa come incompletezza dei dati informativi desumibili dalle carte
del procedimento.
Il ricorrente, invero, si è limitato a criticare il significato che la Corte di appello
di Caltanissetta aveva dato al contenuto delle emergenze acquisite durante
l’istruttoria dibattimentale di primo grado e, in specie, alla valutazione che quella
Corte aveva fatto delle dichiarazioni dei tre citati collaboratori di giustizia.
Tuttavia, bisogna rilevare come il ricorso, fungi dal proporre un ‘travisamento
delle prove’, vale a dire una incompatibilità tra l’apparato motivazionale del
provvedimento impugnato ed il contenuto degli atti del procedimento, tale da
disarticolare la coerenza logica dell’intera motivazione, è stato presentato per
sostenere, in pratica, una ipotesi di ‘travisamento dei fatti’ oggetto di analisi,
sollecitando un’inammissibile rivalutazione dell’intero materiale d’indagine,
rispetto al quale è stata proposta dalla difesa una spiegazione alternativa alla
semantica privilegiata dalla Corte territoriale nell’ambito di un sistema
motivazionale logicamente completo ed esauriente.
Questa Corte, pertanto, non ha ragione di discostarsi dal consolidato principio
di diritto secondo il quale, a seguito delle modifiche dell’art. 606, comma 1, lett.
e), cod. proc. pen., ad opera dell’art. 8 della legge 20 febbraio 2006, n. 46,
mentre è consentito dedurre con il ricorso per cassazione il vizio di ‘travisamento
della prova’, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il
proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova
obiettivamente ed incontestabilmente diverso da quello reale, non è affatto
permesso dedurre il vizio del ‘travisamento del fatto’, stante la preclusione per il
giudice di legittimità a sovrapporre la propria valutazione delle risultanze
processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, e considerato che,
in tal caso, si domanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione

11

ovvero il vizio di motivazione, ma, al di là del formale dato enunciativo, non ha

estranea al giudizio di legittimità, qual è quella di reinterpretazione degli
elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (così, tra le
tante, Sez. 3, n. 39729 del 18/06/2009, Belluccia, Rv. 244623; Sez. 5, n. 39048
del 25/09/2007, Casavola, Rv. 238215).
La motivazione contenuta nella sentenza impugnata possiede, invero, una
stringente e completa capacità persuasiva, nella quale non sono riconoscibili vizi
di manifesta illogicità, avendo la Corte siciliana analiticamente spiegato come le
convergenti dichiarazioni dei menzionati collaboratori di giustizia avessero

senza aderire formalmente alla medesima associazione mafiosa, aveva svolto un
ruolo di ‘corriere’ tra soggetti a vario titolo gravitanti nell’orbita di operatività di
quel sodalizio criminale, compito che era risultato esiziale per la vita della
organizzazione mafiosa i cui componenti, in quel periodo, erano stati sottoposti a
più rigorose forme di controllo da parte delle forze dell’ordine. Così il
collaboratore Carmelo Barbieri aveva ricordato come egli, già condannato per il
reato di partecipazione a ‘cosa nostra’, dopo essere stato scarcerato aveva
continuato, proprio per il tramite del Casciana, a mantenere i rapporti con i
familiari del recluso Giuseppe Madonia, all’epoca ancora indiscusso capo della
consorteria mafiosa nella provincia di Caltanissetta; il collaboratore Massimo
Carmelo Billizzi, già responsabile di ‘cosa nostra’ per la zona di Gela, aveva
confermato di aver appreso che le relazioni tra i familiari del Madonia ed il
Carmelo Barbieri venivano curati dal Casciana che, per il suo

status, dava

garanzie di non essere intercettato o sottoposto ad altre forme di controllo da
parte delle forze dell’ordine: Casciana che gli era stato pure indicato dal figlio di
un altro affiliato mafioso, Alessandro Barbieri, come la persona cui egli si sarebbe
potuto rivolgere per far pervenire al padre lo “stipendio”; ed ancora, il
collaboratore Crocifizzo Smorti,” reggente, tra il 2005 ed il 2006, del clan mafioso
>
facente capo ad Alessandro Emmanuello, il quale aveva ricordato che era stato
proprio quest’ultimo a confidargli che, “in caso di bisogno”, si sarebbe potuto
rivolgere al Casciana come soggetto che, pur non formalmente affiliato alla
cosca, avrebbe potuto garantire le comunicazioni tra gli associati, ad esempio
consentendogli di entrare in contatto con Marco Barbieri, cui egli avrebbe dovuto
consegnare parte del provento di attività illecite per fronteggiare le spese legali
sostenute dal padre, il già citato sodale Alessandro Barbieri (v. pagg. 9-10 sent.
impugn.).

2.2.3. Infondato è il medesimo primo motivo del ricorso del Casciana nella
parte in cui è stata denunciata una violazione di legge in relazione agli artt. 110
e 416 bis cod. pen.
12

f2l97

y

descritto, in maniera inequivoca, la figura del Casciana come quella di chi, pur

Rappresenta

un

orientamento

sufficientemente

consolidato

nella

giurisprudenza di questa Corte quello secondo il quale deve qualificarsi come
concorrente esterno in un’associazione di stampo mafioso colui che, senza
appartenere all’associazione, senza cioè trovarsi in un rapporto di stabile e
organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio criminoso,
fornisca consapevolmente un concreto, specifico e volontario contributo, sempre
che questo esplichi un’effettiva rilevanza causale e quindi si configuri come
condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità

