Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 49766 del 15/10/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 49766 Anno 2013
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: ROMIS VINCENZO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MONSU’ CARMELO N. IL 25/08/1960
avverso l’ordinanza n. 17/2011 CORTE APPELLO di
CALTANISSETTA, del 20/09/2011
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. VINCENZO ROMIS;
lette/sottile-le conclusioni del PG Dott.

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Data Udienza: 15/10/2013

RITENUTO IN FATTO
Monsù Carmelo veniva tratto in arresto a seguito di ordinanza di custodia cautelare
in carcere con la contestazione dei reati di usura e tentata estorsione; posto poi agli
arresti domiciliari, veniva quindi scarcerato per decorrenza dei termini di fase ed
infine assolto per insussistenza dei fatti con sentenza del GUP del Tribunale di
Caltanissetta confermata con sentenza della Corte d’Appello di quella città divenuta

Con domanda presentata alla Corte di Appello di Caltanissetta il Monsù chiedeva
quindi l’equa riparazione, per l’ingiusta detenzione subita, quantificandola nella
misura di euro 44.686,00.
La Corte d’Appello adita, provvedendo con ordinanza depositata il 24/11/2011,
rigettava la domanda. In particolare la Corte territoriale riteneva ravvisabili nella
condotta del Monsù gli estremi della colpa grave, ostativa al diritto all’equa
riparazione, sulla scorta delle seguenti specifiche circostanze fattuali che, ad avviso
della Corte stessa, avevano legittimato l’intervento dell’Autorità nei confronti del
Monsù medesimo con l’arresto: a) la parte lesa Catalfo Paolo aveva dichiarato in
sede di indagini, con riferimento a Monsù Carmelo: 1) di aver ottenuto da
quest’ultimo nel maggio 2004 un prestito di 8.000,00 euro in cambio della
promessa di pagamento di 2.000,00 euro a titolo di interessi complessivi per due
mesi; 2) di non essere stato in grado, alla scadenza, di onorare integralmente
l’impegno debitorio, essendosi limitato a versare al Monsù soltanto una somma di
denaro in contanti pari a 3.000,00 euro; 3) di aver comunque consegnato al Monsù
un assegno a firma Domanico Giuseppe per l’importo di euro 10.800,00 da
imputarsi, quanto ad euro 7.000,00, alla residua parte di debito non onorato e,
quanto ad euro 3.800,00, agli interessi “medio tempore” maturati; 4) di aver subìto
da parte del Monsù, e, soprattutto, dal di lui fratello Angelo, una pesante azione
intimidatoria finalizzata ad ottenere il pagamento degli interessi pattuiti; b) nel
corso dei colloqui oggetto di attività di intercettazione il Monsù aveva rivolto al
Catalfo minacce in ordine alle quali il GUP aveva escluso qualsiasi connotazione di
illiceità ai fini del contestato reato di tentata estorsione, “siccome non funzionali ad
ottenere un ingiusto profitto, bensì semplicemente ad ottenere l’adempimento del
debito da parte di Catalfo Paolo” (così a pag. 4 dell’ordinanza impugnata con il
ricorso); c) dalle conversazioni intercettate era emerso che il Monsù – oltre ad aver
invitato il Catalfo a parlargli di persona – aveva rivolto a quest’ultimo pesanti
minacce, dal giudice della cognizione ritenute penalmente irrilevanti non perchè
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irrevocabile.

prive di effettiva portata intimidatoria, ma perché, non essendo stata raggiunta la
prova della pattuizione di interessi usurari – e quindi dell’ingiustizia del profitto non potevano integrare l’elemento oggettivo del reato di tentata estorsione; d) tali
minacce si erano innestate in una torbida vicenda non esplicitata in modo
comprensibile nemmeno dal Monsù il quale, in sede di interrogatorio di garanzia, si
era avvalso della facoltà di non rispondere mentre ben avrebbe potuto rendere la

Avverso detto provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione l’interessato con
atto di impugnazione sottoscritto dal difensore (cassazionista), deducendo vizio
motivazionale in ordine alla ritenuta sussistenza della colpa grave, sostenendo che
la Corte territoriale sarebbe incorsa in errore di impostazione e prospettiva nel
valutare le risultanze processuali ai fini che in questa sede interessano, in
particolare attribuendo rilievo alle dichiarazioni rese nel giudizio di cognizione dalla
parte lesa, rivelatesi poi del tutto non credibili non avendo trovato conferma nel
corso della verifica dibattimentale, ed apparse “claudicanti” (così letteralmente nel
ricorso) già nella fase delle indagini, tali da fuorviare ed ingannare l’Autorità
procedente; sostiene il ricorrente che nel corso delle telefonate intercettate il
Catalfo aveva anche cercato di tendere veri e propri “trabocchetti” al Monsù
sapendo di essere intercettato in quanto collaborante, e si duole che la Corte
territoriale non abbia tenuto conto della effettiva esistenza del credito vantato dal
Monsù; con il ricorso si afferma poi che il Monsù, avvalendosi della facoltà di non
rispondere nell’interrogatorio di garanzia, aveva esercitato il proprio diritto di difesa.
Il Ministero del Tesoro si è costituito – tramite l’Avvocatura dello Stato – con
memoria difensiva contestando l’assunto del ricorrente, con vittoria delle spese
come da nota allegata alla memoria.
Il Procuratore Generale presso questa Corte, con la sua requisitoria scritta, ha
chiesto il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso deve essere rigettato per l’infondatezza delle censure dedotte.
Secondo i princìpi elaborati ed affermati nell’ambito della giurisprudenza di questa
Suprema Corte, nei procedimenti per la riparazione per l’ingiusta detenzione, in
forza della norma di cui all’art. 646, secondo capoverso, c.p.p. – da ritenersi
applicabile per il richiamo

contenuto nel terzo

comma

dell’art. 315 c.p.p. –

la cognizione della Corte di Cassazione deve intendersi limitata alla sola legittimità
del provvedimento impugnato, ovviamente anche sotto l’aspetto della congruità e
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t49 cUitis i

propria versione dei fatti.

