Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 49591 del 10/11/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 49591 Anno 2015
Presidente: FRANCO AMEDEO
Relatore: RAMACCI LUCA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
SEGANFREDDO GIUSEPPE N. IL 21/05/1934
avverso la sentenza n. 30/2013 TRIBUNALE di VICENZA, del
29/04/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 10/11/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. LUCA RAMACCI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.%
che ha concluso per

Udito, per la parte civile, l’Avv
Uditi difensor Avv. i PLi e et-A/C’

6.

Data Udienza: 10/11/2015

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Vicenza, con sentenza emessa il 29/4/2014, a seguito di
opposizione a decreto penale di condanna, ha affermato la responsabilità penale
di Giuseppe SEGANFREDDO per il reato di cui all’art. 256 d.lgs. 152\06, perché,

effettuava attività di raccolta e stoccaggio di rifiuti non pericolosi, consistenti in
materiale proveniente da demolizione.
Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione tramite il
proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti
strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod.
proc. pen.

2. Con un primo motivo di ricorso deduce il vizio di motivazione, rilevando
che il giudice del merito avrebbe errato nel ricostruire la vicenda, nell’individuare
il soggetto responsabile ed il momento consumativo del reato.
Osserva, a tale proposito, che gli esiti probatori del procedimento avrebbero
escluso il conferimento di rifiuti da parte della società, risultando che la presenza
dei rifiuti sul posto era risalente nel tempo ed analizza nel dettaglio le risultanze
dell’istruzione dibattimentale.

3. Con un secondo motivo di ricorso lamenta che il Tribunale avrebbe
erroneamente omesso di dichiarare la prescrizione del reato, da tempo maturata.
Insiste, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.
Occorre preliminarmente osservare, con riferimento al primo motivo di
ricorso, che le censure formulate nell’atto di impugnazione fanno quasi
esclusivamente riferimento ad una condotta di abbandono di rifiuti che non è,
tuttavia, quella contestata nel caso in esame, avendo l’imputazione
espressamente ad oggetto le attività di raccolta e stoccaggio di rifiuti,
evidentemente in assenza di titolo abilitativo.
1

quale legale rappresentante della «DITTA SEGANFREDDO GIOVANNI s.p.a.»,

L’art. 183, comma 1, lett. o) d.lgs. 152\06 descrive la raccolta come

«il

prelievo dei rifiuti, compresi la cernita preliminare e il deposito preliminare alla
raccolta, ivi compresa la gestione dei centri di raccolta di cui alla lettera “mm”, ai
fini del loro trasporto in un impianto di trattamento».
La successiva lettera aa) definisce inoltre lo stoccaggio come «le attività di
smaltimento consistenti nelle operazioni di deposito preliminare di rifiuti di cui al
punto D15 dell’allegato B alla parte quarta del presente decreto, nonché le
attività di recupero consistenti nelle operazioni di messa in riserva di rifiuti di cui

Il punto D15 dell’allegato B alla parte quarta riguarda il

«deposito

preliminare prima di una delle operazioni di cui ai punti da D1 a D14 (escluso il
deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti)».
Le operazioni cui si riferisce l’allegato B sono quelle di smaltimento, definito
dalla lettera z) dell’art. 183 d.lgs. 152\06 come «qualsiasi operazione diversa dal
recupero anche quando l’operazione ha come conseguenza secondaria il
recupero di sostanze o di energia. L’Allegato B alla parte IV del presente decreto
riporta un elenco non esaustivo delle operazioni di smaltimento».
Tra le operazioni descritte nell’allegato B figura, al punto D1, il «deposito sul
o nel suolo» che, sulla base di quanto riportato in sentenza, sembra essere quella
rilevante nel caso di specie.

2. Risulta infatti dalla decisione impugnata che, all’atto dell’accertamento da
parte della polizia giudiziaria presso l’area di cava nella disponibilità della società
del ricorrente, il 2/7/2009, venivano sorpresi due operai intenti a

«vagliare»

«qualche centinaio di metri cubi» di «materiale composto da terre e rocce e
rifiuti provenienti da demolizione stradali ed edili di varia natura (pezzi di
cemento, pezzi di asfalto, altre demolizioni, mattoni)».
Ad un successivo sopralluogo del 10/7/2009 erano state realizzate «7 trincee
sul fondo di cava, sia sulla porzione di area destinata esclusivamente all’attività
di cava, sia sulla porzione destinata all’attività di recupero rifiuti».
Sempre da quanto specificato in sentenza, emerge che tale attività aveva
come finalità la «ricomposizione mediante riempimento» della cava ad attività
ormai cessata.
Sulla base di quanto verificato in fatto dal Tribunale, dunque, appare corretto
il riferimento, effettuato nell’imputazione, alle attività di gestione in esso
indicate, mentre del tutto inconferenti risultano i richiami del ricorrente ad
attività di abbandono. mai contestata.