programma criminoso della medesima (così Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005,
Mannino, Rv. 231670-1-2). In seguito questa Corte, nel ribadire la soluzione
proposta dalle Sezioni Unite (si veda, tra le tante, Sez. 6, n. 29458 del
26/06/2009, Anzelmo, Rv. 244471), ha avuto modo di chiarire che il delitto di
concorso esterno in associazione mafiosa è integrato persino quando il soggetto
abbia posto in essere un unico intervento, a carattere occasionale, che però
abbia una rilevanza causale ai fini della conservazione e del rafforzamento
dell’associazione (Sez. 2, n. 35051 del 11/06/2008, Lo Sicco, Rv. 241813); e
che, affinchè risulti integrato tale forma di concorso, gli effetti delle condotte dei
soggetti agenti devono risultare utili per l’intera associazione, e non solo per
qualche suo componente, come nell’ipotesi di mero favoreggiamento personale
(così Sez. 1, n. 1073 del 22/11/2006, Alfano, Rv. 235855; conf. Sez. 1, n. 54 del
11/12/2008, Sarracino, Rv. 242577; Sez. 6, n. 40966 del 08/10/2008, Pillari,
Rv. 241701; Sez. 5, n. 34597 del 06/05/2008, Lombardo, Rv. 241929), salvo
che l’ausilio non sia stato svolto in favore del capo del sodalizio, ad esempio
assicurandone in maniera stabile la possibilità, per il suo tramite, di mantenere i
contatti con gli altri associati, perché condotta palesemente sorretta dalla volontà
di agevolare non solo il soggetto latitante ma l’intera associazione (Sez. 6, n.
2533 del 26/11/2009, Gariffo, Rv. 245703).
Di tali principi di diritto la Corte di appello di Caltanissetta ha fatto corretta
applicazione ponendo in risalto, con motivazione completa e priva di lacune o vizi
di manifesta logicità, dunque con giudizi di fatto non sindacabili in questa sede,
come fosse risultato provato che il Cascina, pur senza essere stato formalmente
affiliato all’associazione mafiosa ‘cosa nostra’, aveva fornito in favore della stessa
un contributo ripetuto e sistematico, svolgendo, in forma non occasionale né
episodica, e per un prolungato arco temporale, un’importante attività di ‘tramite’
tra diversi appartenenti a quel sodalizio criminale, in particolare tra gli indicati
collaboratori Barbieri, Smorte Billizzi – che, per giunta, in quel periodo avevano
assunto posizioni verticistiche all’interno della organizzazione – ed altri associati
o familiari del Madonia, con una forma di esclusiva disponibilità e, dunque, con

13

operative dell’associazione e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del

un ruolo continuativo e funzionalmente finalizzato a favorire l’operatività
dell’intero clan mafioso (v. pagg. 10-12 sent. impugn.).

2.3. Manifestamente infondato è il secondo motivo del ricorso del Casciana,
non essendo riconoscibile alcuna contraddizione nella motivazione della sentenza
gravata tra la parte in cui è stata esaminata la posizione del prevenuto e quella
in cui è stata valutata la posizione del coimputato Padovani, chiamato a
rispondere di un delitto completamente differente per il quale la decisione della

contenuta nella sentenza di prime cure, della esclusione della circostanza
aggravante di cui all’art. 7 legge n. 203 del 1991, è risultata fondata su
argomentazioni del tutto peculiari, riferibili alla specifica vicenda delittuosa nella
quale il Padovani era rimasto coinvolto (v. pagg. 37-29 sent. impugn.), e in
nessun modo estensibili al ruolo ed alle condotte addebitate al Casciana.

3. Ritiene la Corte che il ricorso presentato nell’interesse dell’imputato
Giovanni Giudice vada rigettato.

3.1.1. Il primo motivo del ricorso è infondato.
Costituisce espressione di un consolidato indirizzo interpretativo il principio per
il quale non sussiste la violazione del principio di correlazione tra accusa e
sentenza, di cui all’art. 521 cod. proc. pen., nella decisione con la quale
l’imputato, rinviato a giudizio per partecipazione ad associazione mafiosa, sia
condannato per concorso esterno alla stessa associazione, purché il fatto
materiale sia stato sufficientemente enunciato nell’atto di imputazione e con la
sentenza l’imputato sia stato ritenuto responsabile di tale fatto materiale, posto
che la partecipazione ad associazione mafiosa e il concorso esterno non
rappresentano due diverse ipotesi criminose, ma distinte modalità della
partecipazione criminosa (Sez. 5, n. 21077 del 25/03/2004, Sciacca e altro, Rv.
229194; conf., per l’ipotesi contraria del ‘passaggio’ dalla contestazione , Sez. 2,
n. 12838/03 del 16/12/2002, Bellofiore ed altri, Rv. 224879; e Sez. 6, n. 10457
del 11/07/2000, Aleci ed altri, Rv. 220534).
Alla luce di tale regula iuris è da escludere la configurabilità della denunciata
violazione di legge nella decisione adottata dai Giudici di merito che, a fronte
della contestazione della partecipazione all’associazione di stampo mafioso ‘cosa
nostra’, i cui affiliati si avvalevano della forza di intimidazione e delle condizioni
di assoggettamento e di omertà da esso derivante, per commettere delitti di ogni
genere, in particolare per acquisire il controllo delle locali attività economiche,
hanno ritenuto come l’imputato, pur senza aver formalmente aderito a tale
14

