Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 49747 del 17/10/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 49747 Anno 2013
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: ROMIS VINCENZO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
BENZI MARIO N. IL 30/04/1986
avverso la sentenza n. 1286/2012 CORTE APPELLO di CATANIA, del
01/03/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 17/10/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. VINCENZO ROMIS
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. t/I tuttA,,,A4_9
che ha concluso per
1114o 40 •L•bCiVI/x,o

Udito, per la parte civile, Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 17/10/2013

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Modica condannava Benzi Mario alla pena di un anno di reclusione ed euro
70,00 di multa in ordine al reato di tentato furto – aggravato dalla minorata difesa e dall’aver agito con violenza sulle cose – in danno di Karolina Kasprzak, commesso il 17 ottobre

2. A seguito di rituale impugnazione, la Corte d’Appello di Catania confermava l’impugnata
decisione, disattendendo le deduzioni difensive concernenti sia l’affermazione di colpevolezza che il trattamento sanzionatorio, e dava conto del proprio convincimento con il richiamo
alle dichiarazioni testimoniali acquisite nel giudizio ed all’esito delle investigazioni svolte nell’immediatezza del fatto.

3. Ricorre per cassazione il Benzi, tramite il difensore, deducendo censure che possono così
sintetizzarsi: a) nullità della sentenza impugnata per aver la Corte territoriale indicato in epigrafe il reato nella forma consumata, e non quale tentativo come contestato con il capo di
imputazione, e per aver omesso di riportare le conclusioni delle parti; b) il fatto avrebbe dovuto essere diversamente qualificato, apparendo inverosimile ipotizzare un tentativo di furto
con modalità di effrazione rumorose: inoltre la Corte territoriale avrebbe ritenuto accertato
l’uso di arnesi da scasso, dando però atto di ciò con affermazione apodittica; c) vizio di motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche, potendo ben desumersi dai motivi
di appello elementi idonei a legittimare il riconoscimento dell’invocato beneficio; d) si eccepisce infine la prescrizione del reato, contestato come commesso il 17 aprile 2005, perchè il
relativo termine massimo – sette anni e mezzo in base all’art. 157 c.p. come novellato con
la legge n. 251/2005 – sarebbe decorso successivamente alla sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per le ragioni di seguito indicate.
4.1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato. Ed invero, a norma dell’art. 546
c.p., quanto ai requisiti della sentenza, questa è nulla solo nelle ipotesi di cui al terzo comma dello stesso articolo, nessuna delle quali ricorre nel caso in esame; giova al riguardo evocare quanto condivisibilmente precisato in materia nella giurisprudenza di legittimità:
1) “La mancata annotazione formale nella sentenza di secondo grado del capo di imputazione non costituisce causa di nullità della sentenza, stante la tassatività della previsione di cui
all’art. 546, comma terzo, cod. proc. pen.” [in termini, “ex plurimis”, Sez. 4, n. 4098 del
05/11/2008 Ud. – dep. 28/01/2009 – Rv. 242828 (a maggior ragione non rileva che, nella
concreta fattispecie, il reato sia stato indicato, nell’epigrafe della sentenza d’appello, come

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2005.

consumato e non come tentativo)]; 2) “L’omessa indicazione nell’intestazione della sentenza
delle conclusioni delle parti non costituisce motivo di nullità della pronunci” (in termini, cfr.
Sez. 6, n. 5907 del 29/11/2011 Ud. – dep. 15/02/2012 – Rv. 252404).