logicità della motivazione, e non al merito. E, per quel che concerne la verifica dei
presupposti e delle condizioni richieste perchè sussista in concreto il diritto all’equa
riparazione – in particolare, l’assenza del dolo o della colpa grave dell’interessato
nella produzione dell’evento restrittivo della libertà personale – le Sezioni Unite della
Corte di Cassazione, con la sentenza N. 43 del 13/12/1995-9/2/1996, hanno
enunciato il principio di diritto secondo cui la Corte territoriale deve procedere ad
autonoma valutazione delle risultanze processuali rispetto al giudice penale.

dall’impugnata ordinanza, ha motivato il proprio convincimento attraverso un
adeguato percorso argomentativo con le considerazioni sopra sinteticamente
ricordate, da intendersi qui integralmente richiamate onde evitare superflue
ripetizioni; orbene appare all’evidenza che trattasi di un “iter” motivazionale
assolutamente incensurabile in quanto caratterizzato da argomentazioni pienamente
rispondenti a criteri di logicità ed adeguatezza, nonchè in sintonia con i princìpi
enunciati da questa Corte in tema di dolo e colpa grave quali condizioni ostative al
diritto all’equa riparazione: si ha colpa grave allorquando il soggetto sia venuto
meno all’osservanza di un dovere obiettivo di diligenza, con possibilità di prevedere
che, non rispettando una regola precauzionale, venendo meno all’osservanza del
dovere di diligenza, si sarebbe verificato l’evento “detenzione” (cfr., fra le tante:
Sez. 4, n. 3912/96 – cc. 29/11/95 – RV. 204286; Sez. 4, n. 596/96, RV. 204624);
la sinergia, sulla custodia cautelare, del comportamento dell’istante può riguardare
“sia il momento genetico che quello del permanere della misura restrittiva”

(

così,

“ex plurimis”, Sez. 4, n. 963/92, RV. 191834). Giova evidenziare, ancora, che le
Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 43 del 1995 già sopra ricordata,
hanno sottolineato che: a) “deve intendersi dolosa

non solo la condotta volta

alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia
esso confliggente o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta
consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio
con il parametro dell’ «id quod plerumque accidit» secondo le regole di
esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme
sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità,
ragionevolmente ritenuta in pericolo”; b) “poichè inoltre, anche ai fini che qui
interessano, la nozione di colpa è data dall’art. 43 cod. pen., deve ritenersi ostativa
al riconoscimento del diritto alla riparazione

quella condotta che, pur tesa ad

altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza, imprudenza,
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Nella fattispecie in esame, la Corte d’Appello di Caltanissetta, per quanto si evince

trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una
situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento
dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo
della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso”.
Da ultimo, talune osservazioni si impongono in tema di silenzio (o mendacio) quale esercizio del diritto di difesa nel giudizio di cognizione – ai fini della domanda
di equa riparazione. Mette conto sottolineare, invero, che il silenzio del Monsù non è

stato considerato, in presenza di una condotta antecedente ritenuta a ragione (per
le circostanze sopra ricordate) sinergica all’evento detenzione, quale ulteriore
comportamento idoneo a legittimare il permanere della misura restrittiva, avendo il
Monsù rinunciato – pur se nell’esercizio del suo legittimo diritto ad avvalersi della
strategia difensiva ritenuta più idonea ai fini processuali – ad offrire elementi idonei
a contrastare il quadro indiziario emerso a suo carico e scaturito da una condotta
riconducibile alla sua volontà e di per sè chiaramente colposa per quanto innanzi
evidenziato: sulla configurabilità della condotta sinergica al protrarsi dello stato di
detenzione, in quanto comportamento omissivo causalmente efficiente nel
permanere della misura cautelare, nel caso di mancato esercizio della facoltà
difensiva di allegare fatti favorevoli, cfr. Quarta Sez. Pen., n. 16370/2003, imp.
Giugliano, RV. 224774.
Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del
procedimento.
Il ricorrente va altresì condannato a rifondere al Ministero dell’Economia e delle
Finanze, resistente, le spese del presente giudizio che si liquidano in complessivi
euro 750,00,
P. Q. M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali,
nonché alla rifusione in favore del Ministero resistente delle spese di questo
giudizio, che liquida in euro 750,00.
Roma, 15 ottobre 2013

Il Presidente

Il Consiliere estensore
(Vi cenzo Romis)
(A.A■tAilto

(Carlo Giusep Brusco)
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1 O LL’)

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stato valutato dal giudice della riparazione quale unico elemento negativo, ma è

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

IV Sezione Penale

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