(2h

Corte distrettuale di rigettare l’appello proposto dal P.G. avverso la statuizione,

sodalizio criminale, avesse concorso da esterno alla realizzazione dei relativi fini
criminali, tenendo una condotta assimilabile a quella degli altri partecipi,
elementi dei cui aspetti caratterizzanti il prevenuto aveva avuto piena
conoscenza e in ordine ai quali aveva avuto modo di esercitare appieno i propri
diritti di interlocuzione e di difesa (v. pagg. 15-16 sent. impugn.).
Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi con riferimento all’altra imputazione
addebitata al Giudice nel capo F), atteso che egli è stato giudicato comunque
concorrente nella consumazione della estorsione aggravata in danno del titolare

oggetto di formale addebito, pur qualificata dai Giudici di merito come
sintomatica di una malcelata funzione di intermediazione tra gli autori della
richiesta estorsiva e la vittima: ruolo di intermediazione che – alle condizioni che
si avrà modo di evidenziare – pacificamente è parificabile a quello tenuto da
qualsiasi altro concorrente nel reato e con riferimento al quale l’interessato è
stato messo in grado di esercitare i propri diritti di difesa, sicché è irrilevante che
dello stesso ruolo non fosse stata espressa indicazione nel capo d’imputazione,
nel quale all’imputato era stato, in ogni caso, ascritto di avere concorso con altri
nella realizzazione del fine criminoso proprio di quella fattispecie delittuosa (v.
pagg. 14-15 sent. impugn.).
Le valutazioni innanzi esposte, se servono ad negare in radice la configurabilità
della denunciata violazione dell’art. 522 cod. proc. pen., in quanto l’imputato non
è stato condannato per fatti ontologicamente diversi da oggetto di addebito,
valgono pure ad escludere la ricorrenza della lamentata violazione del principio di
corrispondenza tra contestazione e pronuncia, di cui all’art. 521 cod. proc. pen.,
atteso che, in conformità con la consolidata giurisprudenza di questa Corte, si è
correttamente evidenziato come ai fini della valutazione del rispetto della norma
dettata da tale secondo articolo, deve tenersi conto non solo del fatto descritto in
imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a
conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale
contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese
sull’intero materiale probatorio posto a fondamento della decisione (così,

ex

plurimis e da ultimo, Sez. 6, n. 5890 del 22/01/2013, Lucera e altri, Rv.
254419).
Né conduce a differenti conclusioni la doglianza difensiva (pure ripresa,
nell’odierna discussione, dal P.G. nella formulazione delle sue conclusioni)
secondo cui il Giudice sarebbe stato condannato per condotte di cui non vi è una
chiara descrizione nel capo d’imputazione. Su tale punto non vi è ragione per
mettere in discussione il punto della motivazione della sentenza impugnata nel
quale si è sottolineato come, secondo il pacifico indirizzo della giurisprudenza di
15

della società GSM, tenendo una condotta esattamente assimilabile a quella

legittimità, l’insufficiente enunciazione dell’imputazione nel decreto che dispone il
giudizio determini una nullità relativa (così, ex multis, Sez. 5, n. 20739 del
25/03/2010, Di Bella, Rv. 247590; Sez. 5, n. 712/10 del 20/11/2009, L., Rv.
245734), che come tale, laddove esistente, doveva essere eccepita, a pena di
sanatoria, entro il termine previsto dall’art. 491, comma 1, cod. proc. pen., cosa
che, nella fattispecie, non è accaduto.

3.1.2. Sotto altro profilo, deve, altresì, escludersi che la riqualificazione

grado, con decisione confermata dalla Corte di appello, abbia comportato la
violazione del diritto all’equo processo, di cui all’art. 6, paragr. 3, CEDU, che,
nell’interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, impone al
giudice nazionale di rispettare il principio del contraddittorio in ogni momento e
in ogni fase del processo penale, anche laddove si debba discutere della
qualificazione giuridica dei fatti addebitati. Diritto all’equo processo e correlato
principio del contraddittorio che il P.G. ha sostenuto essere stati violati dal
momento che la decisione di prime cure era stata adottata senza alcuna
preventiva interlocuzione con le parti e senza una compiuta contestazione delle
condotte delle quali l’imputato doveva essere chiamato a rispondere.
In effetti la Corte costituzionale, fin dalle ben note sentenze ‘gemelle’ del 2007
(Corte cost., n. 348 e n. 349 del 2007), ha statuito che, nel sistema delle fonti
del nostro ordinamento, alle disposizioni della CEDU debba essere assegnato un
rango subcostituzionale di ‘norme interposte’, nel senso che, attraverso il
‘meccanismo’ di adattamento previsto dall’art. 117, comma 1, Cost., esse
integrano il relativo precetto della Carta fondamentale e diventan fr.
.esse stesse
parametro di legittimità costituzionale delle altre norme dell’or amento di
fonte secondaria; ma, soprattutto, che il giudice nazionale, nell’applicare una
norma del diritto interno, è sempre tenuto ad interpretarla in maniera non solo
costituzionalmente orientata, ma anche convenzionalmente orientata, a tal fine
considerando tanto le disposizioni formalmente cristallizzate nell’articolato della
CEDU, quanto le stesse norme come interpretate nelle sue sentenze dalla Corte
europea dei diritti dell’uomo.
Tale criterio generale, che è nel contempo regola di ordine nel sistema delle
fonti e criterio di ermeneutica giuridica, ha già trovato numerose attuazioni nella
stessa giurisprudenza costituzionale (si vedano, in particolare, Corte cost., n. 1 e
n. 113 del 2011; Corte cost., n. 93, n. 138, n. 187 e n. 196 del 2010; Corte
cost., n. 239, n. 311 e n. 317 del 2009; Corte cost., n. 39 del 2008; v., in specie,
Corte cost., n. 80 del 2011, che ha riaffermato e precisato la portata di quel
criterio dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 2007).
16