4.2. Con il secondo motivo vengono reiterate le tesi già sottoposte al vaglio del giudice di
seconda istanza. Orbene, va innanzi tutto posta in rilievo la genericità della censura, alla luce del condivisibile principio di diritto, enunciato ik e più volte ribadito nella giurisprudenza di
questa Corte, secondo cui “è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che

dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, invero,
dev’essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per
la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle
poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del
giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell’art. 591
comma 1 lett. c), all’inammissibilità” (in termini,

Sez. 4, n. 5191 del 29/03/2000 Ud. –

dep. 03/05/2000 – Rv. 216473; conf: Sez. 5, n. 11933 del 27/01/2005, dep. 25/03/2005,
Rv. 231708).
Ulteriore profilo di inammissibilità è poi ravvisabile nella manifesta infondatezza delle doglianze dedotte che concernono apprezzamenti di merito e valutazioni probatorie che non
possono formare oggetto del sindacato in questa sede. La Corte d’Appello ha reso adeguata
e logica motivazione, analizzando tutti gli aspetti della vicenda e spiegando le ragioni per le
quali ha ritenuto sussistente la penale responsabilità dell’imputato.
Giova sottolineare che, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, il vizio di
motivazione deducibile in sede di legittimità deve, per espressa previsione normativa, risultare dal testo del provvedimento impugnato, o – a seguito della modifica apportata all’art.
606.1, lett. e), c.p.p. dall’art. 8 della L. 20.2.2006, n. 46 – da “altri atti del procedimento
specificamente indicati nei motivi di gravame”; il che vuol dire – quanto al vizio di manifesta
illogicità – per un verso, che il ricorrente deve dimostrare in tale sede che l’iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico, e, per altro verso, che questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un’altra interpretazione o
di un altro iter, quand’anche in tesi egualmente corretti sul piano logico: ne consegue che,
una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla
vale opporre che questi atti si prestavano ad una diversa lettura o interpretazione, ancorché
munite di eguale crisma di logicità (cfr. Cass., Sez. Un., 27.9.1995, n. 30). Tale principio,
più volte ribadito dalle varie sezioni di questa Corte, è stato poi confermato ancora dalle
stesse Sezioni Unite le quali hanno precisato che: “esula dai poteri della Corte di Cassazione
quello di una «rilettura» degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui
apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare il
vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata,
valutazione delle risultanze processuali” (N.6402/97, imp. Dessimone ed altri,
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ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame,

RV. 207944); “l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione essere limitato per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare
l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il
suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare

rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento” (Sez. Un., ric. Spina, 24/11/1999, RV. 214793).
Nella concreta fattispecie la decisione impugnata si presenta formalmente e sostanzialmente
legittima ed i suoi contenuti motivazionali forniscono, con argomentazioni basate su una
corretta utilizzazione e valutazione delle risultanze probatorie, esauriente e persuasiva risposta ai quesiti posti dalla difesa dell’imputato. La Corte territoriale, confermando quanto
già argomentato dal primo giudice, ha infatti ancorato il proprio convincimento a circostanze
fattuali ritenute pacificamente acclarate, sottolineando quanto segue: 1) attraverso le dichiarazioni testimoniali acquisite in giudizio era stato accertato che, poco dopo la mezzanotte, Karolina Kasprzak aveva udito suonare il campanello di casa ma non aveva risposto; poco dopo aveva sentito un rumore provenire dalla porta della propria abitazione ed aveva
constatato che qualcuno stava tentando di aprire la porta; aveva invocato aiuto ed aveva
notato due persone scappare; aveva individuato in uno dei due Benzi Mario che conosceva
di vista; 2) i fatti come puntualmente descritti dalla persona offesa, la cui attendibilità non
era stata messa in dubbio neppure dall’appellante, presentavano tutte le caratteristiche necessarie ad integrare il reato contestato, dovendo così disattendersi le tesi difensive finalizzate a prospettare la qualificazione del fatto come disturbo del riposo delle persone (art.
659 c.p.) e danneggiamento (art. 635 c.p.) e ad ottenere conseguentemente declaratoria di
improcedibilità per mancanza di querela in ordine a quest’ultimo reato.
Con le dedotte doglianze il ricorrente, per contrastare la solidità delle conclusioni cui è pervenuto il giudice del merito, dunque, non ha fatto altro che riproporre in questa sede – attraverso considerazioni e deduzioni svolte prevalentemente in chiave di puro merito – tutta
la materia del giudizio, adeguatamente trattata, in relazione ad ogni singola tematica, dal
Tribunale prima e dalla Corte d’Appello poi la quale non ha mancato di esaminare le singole
deduzioni difensive, confutandole specificamente.
E’ solo il caso di sottolineare, “ad abundantiam”, che, quanto all’uso di arnesi da scasso, sul
punto non vi era stato uno specifico motivo di appello e quindi la questione non poteva essere dedotta in questa sede per la prima volta: peraltro, l’aggravante contestata – in aggiunta alla minorata difesa – era quella della violenza sulle cose, all’evidenza sussistente
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percepibile «ictu oculi», dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a

