Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 49787 del 05/06/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 49787 Anno 2013
Presidente: MARASCA GENNARO
Relatore: GUARDIANO ALFREDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Bellemans Jean, nato ad Uccle (Belgio) il 10.12.1939, avverso la
sentenza pronunciata dalla corte di appello di Milano il 6.12.2011;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Alfredo Guardiano;
udito il pubblico ministero nella persona del sostituto procuratore
generale dott. Gioacchino Izzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito per il ricorrente il difensore di fiducia, avv. Federico Sinicato, del
Foro di Milano, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso, ai cui
motivi si è riportato, chiedendo, inoltre, che venisse acquisita copia
dell’ordinanza emessa dal tribunale di Milano in data 23.4.2002.

FATTO E DIRITTO

Data Udienza: 05/06/2013

1. Con sentenza del 6.12.2011 la corte di appello di Milano, in parziale
riforma della sentenza con cui il tribunale di Milano, in data 3.11.2004,
aveva condannato Bellemans Jean, nella qualità di consigliere di
amministrazione della società “De Angeli Frua s.p.a.”, dichiarata fallita il

reati di bancarotta fraudolenta per dissipazione, allo stesso contestati
nei capi A2), limitatamente all’imposto di £ 458.067.590.350, e A3)
dell’imputazione, in essi assorbito anche l’addebito contestato sub B),
rideterminava il trattamento sanzionatorio in senso più favorevole per il
reo, valutando meno gravemente la sua condotta, mentre confermava
nel resto l’impugnata sentenza.
2.

Avverso la decisione della corte territoriale, di cui chiede

l’annullamento, ha proposto impugnazione l’imputato, articolando tre
autonomi motivi di ricorso.
3. Con il primo motivo il ricorrente lamenta il vizio della mancanza e
della manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, in
relazione agli artt. 216, co. 1, n. 1, 223, co. 2, n. 2 e 219, co. 1, n. 2, I.
fa Il.
In particolare, ad avviso del ricorrente, premesso che le operazioni
contestate all’imputato si inseriscono nell’ambito di rapporti tra gruppi di
società collegati e che l’art. 2634, c.c., prevede che “in ogni caso non è
ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo se compensato da
vantaggi conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal
collegamento o dall’appartenenza al gruppo”, la corte territoriale non ha
spiegato in base a quali elementi ha ritenuto che il Bellemans potesse
valutare, ex ante, le conseguenze dannose della sua condotta.
Nella prospettiva del ricorrente, dunque, tenuto conto che la stessa corte
di appello evidenzia come una delle due operazioni in contestazione sia
stata realizzata nel settembre del 1990, vale a dire probabilmente
persino prima del periodo in cui l’imputato assunse il ruolo di
amministratore della società fallita, il giudice di secondo grado avrebbe
dovuto dimostrare che il Bellemans fosse consapevole della portata

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6.10.1992, alle pene, principale ed accessorie, ritenute di giustizia, per i

dissipatrice della propria condotta, ovvero che i propri atti avrebbero
potuto ledere o porre in pericolo gli interessi di eventuali creditori, posto
che l’imputato era nella condizione di potere legittimamente pensare,
invece, che le operazioni in questione si inserissero in una più complessa
strategia di lungo periodo, foriera di futuri risultati positivi per l’intero

4. Il motivo di ricorso testé illustrato non può essere accolto, perché
infondato.
4.1 La previsione dell’art. 2634, comma 3, c.c., che, relativamente alla
fattispecie incriminatrice dell’infedeltà patrimoniale degli amministratori

l

esclude la rilevanza penale dell’atto depauperatorio in presenza dei cd.
“vantaggi compensativi” dei quali la società apparentemente
danneggiata abbia fruito o sarebbe stata in grado di fruire in ragione
della sua appartenenza a un più ampio gruppo dì società, conferisce
valenza «normativa» a principi — già desumibili dal sistema, in punto di
necessaria considerazione della reale offensività — che sono senz’altro
applicabili anche alle condotte sanzionate dalle norme fallimentari e,
segnatamente a fatti di disposizione patrimoniale contestati come I
distrattivi o dissipativi.
Ne consegue che, se si accerta che l’atto non risponde all’interesse
diretto della società il cui amministratore lo ha compiuto e che ne è
scaturito nell’immediato un danno al patrimonio sociale, potrà ben
ammettersi che il medesimo amministratore deduca e dimostri
l’esistenza di una realtà di gruppo alla luce della quale anche quell’atto è
destinato ad assumere una coloritura diversa e quel pregiudizio a
stemperarsi
4.2 Peraltro, come evidenziato dalla costante giurisprudenza della
Suprema Corte, condivisa dal Collegio, proprio il fatto che siffatta analisi
ha lo scopo di verificare l’offensività in concreto della condotta, rende
evidente che non è sufficiente, al fine di escludere la riconducibilità di
un’operazione di diminuzione patrimoniale senza apparente corrispettivo
ai fatti di distrazione o dissipazione incriminabili, la mera ipotesi della
sussistenza di vantaggi compensativi, ma occorre che gli ipotizzati