9,91

y

giuridica dei fatti operata, nei termini innanzi esposti, dal Tribunale di primo

Più di recente la Consulta, nel tentativo di affinare quel ‘meccanismo di
adeguamento’ del diritto interno alle norme di fonte sovranazionale, ha sì
ribadito la validità del principio innanzi delineato, ma ne ha puntualizzato la
portata applicativa: chiarendo che la stessa Corte costituzionale – e, dunque,
anche il giudice comune chiamato ad effettuare, in prima battuta, quella verifica
di ‘compatibilità’ – non può “sindacare l’interpretazione della Convenzione fornita
dalla Corte di Strasburgo [talchè] le norme della CEDU […] devono essere
applicate nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”,

Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano. La norma
CEDU, nel momento in cui va ad integrare il comma 1 dell’art. 117 Cost., da
questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in
termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni cui
questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza”; ai Giudici delle
leggi – così come ai giudici comuni – “compete, insomma, di apprezzare la
giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente, in modo da
rispettarne la sostanza, ma con un margine di apprezzamento e di adeguamento
che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui
la norma convenzionale è destinata a inserirsi” (così in Corte cost., n. 236 del
2011; conf., più di recente, Corte cost., n. 303 del 2011).
In altri termini, il giudice nazionale – lungi dall’essere vincolato a conformarsi
al risultato dell’esegesi ‘autentica’ operata dalla Corte europea: obbligo la cui
conformità al principio dell’art. 101, comma 2, Cost., in base al quale i giudici
sono soggetti solo alla legge, si sarebbe potuta mettere in discussione – può a
sua volta interpretare la norma della CEDU, con l’unico limite di rispettare la
sostanza delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza di Strasburgo.
Nel noto ‘caso Drassich’, la Corte europea dei diritti dell’uomo – esaminando la
questione in un processo penale nel quale la Cassazione, riqualificando i fatti
contestati, nella fattispecie di cui all’art. 319 ter cod. pen., aveva rigettato il
ricorso dell’imputato condannato dai giudici di merito in relazione al diverso
reato di cui all’art. 319 cod. pen. – in applicazione dell’art. art. 6, paragr. 3,
CEDU, ha affermato che era stato violato il diritto dell’imputato “ad essere
informato in maniera dettagliata della natura e dei motivi dell’accusa formulata
nei suoi confronti”, nonché il “diritto a disporre del tempo e delle facilitazioni
necessarie alla preparazione della sua difesa”, atteso che “la riqualificazione in
questione [aveva] avuto luogo al momento della deliberazione della corte di
cassazione” e che né “il pubblico ministero o uno dei magistrati che compongono
il collegio dell’alta giurisdizione [avevano] evocato l’opportunità di riqualificare i
fatti della causa in una fase anteriore del procedimento”, sicché “il ricorrente
17

ma può “valutare come ed in qual misura il prodotto dell’interpretazione della

[non era] stato avvertito della possibilità di una riqualificazione dell’accusa
formulata nei suoi confronti e, ancora meno, che egli [aveva] avuto l’occasione di
discutere in contraddittorio la nuova accusa”.
Ha spiegato la Corte di Strasburgo che “le disposizioni del paragrafo 3
dell’articolo 6” non riguardano solo la fase della formazione della prova, ma
“rivelano la necessità di porre una cura particolare nel notificare l’«accusa»
all’interessato. Poiché l’atto d’accusa svolge un ruolo fondamentale nel
procedimento penale, l’articolo 6 § 3 a) riconosce all’imputato il diritto di essere

vengono attribuiti e sui quali si basa l’accusa, ma anche, e in maniera
dettagliata, della qualificazione giuridica data a tali fatti (Pélissier e Sassi c.
Francia [GC], n. 25444/94, § 51, CEDU 1999-11). La portata di questa
disposizione deve essere valutata in particolare alla luce del più generale diritto a
un processo equo sancito dal paragrafo 1 dell’articolo 6 della Convenzione. In
materia penale, una informazione precisa e completa delle accuse a carico di un
imputato, e dunque la qualificazione giuridica che la giurisdizione potrebbe
considerare nei suoi confronti, è una condizione fondamentale dell’equità del
processo. […] Le disposizioni dell’articolo 6 § 3 a) non impongono alcuna forma
particolare per quanto riguarda il modo in cui l’imputato deve essere informato
della natura e del motivo dell’accusa formulata nei suoi confronti. Esiste peraltro
un legame tra i commi a) e b) dell’articolo 6 § 3, e il diritto di essere informato
della natura e del motivo dell’accusa deve essere considerato alla luce del diritto
per l’imputato di preparare la sua difesa (Pélissier e Sassi c. Francia già cit., §§
52-54). Se i giudici di merito dispongono, quando tale diritto è loro riconosciuto
nel diritto interno, della possibilità di riqualificare i fatti per i quali sono stati
regolarmente aditi, essi devono assicurarsi che gli imputati abbiano avuto
l’opportunità di esercitare i loro diritti di difesa su questo punto in maniera
concreta ed effettiva. Ciò implica che essi vengano informati in tempo utile non
solo del motivo dell’accusa, cioè dei fatti materiali che vengono loro attribuiti e
sui quali si fonda l’accusa, ma anche, e in maniera dettagliata, della
qualificazione giuridica data a tali fatti.”
In tale ottica, la verifica degli effetti della riqualificazione giuridica dei fatti
deve essere compiuta – hanno aggiunto i Giudici di Strasburgo – controllando se,
in concreto, sia “sufficientemente prevedibile per il ricorrente che l’accusa
inizialmente formulata nei suoi confronti [poteva essere] riqualificata”; “la
fondatezza dei mezzi di difesa che il ricorrente avrebbe potuto invocare se
avesse avuto la possibilità di discutere della nuova accusa formulata nei suoi
confronti”; ed ancora quali siano state “le ripercussioni della nuova accusa sulla
determinazione della pena del ricorrente”, ad esempio se la nuova qualifica
18