avendo i giudici di merito dato atto che erano stati rilevati, e documentati con fotografie,
segni di effrazione sulla porta d’ingresso dell’abitazione della parte lesa.
4.3. Manifestamente infondata e del tutto aspecifica è la doglianza circa il diniego delle attenuanti generiche, motivato adeguatamente dalla Corte territoriale con il riferimento alla
mancanza di qualsiasi favorevole allegazione al riguardo da parte della difesa. Mette conto
sottolineare al riguardo che con l’atto di appello la difesa si era limitata ad invocare la concessione del beneficio in argomento “da valorizzarsi al massimo della loro estensione” (cfr.

non comportava per il giudice del gravame alcun onere di risposta (cfr. Sez. 4, n. 24973 del
17/04/2009 Ud.- dep. 16/06/2009 – Rv. 244227; Sez. 5, n. 4415 del 05/03/1999 Ud. – dep.
08/04/1999 – Rv. 213114; Sez. 5, n. 7728 del 17/05/1993, imp. Maiorano, Rv. 194868, secondo cui “il giudice dell’impugnazione non ha l’obbligo di motivare il mancato accoglimento
di istanze, quando queste siano improponibili per genericità o per manifesta infondatezza”).
Mette conto sottolineare poi che, secondo un consolidato e condivisibile principio, in tema di
circostanze attenuanti generiche, posto che la ragion d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva
che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza. Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita, essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare
la mitigazione del trattamento sanzionatorio; mitigazione il cui diniego comporta un onere
motivazionale solo a fronte di una richiesta dell’imputato specifica ed argomentata, e non
genericamente enunciata come nel caso in esame. Giova peraltro evidenziare che la Corte
distrettuale ha ritenuto la pena insuscettibile di diminuzione in quanto già determinata dal
giudice di primo grado nella misura corrispondente al minimo edittale.
4.4. Parimenti destituita di qualsiasi fondamento è, infine, la richiesta di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione. La prescrizione maturerà infatti il 7 novembre 2013 dovendo considerarsi i periodi di sospensione desumibili dagli atti; a ciò aggiungasi inoltre che
il termine di prescrizione massimo, pur a prescindere dai periodi di sospensione, è comunque decorso successivamente alla sentenza impugnata (come affermato dallo stesso ricorrente nel ricorso): orbene, in presenza di gravame inammissibile per causa originaria di inammissibilità (trattandosi di doglianze concernenti apprezzamenti di merito non deducibili
in sede di legittimità e/o manifestamente infondate) non è consentito a questa Corte esaminare la questione concernente la prescrizione del reato, alla luce dei princìpi enunciati in
materia dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. Sez. Un. 22/11/2000, De Luca, e
27/6/2001, Cavalera).
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pag. 3 dell’atto di appello), con formulazione meramente enunciativa che, in quanto tale,

5. Alla declaratoria di inammissibilità segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè (trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile
alla volontà, e quindi a colpa, del ricorrente: cfr. Corte Costituzionale, sent. N. 186 del 7-13
giugno 2000) al versamento a favore della cassa delle ammende di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in euro 1.000,00 (mille).
P. Q. M.

suali e della somma di euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Roma, 17 ottobre 2013

Il Presidente

Il Cons’gliere estensore

(Carlo Gius pe Brusco)

(V ncenzo Romis)

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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
W Sezione Penale

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese proces-

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