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i

gruppo societario.

benefici indiretti della società fallita, che l’amministratore ha l’onere di
allegare e provare, risultassero non solo effettivamente connessi ad un
vantaggio complessivo del gruppo, ma altresì idonei a compensare
efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione
compiuta: in guisa tale da non renderla capace di incidere (perlomeno

società (cfr. Cass., sez. V, 24/05/2006, n. 36764, L.B., rv. 234605;
Cass., sez. I, 26/10/2012, n. 48327, V.M.).
4.3 Può pertanto conclusivamente affermarsi che in tema di bancarotta
fraudolenta, qualora il fatto si riferisca a rapporti intercorsi fra società
appartenenti al medesimo gruppo, solo il saldo finale positivo delle
operazioni compiute nella logica e nell’interesse del gruppo, può
consentire di ritenere legittima l’operazione temporaneamente
svantaggiosa per la società sacrificata, nel qual caso è l’interessato a
dover fornire la prova di tale circostanza (cfr. Cass., sez. V, 9.5.2012, n.
29036, Cecchi Gori e altro, rv. 253031).
4.4. Tale prova non è stata fornita dal ricorrente, il quale, come
evidenziato dal giudice di secondo grado, ha partecipato alle diverse
operazioni dissipative, rivestendo ruoli di gestione e di direzione
“simultanei” all’interno delle diverse società tra cui sono state realizzate
le transazioni, che hanno depauperato il patrimonio della “De Angeli
Frua s.p.a.”.
Ed invero, a fronte dell’analitica analisi delle operazioni dissipative svolta
in motivazione dalla corte territoriale (cfr. pp. 1-2; 4-5), peraltro non
contestate specificamente dall’imputato, consistenti in “dazioni di enormi
somme di denaro” da parte della società fallita, “effettive e concrete, a
fronte di contropartite evidentemente fittizie, laddove legate al
trasferimento di pacchetti azionari di impossibile gestione e disponibilità,
oltre che di titolarità assai dubbiamente conservabile, posto che
trattavasi di pacchetti societari concessi in pegno, a garanzia di
correlative posizioni debitorie”, la cui unica finalità veniva individuata dal
giudice di secondo grado, con argomentare dotato di robusta coerenza
logica, nel “drenare le residue possibilità finanziarie e reddituali della

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nella ragionevole previsione dell’agente) sulle ragioni dei creditori della

società, fino a quel momento risparmiate dalla crisi globale del gruppo”
in cui si inseriva, il ricorrente si è limitato a prospettare la semplice
possibilità per il Bellemans di ritenere che le operazioni in questione si
traducessero in un vantaggio complessivo per il gruppo, tacendo del
tutto ogni considerazione sulla (necessaria) consapevolezza da parte sua

efficacemente gli effetti immediatamente negativi da esse derivanti, in
modo da depotenziarne la capacità di incidere negativamente sulle
ragioni dei creditori della società e sulla esistenza di un saldo finale
positivo delle operazioni compiute nella logica e nell’interesse del
gruppo.
5. Con il secondo motivo di ricorso, l’imputato lamenta il vizio della
mancanza e della manifesta illogicità della motivazione della sentenza
impugnata, in relazione agli artt. 110 e 114, c.p., per non avere la corte
territoriale riconosciuto in favore del Bellemans la circostanza attenuante
di cui all’art. 114, c.p., di cui, invece, secondo il ricorrente, ricorrono i
presupposti, in quanto il Bellemens era una semplice “pedina” nella mani
del vero dominus del gruppo, Fiorini Florio, di cui era un mero esecutore,
come, in fondo, dalla stessa corte di appello riconosciuto nelle parti della
motivazione in cui parla di “asservimento”, “coercizione” e “vincolo”, cui
era sottoposto il reo, senza, tuttavia, trarne le logiche conclusioni in
termini di riconoscimento della menzionata attenuante.
5.1 Nel corpo del medesimo motivo, inoltre, il ricorrente lamenta anche
il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, con
giudizio di prevalenza sulle contestate circostanze aggravanti dei più
fatti di bancarotta e del danno di rilevante gravità.
6. Anche questo motivo di ricorso appare infondato.
6.1 Come è noto, infatti, per l’integrazione della circostanza attenuante
della minima partecipazione, ex art. 114, c.p., non è sufficiente una
minore efficacia causale dell’attività prestata da un correo rispetto a
quella realizzata dagli altri, essendo, invece, necessario che il contributo
offerto si sia concretizzato nell’assunzione di un ruolo di rilevanza
davvero marginale, cioè di efficacia causale così limitata rispetto

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che i risultati di tali operazioni fossero idonei a compensare

all’evento da risultare accessorio nel generale quadro del percorso
criminoso di realizzazione del reato, senza apprezzabili conseguenze
pratiche sul risultato complessivo dell’azione criminosa (cfr. Cass., sez.
VI, 24/11/2011, n. 24571, P. e altro; rv. 253091; Cass., sez. I,
15/04/2010, n. 32324; M. e altro, nonché Cass., sez. V, 06/07/2011, n.