929-1

informato non solo del motivo dell’accusa, ossia dei fatti materiali che gli

comporti una modifica in peius del trattamento sanzionatorio e del computo della
prescrizione, tanto da portare il giudice, come in quella fattispecie era accaduto,
al rigetto della eccezione di “prescrizione del reato sollevata dal ricorrente […]
sulla base della nuova qualificazione giuridica dei fatti e tenuto conto del limite
massimo della pena applicabile al reato di corruzione in atti giudiziari, più
elevato rispetto a quello previsto per il reato di corruzione semplice”.
Tenute a mente le peculiarità della situazione processuale del ‘caso Drassich’,
caratterizzato dal fatto che la riqualificazione era stata effettuata, con risultati

non potè che disporre la rinnovazione del giudizio davanti a sè, in maniera tale
da garantire il diritto del ricorrente a essere informato in modo dettagliato della
natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico, beneficiando di un congruo
termine per apprestare la propria difesa (v. Sez. 6, n. 36323 del 25/05/2009,
Drassich, Rv. 244974).
Passando in rassegna gli altri precedenti della giurisprudenza di legittimità,
bisogna prendere atto come questa Corte si sia uniformata ai dicta della Corte
costituzionale e alle indicazioni provenienti dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo, sforzandosi di appurare, volta per volta, quali fossero stati, nella
sostanza, gli effetti della intervenuta riqualificazione e se le ragioni della difesa
fossero state o meno effettivamente pregiudicate. Così, ad esempio, in materia di
impugnazioni dei provvedimenti sulle misure cautelari personali, si è affermato
che la garanzia del contraddittorio in ordine alla diversa definizione giuridica del
fatto operata dal giudice è assicurata pur quando l’imputato abbia comunque
avuto modo di interloquire sul tema in una delle fasi del procedimento, ed in
particolare anche nell’ipotesi in cui la diversa qualificazione giuridica abbia
formato oggetto di discussione nel corso del procedimento incidentale

“de

libertate”. Tale principio è stato enunciato con riferimento ad una situazione
relativa alla derubricazione del reato, ad opera del giudice di appello, dalla
fattispecie di partecipazione ad associazione di tipo mafioso in quella di
favoreggiamento aggravato; tale ultima qualificazione giuridica, in precedenza,
era stata prospettata dal pubblico ministero nel ricorso per cassazione proposto
avverso la decisione del tribunale del riesame che aveva annullato la misura
cautelare applicata per il reato associativo; inoltre, in una memoria presentata
dalla difesa nel corso del giudizio di merito, erano state richiamate decisioni del
tribunale del riesame che avevano qualificato analoghe condotte come
favoreggiamento (Sez. 1, n. 9091 del 18/02/2010, Di Gati, Rv. 246494).
A simili conclusioni si è pervenuti con riferimento al giudizio di cognizione, in
relazione al quale si è chiarito che la garanzia del contraddittorio in ordine alla
diversa definizione giuridica del fatto deve ritenersi assicurata anche quando
19

919-,

pratici peggiorativi per il ricorrente, solo nel giudizio di legittimità, questa Corte

venga operata dal giudice di primo grado nella sentenza pronunziata all’esito del
giudizio abbreviato, in quanto con i motivi d’appello l’imputato è posto nelle
condizioni di interloquire sulla stessa, richiedendo una sua rivalutazione e
l’acquisizione di integrazioni probatorie utili a smentirne il fondamento (Sez. 6,
n. 10093 del 14/02/2012, Vinci, Rv. 251961). Seguendo la medesima
impostazione, si è ribadito che non viola il principio di correlazione tra accusa e
sentenza la riqualificazione giuridica del fatto operata per la prima volta dal
giudice di secondo grado, qualora l’imputato sia stato in grado di contestarla in

del proprio diritto al contraddittorio (Sez. 6, n. 22301 del 24/05/2012, Saviolo,
Rv. 254055; conf., in seguito, Sez. 2, n. 21170 del 07/05/2013, Maiuri, Rv.
255735).
Alla luce di tali criteri va escluso che la sentenza gravata abbia comportato una
insanabile violazione del diritto dell’imputato all’equo processo. E ciò non tanto e
non solo perché la riqualificazione giuridica delle condotte contestate al Giudice
non ha avuto effetti sfavorevoli per il prevenuto, in termini di sanzione irrogabile
o di calcolo del termine di prescrizione; ma soprattutto perché il prevenuto è
stato posto in condizioni di interloquire pienamente su quella scelta del Tribunale
di primo grado dapprima con l’atto di appello e poi, ancora, con il ricorso per
cassazione. Dunque, per l’odierno ricorrente la riqualificazione giuridica dei fatti
di causa operata dai Giudici di merito non è stata affatto una ‘sorpresa’, cioè una
situazione rispetto alla quale non gli sarebbe stato consentito di adeguatamente
interloquire.