3. Risulta parimenti rilevato in fatto dal giudice del merito che dette attività

2

al punto R13 dell’allegato C alla medesima parte quarta».

erano svolte, quanto meno in parte, sulla zona di cava nella quale non era
autorizzata l’attività di recupero (peraltro diversa da quelle accertate dalla polizia
giudiziaria) e che l’area oggetto dell’intervento era accessibile ai soli dipendenti
della società ed, infatti, tali erano coloro che vennero trovati sul posto.
L’attività di gestione illecita veniva dunque svolta nella sede operativa della
società, indicata anche nel capo di imputazione ed era certamente obbligo del
legale rappresentante della società medesima, in assenza di particolari assetti
societari o specifiche deleghe di funzioni, prendere cognizione della violazione di

avrebbe beneficiato dei vantaggi conseguiti dalla società dall’inosservanza delle
specifiche disposizioni in materia di rifiuti.
Va peraltro ricordato, a tale proposito, che la responsabilità per la attività di
gestione non autorizzata non attiene necessariamente al profilo della
consapevolezza e volontarietà della condotta, potendo scaturire da
comportamenti che violino i doveri di diligenza per la mancata adozione di tutte
le misure necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione e che
legittimamente si richiedono ai soggetti preposti alla direzione dell’azienda (Sez.
3, n. 47432 del 5/11/2003, Bellesini ed altri, Rv. 226868. Conf. Sez. 3, n. 19332
del 11/3/2009, Soria, non massimata; Sez. 3, n. 23971 del 25/5/2011, Graniero,
Rv. 250485. Vedi anche Cass. Sez. 3, n. 45932 del 3/5/2013, Manti, non
massimata; Sez. 3 n. 15989 del 14/3/2007, Minella, non massinnata).

4. Va pertanto ribadito che il reato previsto dall’art. 256, comma
primo, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (attività di gestione di rifiuti non
autorizzata), è ascrivibile al titolare dell’impresa anche sotto il profilo
della omessa vigilanza sull’operato dei dipendenti che hanno posto in
essere la condotta vietata.

5. A fronte di ciò, il motivo di ricorso in esame prospetta una lettura
alternativa delle emergenze probatorie, inammissibile in sede di legittimità, con
richiami ad atti del processo la cui consultazione è preclusa a questa Corte.
Basti ricordare, a tale proposito, che la consolidata giurisprudenza è
orientata nel senso di ritenere che il controllo sulla motivazione demandato al
giudice di legittimità resta circoscritto, in ragione della espressa previsione
normativa, al solo accertamento sulla congruità e coerenza dell’apparato
argomentativo con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo
e non può risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione o l’autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di
giudizio in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti (si vedano, ad esempio,

3

specifici obblighi di legge da parte dei dipendenti, considerando anche che egli

limitatamente alla pronunce successive alle modifiche apportate all’articolo 606
cod. proc. pen. dalla Legge 46\2006, Sez. 3, n. 12110 del 21/11/2008 (dep.
2009), Campanella, Rv. 243247 ; Sez. 6, n. 23528 del 6/6/2006, Bonifazi, Rv.
234155; Sez. 6, n. 14054 del 24/3/2006, Strazzanti, Rv. 233454; Sez. 6, n.
10951 del 15/3/2006, Casula, Rv. 233708).
Sotto tale profilo, tuttavia, la sentenza impugnata risulta immune da
censure, avendo il giudice del merito effettuato una valutazione complessiva
degli elementi fattuali offerti alla sua attenzione del tutto priva di contraddizioni,

detto, una inammissibile rilettura del quadro probatorio e, con essa, il riesame
nel merito della sentenza impugnata.

6. Per ciò che concerne, poi, il secondo motivo di ricorso, deve rilevarsi che,
all’atto della pronuncia della sentenza impugnata, la prescrizione del reato non
era affatto maturata.
Invero, il Tribunale ha dato atto del fatto che, al momento del sopralluogo da
parte della polizia giudiziaria, il 2 luglio 2009, le operazioni di gestione erano in
corso di effettuazione, tanto che dipendenti della società vennero trovati sul
posto intenti a «vagliare» i rifiuti, utilizzati successivamente nelle operazioni di
ripascimento della cava.
Dunque almeno da tale data andava calcolato il termine massimo
quinquennale di prescrizione, che sarebbe andato quindi a spirare il 2 luglio
2014, dovendosi ad esso aggiungere un periodo di sospensione, pari a
complessivi 294, giorni per rinvio dell’udienza, dal 18/6/2013 all’8/4/2014, in
accoglimento di istanza del difensore, con ulteriore slittamento del termine
massimo al 22 aprile 2015.
Pertanto anche le censure formulate nel motivo di ricorso in esame appaiono
manifestamente infondate.

7. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla
declaratoria di inammissibilità – non potendosi escludere che essa sia ascrivibile
a colpa del ricorrente (Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186) – consegue l’onere
delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della
Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 1.000,00.
L’inammissibilità del ricorso per cassazione per manifesta infondatezza dei
motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e,
pertanto, preclude la possibilità di dichiarare le cause di non punibilità di cui
all’art. 129 cod. proc. pen., ivi compresa la prescrizione intervenuta nelle more
del procedimento di legittimità (cfr., da ultimo, Sez. 2, n. 28848 del 8/5/2013,

4

con la conseguenza che ciò che il ricorrente richiede è, in sostanza, come si è

• s.

Ciaffoni, Rv. 256463).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese del procedimento e della somma di euro 1.000,00 (mille) in favore della
Cassa delle ammende.

Così deciso in data 10.11.2015

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