6.2. Tale non appare l’attività prestata dal Bellemans, che ha partecipato
alle operazioni innanzi indicate proprio in virtù del suo ruolo di
collaboratore di fiducia del Fiorini e della sua competenza, maturata
nella cura dei rapporti bancari e del settore assicurativo nell’interesse del
gruppo (cfr. p. 2 dell’impugnata sentenza), che lo avevano condotto a
svolgere ruolo di gestione e di direzione in diverse società,
indispensabile per la conclusione delle transazioni di cui è stata
accertata la natura dissipatrice.
Inoltre, come ammesso implicitamente dallo stesso ricorrente, pur
essendo asservito al Fiorini, il Bellemans gli era necessario per portare a
compimento il suo disegno criminoso, consentendogli, tra l’altro, di
“costituire, almeno formalmente, consigli di amministrazione formati da
uomini diversi” (cfr. pp. 7-8 del ricorso).
6.3 Manifestamente inammissibile è l’ulteriore doglianza di cui al punto
5.1, che si risolve in una mera censura di merito, non consentita in sede
di legittimità.
7. Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta il vizio di cui
all’art. 606, co. 1, lett. c), c.p.p., in relazione agli artt. 111, Cost., 6,
C.E.D.U., 178, 179, 180, 181, 533, c.p.p., per la mancata traduzione in
lingua francese degli atti compiuti prima che tale traduzione venisse
disposta dal giudice procedente, rilevando, inoltre, a chiusura delle sue
deduzioni, che la colpevolezza dell’imputato non è stata dimostrata al di
là di ogni ragionevole dubbio, sia sul piano fattuale che su quello
dell’elemento psicologico del reato, e che la durata complessiva del
procedimento a carico del Bellemans ha superato di gran lunga “i
principi stabiliti nella giurisprudenza della Corte di Stasburgo e nella
relazione CALVEZ” sull’efficienza della giustizia in Europa.

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40092, S., rv. 251121).

8.

Preliminarmente va sciolta in senso negativo la riserva sulla

acquisizione dell’ordinanza del tribunale di Milano prodotta in udienza
dal difensore dell’imputato, in quanto nel giudizio di legittimità possono
essere prodotti esclusivamente i documenti che l’interessato non sia
stato in grado di esibire nei precedenti gradi di giudizio (e non è certo

sempre che essi non costituiscano nuova prova e non comportino
un’attività di apprezzamento circa la loro validità formale e la loro
efficacia nel contesto delle prove già raccolte e valutate dai giudici di
merito (cfr. Cass., sez. II, 11/10/2012, n. 1417,
rv. 254302).
9. Tanto premesso, l’unica questione su cui occorre soffermarsi è quella
riguardante l’omessa traduzione in lingua francese di atti processuali,
posto che le altre doglianze appaiono manifestamente inammissibili per
la loro genericità e irrilevanza.
9.1 Orbene il ricorso, sul punto, appare del tutto generico, non avendo il
difensore indicato o allegato specificamente, in violazione del principio
della cd. autosufficienza del ricorso, l’atto o gli atti, di cui lamenta la
mancata traduzione in lingua francese.
Peraltro, e con particolare riferimento al contenuto del decreto che
dispone il giudizio, va rilevato che correttamente, come evidenziato dalla
corte territoriale, il tribunale ne aveva disposto la traduzione in francese,
procedendo, poi, una volta tradotto, alla rinnovazione della notifica del
decreto in questione al Bellemans.
Infatti, come affermato dalla prevalente giurisprudenza di legittimità,
condivisa dal collegio, in presenza di un decreto di rinvio a giudizio
ritualmente notificato, spetta al giudice del dibattimento provvedere alla
rinnovazione della citazione previa traduzione del decreto nella lingua
conosciuta dall’interessato, risultando abnorme, perché esula dal
sistema processuale e determina una indebita stasi del procedimento, il
provvedimento con il quale il suddetto giudice disponga la restituzione
degli atti al giudice per le indagini preliminari sul rilievo dell’omessa
traduzione del provvedimento che dispone il giudizio nella lingua

7

questo il caso del provvedimento emesso nel lontano 23.4.2002),

conosciuta dall’imputato (cfr. Cass., sez. IV, 17/09/2010, n. 41039, B.;
Cass., sez. I, 27.4.2006, n. 16028, Confl. comp. in proc. Sultana, rv.
234263)
10. Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso proposto
nell’interesse del Bellemans, va, dunque, rigettato, con condanna del

procedimento.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma il 5.6.2013

ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del

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