3.2. Anche il secondo motivo del ricorso del Giudice è privo di pregio.
Premessa la genericità della doglianza difensiva in ordine all’asserita violazione
della norma prevista dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., per la mancanza di
riscontri estrinseci alle dichiarazioni accusatorie dei più collaboratori di giustizia tenuto conto che il ricorrente ha omesso di confrontarsi realmente con la
motivazione della sentenza gravata nella quale era stato chiarito come le
deposizioni dei collaboratori, oltre che riscontrarsi tra loro, erano state
corroborate nella loro attendibilità proprio dall’accertato coinvolgimento del
prevenuto nella consumazione della estorsione in danno della società GSM vanno qui richiamate le considerazioni sopra esposte nel punto 2.2.3. a proposito
della configurabilità del concorso esterno nel reato di associazione mafiosa.
Sulla base di quei criteri di giudizio deve escludersi la sussistenza della dedotta
violazione delle norme di diritto penale sostanziale oggetto di contestazione al
capo A), avendo la Corte distrettuale, con motivazione congrua ed esente da vizi
di manifesta illogicità, puntualizzato come il Giudice dovesse essere considerato
20

919-1

sede di ricorso per cassazione, senza subire alcuna compressione o limitazione

concorrente esterno nella commissione del delitto associativo in esame, avendo
le prove acquisite dimostrato che lo stesso, pur senza aver formalmente aderito
al sodalizio criminale di stampo mafioso denominato ‘cosa nostra’, aveva fornito
uno stabile e continuativo contributo alla realizzazione degli scopi delittuosi di
quella organizzazione, offrendo rifugio al latitante Giuseppe Trubia (come da
questi, divenuto collaboratore di giustizia, riferito: v. pagg. 42-43 sent. primo
grado, idonea ad integrare la conforme pronuncia di secondo grado);
beneficando dell’aggiudicazione di subappalti, frutto di pressioni mafiose attuate

servigi a disposizione di altri componenti dell’associazione, quali Carmelo Barbieri
e Massimo Carmelo Billizzi (come riscontrato dalle deposizioni dei collaboratori di
giustizia Barbieri e Smorta: v. pagg. 43-44 sent. primo grado); nonché
concorrendo nella commissione di un grave episodio estorsivo, quello, più volte
richiamato, del quale era stato vittima l’amministratore della società GSM,
nell’ambito della cui prolungata consumazione egli aveva pure tratto l’indebito
vantaggio personale di essere assunto come dipendente dalla medesima società,
anche al fin di curare, da intraneus nell’azienda, gli interessi dei sodali mafiosi
(v. pagg. 16-19 sent. impugn.).

3.3. Inammissibile appare il terzo motivo del ricorso del Giudice, in quanto
formulato per fare valere ragioni diverse da quelle consentite dalla legge.
La sentenza impugnata ricostruisce in fatto la vicenda con motivazione
esaustiva, immune da vizi logici e strettamente ancorata alle emergenze
processuali, sicché può ritenersi definitivamente acclarato come il Giudice avesse
consapevolmente concorso nella consumazione della più volte estorsione
aggravata in danno del Di Stefano, amministratore della società GSM Generai
Contractors, in quanto le precise indicazioni provenienti dal collaboratore di
giustizia Billizzi – il quale aveva ricordato come egli avesse affidato la materiale
realizzazione del proposito delittuoso proprio al Giudice che, agendo in suo nome
e per conto del relativo gruppo mafioso, aveva chiesto ed ottenuto dal titolare di
quella società i versamento di un ‘pizzo’ di 30.000 euro – oltre a trovare conforto
nel contenuto di una intercettazione ambientale relativa ad una conversazione
cui aveva preso parte Salvatore Rinzivillo, affiliato alla cosca gelese di ‘cosa
nostra’, erano risultate riscontrate dalle deposizioni di altri collaboratori di
giustizia, quali Marcello Orazio Sultano, già appartenente al gruppo mafioso della
‘stidda’, ed i già menzionato Smorta e Barbieri, i quali avevano riferito come il
provento di quella estorsione fosse stato materialmente prelevato da ‘Giovanni’
di Vittoria (ovvero da Giovanni Giudice) e da questi versato al componente del
gruppo mafioso Domenico Vullo che, dopo l’arresto del Billizzi, era subentrato
21

mi

dagli affiliati al clan capeggiato dallo stesso Trubia; mettendo, in seguito, i propri

nella “gestione” di tale reato. Ciò senza neppure trascurare la significativa
testimonianza di Gaetano Condorelli, capocantiere della impresa, che aveva
rammentato di essersi lamentato con il Di Stefano della presenza del Giudice,
dipendente i cui compiti egli aveva ritenuto inutili e superflui, e di avere ricevuto
dal legale rappresentante della società (all’epoca già destinatario della
minacciosa pretesa estorsiva) la secca ed inequivoca risposta che il nuovo
assunto “doveva lavorare” nel cantiere (v. pagg. 20-25 sent. impugn.).
I rilievi formulati al riguardo dal ricorrente si muovono, dunque, nella

risolvono, quindi, in non consentite censure in fatto all’iter argomentativo seguito
dalla sentenza di merito, nella quale, peraltro, vi è puntuale risposta a dette
censure, in gran parte sovrapponibili a quelle già sottoposte all’attenzione della
Corte territoriale.

3.4. Manifestamente infondato è il quarto motivo del ricorso, avendo la Corte
di appello di Caltanissetta chiarito come il concorso esterno nel reato associativo
addebitato al Giudice, pur formalmente contestato come commesso fino al 2008,
per il prevenuto dovesse cronologicamente essere riferito a tutto il 2007, e cioè
al periodo in cui era stato commessa l’estorsione in danno della società GSM (v.
pag. 26 sent. impugn.), con la conseguenza che il termine di prescrizione minimo
di dieci anni (calcolato, giusta la previsione del combinato disposto degli artt.
157 cod. pen. e 10 legge n. 251 del 2005, in relazione alla pena edittale prevista
per il reato di cui all’art. 416 bis, comma 1, cod. pen., prima delle modifiche
introdotte dall’art. 1 del d.l. n. 92 del 2008) non è ancora decorso.

3.5. Infondato è il quinto motivo del ricorso del Giudice.
Nel caso di specie è accaduto che riformando la pronuncia di condanna di
primo grado – con la quale il Tribunale di Gela, riconosciuta la continuazione tra i
due reati accertati a carico del prevenuto, aveva erroneamente reputato più
grave quello associativo contestato al capo A) – la Corte di appello ha ritenuto di
operare il ricalcolo della pena, partendo da quella base per il più grave reato di
estorsione sub capo F), con l’aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 7 d.l. n.
152 del 1991, che, confermato il giudizio di equivalenza tra le già concesse
attenuanti generiche e le aggravanti, aumentata per la continuazione con l’altro
delitto sub capo A), è stata fissata in misura inferiore a quella già determinata
dal Tribunale.
Tale soluzione risulta conforme all’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale
laddove, come nella fattispecie si è verificato, il giudice di appello, nell’esercizio
del potere-dovere di correggere gli errori di diritto contenuti nella sentenza
22

prospettiva di accreditare una diversa lettura delle risultanze istruttorie e si

impugnata, applicando la disciplina della continuazione, abbia rideterminato la
pena base con riferimento ad un reato diverso da quello erroneamente
individuato dal primo giudice come reato più grave, non trova applicazione il
divieto della

“reformatio in peius” che riguarda soltanto il risultato finale

dell’operazione di computo della pena (così, tra le molte, Sez. 3, n. 25606 del
24/03/2010, Capolino e altro, Rv. 247739). Né risulta contraddetto la regola
fissata dalla Sezioni Unite della Corte per la quale, nel giudizio di appello, il
divieto in argomento non riguarda solo l’entità complessiva della pena, ma anche

è stato enunciato con riferimento alla particolare ipotesi nella quale il giudice di
secondo grado, escludendo una circostanza aggravante e, per l’effetto,
rideterminando una sanzione inferiore a quella applicata in precedenza, non può
fissare la pena base del calcolo in misura superiore rispetto a quella determinata
in primo grado (v. Sez. U, n. 40910 del 27/09/2005, William Morales, Rv.
232066): situazione evidentemente diversa da quella considerata nel caso oggi
in esame nel quale, come si è anticipato, non è stata operata la esclusione di
alcuna circostanza aggravante, ma la pena per il reato continuato è stata
ricalcolata partendo da una pena base per un reato diverso da quello
erroneamente ritenuto più grave dal giudice di prime cure, aumentata per la
continuazione con l’altro meno grave reato ‘satellite’.

3.6. Il sesto ed ultimo motivo del ricorso del Giudice è inammissibile per
carenza di interesse, in quanto la denunciata violazione del ‘meccanismo’ di
calcolo della pena previsto dall’art. 7, comma 2 legge n. 203 del 1991, non ha
comportato alcun effetto pratico, tenuto conto e attenuanti generiche erano
state riconosciute all’imputato con giudizio di equivalenza rispetto alle altre
contestate aggravanti, talché è stato irrilevante che l’aumento di pena ai sensi
del suddetto art. 7 sia stato operato dopo e non prima della applicazione
(sostanzialmente ‘neutra’) di quelle attenuanti.

4. Ritiene la Corte che il ricorso presentato nell’interesse dell’imputato Antonio
Padovani vada rigettato.

4.1. Priva di pregio appare l’eccepita nullità della sentenza per avere la Corte
di merito asseritamente omesso di rispondere ad una specifica censura avanzata
con l’atto di appello in ordine alla ‘confusione’ che i Giudici di primo grado
avevano commesso, attribuendo all’iniziativa dell’apertura della sala scommesse
di Gela (in realtà, mai avvenuta) elementi di prova riferibili all’iniziativa, attuata,
dell’apertura di altra sala scommessa a Niscemi. A tale obiezione, infatti, la Corte

23

9i»-

tutti gli elementi che concorrono alla sua determinazione, in quanto tale principio

distrettuale ha dato una risposta (v. pag. 31 sent. impugn.), sulla cui congruità
logica è stata sollecitata una verifica, ma tanto basta ad escludere la sussistenza
della lamentata violazione di legge per omessa motivazione.

4.2. Il secondo motivo del ricorso è in parte aspecifico, in parte presentato per
fare valere ragioni diverse da quelle consentite dalla legge.
Quanto al denunciato travisamento delle prove, per avere la Corte di appello
attribuito al Padovani un concorso nel reato contestatogli sulla base

sala giochi di Niscemi, prestito che, invece, aveva riguardato il progetto di
apertura della sala scommesse di Gela, che non era mai avvenuta, va qui
richiamato quanto già sopra considerato nel punto 2.1.1., lì dove è stato
sottolineato come il travisamento di una prova, intanto può tradursi in un vizio
che determina l’annullamento della sentenza, in quanto gli sia riconosciuto un
carattere di decisività nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a
critica. Sotto questo punto di vista il ricorso in esame risulta avere un tenore
indeterminato, in quanto finalizzato a prospettare quel travisamento della prova,
senza, però, tenere conto che a carico dell’imputato vi erano altri e ben più
significativi elementi di prova atti a dimostrare il coinvolgimento del Padovani
anche nell’iniziativa imprenditoriale attuata con l’apertura dell’altra sala
scommesse (v. pagg. 28 e segg.).
In tale ottica, il ricorrente ha sostanzialmente sollecitato questo Collegio ad
un’inammissibile incursione nel merito, con una rilettura e rivalutazione degli
elementi di prova raccolti, laddove la Corte territoriale, con motivazione
adeguata e priva di vizi di manifesta illogicità, e con una convincente
ricostruzione logica della vicenda, aveva chiarito che il concorso del Padovani
nella commissione del delitto ascrittogli fosse stato dimostrato, oltre che dalle
parziali ammissioni dello stesso imputato e dalle precise dichiarazioni del
collaboratore di giustizia Carmelo Barbieri, dal contenuto delle intercettazioni
ambientali e telefoniche dalle quali era stato possibile evincere con certezza
come il contributo economico e di esperienza che il prevenuto poteva garantire
(in quanto amministratore della società Sport&Games e titolare della
indispensabile concessione per l’apertura di sale scommesse telematiche in tutta
Italia) fosse stato considerato, da tutti i parenti ed affini del capo mafia Giuseppe
Madonia, esiziale per la buona riuscita di entrambe le iniziative economiche,
aventi come scopo l’apertura di sale scommesse tanto a Gela quanto a Niscemi,
benchè solo la seconda fosse stata poi realizzata; come il Padovani, che aveva
avuto cura di mantenere i rapporti con i familiari del Madonia per il tramite di
tale Gaetano Palermo, fosse stato perfettamente a conoscenza di chi fossero i
24

9,9-i

dell’accertato prestito che lo stesso aveva fatto ai coimputati per l’apertura della

reali soggetti interessati a tali iniziative economiche e che il suo prezioso ed
insostituibile ruolo fosse stato considerato garanzia di riuscita anche dalla
coimputata Pasquala„ Cappello, consuocera del citato Giuseppe Madonia,
direttamente coinvolta nell’apertura della sala di Niscemi; ed ancora, come
proprio quest’ultima avesse manifestato la preoccupazione di evitare la
identificazione dei reali finanziatori dell’impresa e, allo scopo di mettere al riparo
l’azienda dalla possibile applicazione di misure di confisca antimafia, avesse
deciso di intestare la ditta al figlio Ivan Barbieri, l’unico soggetto che, in quanto

economica (v. pagg. 28-34 sent. impugn.; pagg. 20-28 sent. 1° grado).

5. A norma dell’art. 616 cod. proc. pen., segue la condanna dei quattro innanzi
elencati ricorrenti al pagamento in favore dell’erario delle spese del presente
procedimento.
Gli imputati Casciana e Giudice vanno, altresì, condannati in solido alla
rifusione delle spese sostenute in questo grado dalla costituita parte civile F.A.I.,
che si liquidano, tenuto conto delle tariffe forensi e dell’attività effettivamente
svolta, nella misura indicata nel dispositivo che segue.

6. Il ricorso presentato nell’interesse dell’imputato Dario Caravotta è, invece,
fondato.
Il Caravotta è stato condannato per avere concorso nella consumazione del
contestato delitto di usura in danno dei commercianti Salvatore Chiolo e Angelo
Chiantia per avere svolto il ruolo di tramite e garante tra le due vittime e
l’usuraio Claudio Domicoli, che aveva consegnato al Caravotta la somma di
20.000 euro, destinata ai due imprenditori, data in prestito al tasso usurario del
10% mensile: Caravotta – che, per garantire l’operazione, aveva consegnato al
Domicoli tre suoi assegni postdatati del valore complessivo di 24.000 euro,
ricevendo i 20.000 euro in contanti poi consegnati al Chiolo ed al Chiantia che, a
loro volta, gli avevano dato loro assegni – è stato ritenuto responsabile per avere
conseguito, quale corrispettivo per la sua attività di mediazione, l’indebito
profitto di 2.500 euro.
Con le sentenze di primo e di secondo grado i Giudici di merito hanno
valorizzato, in particolare, il contenuto delle dichiarazioni accusatorie rese dal
collaboratore di giustizia Carmelo Barbieri ed il contenuto di una conversazione
tra presenti, captata dagli inquirenti, intrattenuta dal Caravotta con il Chiolo ed il
Chiantia, ed hanno sostenuto l’assenza di elementi idonei a riscontrare la
versione difensiva secondo la quale la somma di 2.500 euro, detratta dai 20.000
euro in contanti, che l’imputato aveva trattenuto, fosse imputabile in parte (per

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incensurato, avrebbe potuto assicurare uno “schermo” all’avvianda attività

1.200 euro) alla restituzione di un precedente prestito fatto ai due dal Caravotta
e, in parte (1.300 euro), ad un’ulteriore somma che, sul momento, il Chiolo ed il
Chiantia avevano deciso di mutuare all’amico per consentirgli di fare fronte ad un
improvvisa esigenza.
Senonché, il ricorrente ha dimostrato come sia il Tribunale che la Corte di
appello avessero omesso di considerare la parte finale di quel colloquio
intercettato, nel quale vi era un chiaro riferimento alla somma appena
consegnata, che, alla fine del mese, il Caravotta si era impegnato a restituire al

una ipotesi di travisamento della prova per omissione – incide evidentemente
sulla tenuta logica dell’intero apparato argomentativo privilegiato dalla Corte
territoriale ed impone, pertanto, l’annullamento della sentenza gravata con
rinvio, per nuovo giudizio, ad altra sezione della medesima Corte di appello.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Caravotta Dario e rinvia, per
nuovo giudizio, ad altra sezione della Corte di appello di Caltanissetta.
Rigetta i restanti ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese
processuali, nonché Casciana Nicola e Giudice Giovanni a rifondere alla parte
civile F.A.I. le spese sostenute in questo grado che liquida in euro 3.500,00 in
solido, oltre iva e cpa.
Così deciso il 05/12/2013

Chiolo e al Chiantia: circostanza, questa, la cui mancata valutazione – integrante

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